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    La categoria biblica del pellegrinaggio e il suo simbolismo



    Per una rilettura nel contesto della pastorale giovanile

    Giuseppe De Virgilio

    (NPG 2004-02-38)



    Il pellegrinaggio (peregrinitas), tema ampiamente diffuso nella Bibbia, è una istituzione conosciuta e praticata nella gran parte delle religioni antiche. Rileggere la storia biblica attraverso il pellegrinaggio e le sue applicazioni simboliche consente di cogliere un aspetto del dialogo tra Dio e l’uomo particolarmente attuale nel contesto della riflessione pastorale della chiesa di oggi. In un “mondo che cambia”, segnato da sempre nuove migrazioni e da una accentuata cultura della mobilità, a cui sono soggette soprattutto le giovani generazioni, la comunità cristiana è chiamata a riflettere e ripensare il proprio modello di evangelizzazione e di servizio. Infatti nel quadro variegato della mobilità umana, la tematizzazione di questa feconda categoria antropologica è di aiuto per comprendere i complessi meccanismi sociali del vivere odierno e alcune domande religiose che vi sono connesse.

    Nel presente contributo si vogliono mettere in evidenza gli aspetti biblici più significativi legati alla categoria del pellegrinaggio per una sua traduzione pastorale. L’analisi è semplificata in tre tappe. Dopo un accenno alla natura del pellegrinaggio come fenomeno storico-cultuale e alla sua configurazione semantica, nella prima tappa si presenta la funzione simbolica del pellegrinaggio così come è testimoniata attraverso i periodi storico-narrativi dell’Antico Testamento. Nella seconda tappa si analizza l’indole itinerante della missione di Gesù e dell’attività evangelizzatrice della comunità cristiana. Nella tappa finale si propone una applicazione dei messaggi biblici all’esperienza del pellegrinaggio nel contesto della pastorale giovanile.

    “Ogni viaggio è un pellegrinaggio”

    Lo slogan di E. Jünger tematizza una condizione antropologica dell’uomo di ogni tempo: la vita viene spesso rappresentata con la metafora di un viaggio che l’uomo intraprende verso una meta lontana e misteriosa. Il desiderio di partire, la ricerca del centro, il ritorno alla patria, la caccia al tesoro o al segreto, l’ascesa del monte o la discesa negli inferi, il passaggio del fiume o degli oceani, la ricerca di se stessi sono considerati fra i “grandi archetipi” diffusi in tutte le letterature antiche e moderne (si pensi a Ulisse, Gilgamesh, Abramo, Sindbad). Poeti e saggisti, filosofi e storici, artisti e teologi hanno descritto spesso l’esistenza umana come un lungo e tormentato viaggio, segnato da itinerari imprevedibili e da numerose prove. Quando si nasce si inizia un viaggio meraviglioso, che per alcuni diventa avventuroso, per altri di piacere, per molti di affari, per tutti di sacrificio e di un’autentica ricerca del “senso”. Come accade per i lunghi viaggi, nel percorso si fanno delle soste, necessarie per riprendere le forze. Sono soprattutto i giovani i protagonisti dell’avventura itinerante, coloro che percorrono le “diverse strade” del mondo e del tempo per conquistare la meta desiderata. Il viaggio come esperienza esistenziale nasce dalla decisione personale di mettersi in marcia, di uscire dalle proprie sicurezze per andare verso un’altra terra, con il desiderio di conquistare la meta. Il desiderio che accompagna il cammino peregrinante nasce in ultima analisi dalla ricerca dell’Assoluto e dall’invocazione verso Dio.
    Parafrasando la categoria narrativa del viaggiare, anche alla base del pellegrinaggio nella Bibbia c’è l’idea del “viaggio”, del percorso da un luogo ad un altro attraverso una strada che Dio indica a singoli o ad un intero popolo, per portare a compimento il suo progetto di salvezza. Per l’uomo biblico andare in pellegrinaggio significa affrontare per gradi un passaggio dal tempo e dallo spazio “profano” a quello sacralmente qualificato (F. L. Cardini). Nel decidere il pellegrinaggio il credente raccoglie la propria esistenza per affidarla alla protezione di Dio. Preparazione, itinerario, tappe intermedie, riti di purificazione, preghiere, fino a raggiungere la meta, fanno parte della grande storia della comunità ebraica e cristiana. Si può affermare che nei testi ispirati l’idea del pellegrinaggio fa da sfondo a tutta la storia della salvezza, dai racconti della creazione all’epilogo invocativo del libro dell’Apocalisse. Brani narrativi, composizioni salmiche, eventi miracolosi, elaborazioni legislative, racconti edificanti, lotte e guerre, insegnamenti sapienziali, aspetti morali, discorsi escatologici, preghiere e apologhi sono abilmente collocati lungo la narrazione della storia del cammino del popolo. Un simile procedimento si individua nei vangeli (cf il viaggio di Gesù verso Gerusalemme) e nella letteratura del Nuovo Testamento (cf i percorsi negli Atti).

    Aspetti ed espressioni letterarie del pellegrinaggio

    Sussiste un’ampia documentazione extra-biblica riguardante i pellegrinaggi dell’antichità e le arterie viabili che percorrevano i gruppi per raggiungere i luoghi di culto. In genere la visita al luogo santo, che definisce la meta del pellegrinaggio, è preparata da riti di purificazione e si svolge nell’ambito di un’assemblea che rende manifesta ai fedeli la comunità religiosa alla quale appartengono. L’esperienza peregrinante presso le culture antiche ingloba tre motivi fondamentali legati a questa espressione religiosa:
    - l’idea che Dio in circostanze speciali si lascia avvicinare in maniera particolare;
    - tale forma particolare di incontro con Dio accade in luoghi determinati, che diventano perciò meta di pellegrinaggi;
    - perché si possa ottenere una benevolenza è necessario intraprendere un viaggio verso questo luogo della salvezza (salute), in modo tale che il viaggio costituisca una unità con la visita al santuario e il rimanere in esso (E. Sauser).
    Un esempio ci proviene dalle numerose testimonianze di pellegrinaggi cultuali della tradizione greco-romana, che teneva in grande considerazione alcuni santuari dell’epoca (Epidauro, Pergamo, Atene, Roma). Oltre alle richieste di protezione della salute e della pace, i templi erano luogo di rivelazione oracolare e di predizioni del futuro, sia per i singoli privati che per conto di gruppi e in situazioni di deliberazioni di portata nazionale (Delfi, Efeso). Alcuni santuari erano ritenuti luoghi privilegiati per stipulare alleanze e atti ufficiali, che, per l’autorevolezza e la ieraticità del posto, venivano sanciti da un vincolo sacro. La dimensione del pellegrinaggio era sentita nel contesto del cristianesimo dei primi secoli (cf il “diario di viaggio” di Eteria) a tal punto che l’apologista Giustino contrappone la forza taumaturgica di Cristo all’opera di Esculapio (cf I. Ap I,22,6). Un capitolo a parte andrebbe dedicato all’evoluzione della pratica dei pellegrinaggi nella tradizione ecclesiale medievale e al culto delle reliquie dei santi. Va sottolineato il fatto che numerosi aspetti che caratterizzano la prassi del pellegrinaggio si ritrovano tematizzati nell’interpretazione biblica.
    Israele è presentato nei racconti biblici come “popolo peregrinante” per eccellenza. La tradizione storico-teologica e la memoria della propria origine (Dt 26,5: Abramo è definito “arameo errante”) richiamano all’esperienza del cammino religioso, connesso con il pellegrinaggio. Le forme letterarie che indicano lo stato di peregrinazione dei singoli e di un gruppo sociale sono varie e si collegano generalmente con i verbi “recarsi-camminare” (Tb 1,6: eporeuomen), “uscire-entrare-procedere in avanti processionalmente” (js’-bo-’- hag: Es 3,10-12; 19,17; Lv 11,45) e “salire” (‘lh: cf Es 34,24; Ger 31,6; Sal 122,4). In particolare l’azione del salire denota il movimento dell’ascesa dal basso verso l’altura, sede di antichi santuari (Silo, Betel, Galgala, Bersabea) e successivamente del tempio di Gerusalemme. Le attestazioni neotestamentarie per indicare chi esce fuori dal suo paese per breve tempo e va a soggiornare in un altro ambiente, sono generalmente riassunte nell’uso dei verbi di movimento ekdemeo e apodemeo, mentre la figura del pellegrino è designata con l’espressione parepidemos (1Pt 1,1; 2,11; Eb 11,13; Mc 13,34: apode-mos). In definitiva il senso ultimo del pellegrinaggio è quello di raggiungere in un tempo festivo un santuario situato su un’altura. Tuttavia la rilevanza del tema va colta nell’impiego teologico del viaggiare verso una meta religiosa, che implica un cammino interiore nella fede e nella speranza, elementi centrali della descrizione del pellegrinaggio.

    La funzione simbolica del pellegrinaggio nelle narrazioni dell’AT

    Possiamo individuare schematicamente quattro periodi che caratterizzano il tema del pellegrinaggio nell’Antico Testamento e ne mostrano l’evoluzione teologica: il periodo patriarcale, il periodo monarchico, il periodo post-esilico e il periodo della diaspora.

    Il periodo patriarcale

    La testimonianza che ci proviene dalle storie patriarcali rilevabili nel libro della Genesi evidenzia quanto la memoria religiosa contenuta nelle tradizioni ebraiche fosse legata alla categoria del viaggio e del pellegrinaggio. In senso proprio il libro riferisce di un solo pellegrinaggio, quello di Giacobbe con la sua famiglia a Betel (Gn 35,1-8), ma più volte vengono presentati patriarchi in cammino verso diversi santuari, alture e luoghi sacri (Sichem: Gn 12,6; Mamre: Gn 18,1: Bersabea: Gn 26,23-25; Betel: Gn 28,12), prima della realizzazione di un luogo centralizzato del culto (che si realizzerà con la conquista di Gerusalemme e la costruzione del primo tempio salomonico, cf 1Re 6). In questo periodo della storia patriarcale si anticipano già le costanti religiose e sociologiche che saranno recepite nella tradizione successiva: la ricerca dell’incontro con Dio e l’invocazione del nome di Jahvé sotto diversi titoli, con descrizioni di esperienze teofaniche (Gn 12,8; 13,4; 21,33; 33,20); la costruzione di altari, stele, la presenza di alberi sacri (Gn 13,4; 26,25; 33,20); la formazione graduale di rito liturgico compiuto dai pellegrini: le unzioni con olio (Gn 28,18; 35,14), le purificazioni (Gn 35,2ss.), l’offerta della decima (Gn 14,20; 28,22).
    Oltre alla testimonianza genesiaca, l’evoluzione delle forme di pellegrinaggio è testimoniata nella letteratura storica mediante le attestazioni di assemblee religiose e santuari di varia importanza. Tra questi vanno ricordati i santuari di Sichem (Gs 24, 25; Gdc 9,6; 1Re 12,1-9), Betel (1Sam 10,3; 1Re 12,29ss.; Am 5,5; 7,13) e Bersabea (Am 5,5). Occorre inoltre notare che nella legislazione ebraica, fin dai codici più antichi (Es 23,14-17; 34,18-23) si prescrive a tutta la popolazione maschile di fare un pellegrinaggio (“presentarsi davanti al Signore”) almeno tre volte all’anno. In occasioni delle feste questa prescrizione veniva adempiuta in diversi santuari del paese, facendo memoria della dimensione “itinerante” del popolo eletto, che dalla terra di schiavitù era stato tratto in salvo da Jahvé, nel suo esodo di liberazione e di vita verso la terra promessa.

    Il periodo monarchico

    Con l’instaurazione della monarchia ebraica, soprattutto sotto Davide e Salomone, si dà inizio ad un processo di centralizzazione cultuale che vede Gerusalemme e il tempio salomonico diventare gradualmente meta dei pellegrinaggi annuali. La presa della Città santa (1Sam 5) e la descrizione trionfale dell’ingresso dell’arca dell’alleanza in Gerusalemme (2Sam 6) testimoniano come l’unificazione del regno trovi la sua visibilità nella solenne liturgia templare. Le alterne vicende politico-militari della monarchia israelitica non diminuirono l’usanza dei pellegrinaggi religiosi, anche se nacquero nel contrasto tra i due regni, ulteriori santuari locali (Betel, Dan, cf 2Re12,26-33) di carattere idolatrico. Successivamente con la riforma religiosa di Giosia ed Ezechia si soppressero i santuari locali (2Re 18,4.22) e si fissò a Gerusalemme il calendario delle feste ebraiche (Pasqua, Settimane, Capanne, cf 2Re 23; Dt 16,1-17), che diventarono occasione per riorganizzare le assemblee religiose, radunare il popolo e compiere i pellegrinaggi presso il tempio. Anche se nella storia successiva trovò resistenze e difficoltà, questo importante sviluppo religioso rappresentò un sicuro punto di riferimento per i reduci dall’esilio babilonese che continuarono a vedere Gerusalemme unica città santa e luogo della promessa messianica di Jahvé. In tal modo la pratica del pellegrinaggio diventa sempre più un’espressione necessaria nella tradizione religiosa e liturgica di Israele, motivo di preghiera e di difesa contro le influenze idolatriche provenienti dai popoli vicini.

    Il periodo post-esilico

    La tragedia dell’esilio rappresenta un momento critico della storia e dell’identità spirituale di Israele. La distruzione del tempio (2Re 25,8-17), l’esperienza devastante della divisione, della morte e della deportazione dei reduci, il fallimento di una fedeltà che si credeva indistruttibile, hanno lasciato un segno indelebile nell’animo dell’israelita che sempre fa memoria dell’evento nel sua preghiera: “Hanno dato alle fiamme il tuo santuario… hanno bruciato tutti i santuari di Dio nel paese… non ci sono più profeti e tra di noi nessuno sa fino a quando…” (Sal 74,7-9). È il grido di lamento su Gerusalemme e i suoi figli, espresso in modo unico nel libro delle Lamentazioni! La fine della liturgia templare e la conquista di Gerusalemme da parte dei nemici significano che Jahvé ha rotto l’alleanza con il suo popolo (cf Ez 10-11) e che a sua volta Israele è chiamato a “ritornare a Dio” (Ger 3,14-18), a rifare il cammino della fede per ritrovare la pace (Is 52,7-10).
    Dopo il ritorno dalla cattività babilonese, i reduci riebbero la consapevolezza dell’importanza di Gerusalemme, del suo tempio ricostruito (Esd 6) e delle festività che celebravano la rinnovata fedeltà di Dio per il suo popolo. Unitamente alla situazione religiosa, si aggiungono nuovi significati a partire dalla denuncia profetica, applicati alla rilettura teologica dell’esilio babilonese: la categoria del pellegrinaggio diventa sinonimo dell’esodo, memoria di sofferenza e di liberazione. In tal modo rifare il cammino verso Gerusalemme è presentato, nella predicazione profetica, come annuncio di un “nuovo esodo” (cf Is 40,3; 41,17-20; 42,7-16; 51,9-16). Nel contesto della predicazione di Esdra la costruzione del secondo tempio ha permesso di unire il tema del pellegrinaggio a quello del messianismo e dell’attesa degli ultimi tempi. In una terra ormai soggiogata da imperi stranieri, la comunità israelitica vive come “pellegrina”, sperimenta l’umiliazione (“poveri di Jahvé”) e aspetta il compimento della salvezza. Non c’è più la presenza di un regno, ma rimane l’attesa del messia che rialzerà le sorti del popolo eletto.
    Il pellegrinaggio diventa una chiave interpretativa del cammino di speranza e di attesa del popolo. Più volte all’anno i pellegrini continuano a recarsi a Gerusalemme per invocare il nome del Signore e la sua protezione. Una testimonianza significativa è contenuta nella collezione dei salmi delle ascensioni (Sal 120-134), che presenta un ricco quadro di motivi legati alla “spiritualità del pellegrinaggio”. L’orante in cammino “alza gli occhi verso i monti” per contemplare Dio come custode di Israele (Sal 121; 123; 127); esprime la gioia del suo incedere verso la città di Davide, fino ad arrivare davanti alle sue porte (Sal 122) e chiedere per sé e i suoi fratelli il dono della “pace” (Sal 122,8-9). La beatitudine consiste nel camminare sulle vie del Signore (Sal 128), nel pregarlo “giorno e notte” (Sal 134), nel gioire del ricordo dell’arca dell’alleanza portata in pellegrinaggio nella città beata (Sal 132), nel contemplare l’opera fedele di Dio che libera i prigionieri di Sion, i quali, come torrenti in piena, fanno ritorno in patria in mezzo a canti di festa (Sal 126). La riflessione sapienziale si unisce alla dimensione profetico-escatologica e sull’esempio dei pellegrinaggi si pensa e si attende l’apparizione finale di Jahvé, l’arrivo del suo giorno (Sof 1,14.16), nel quale tutti i popoli si uniranno come in un pellegrinaggio verso il monte Sion (Is 2,2-5; Zac 14,16-19), dove il Signore realizzerà la salvezza e la pace universale (Tb 13,11).

    Il periodo della diaspora

    Un ultimo aspetto collegato con la categoria del pellegrinaggio è storicamente segnato dal fenomeno della diaspora, seguita alla violenta reazione delle truppe romane nel corso del I° secolo d.C. Infatti con la conquista romana e la doppia presa di Gerusalemme (nel 69-70 e successivamente nel 133 d.C.) si consuma definitivamente la vicenda nazionale del popolo ebraico e l’idea del pellegrinaggio assume un ulteriore significato: il popolo disperso in mezzo a tutte le genti vive come in un pellegrinaggio permanente e, pur attestandosi nelle diverse città e regioni del mondo, rimane per natura “errante” sulla terra. La situazione di peregrinitas è diventata quasi una definizione dell’ebreo. Il grande pellegrinaggio della vita e della fede è segnato dalla sofferenza, dal dolore e dall’inesorabile cammino continuo verso la terra promessa e definitiva. Per tale ragione a nessun ebreo della diaspora è concesso di dimenticare la propria nazione e la sua città santa, così come nessun esiliato poteva lasciar cadere dal suo cuore il ricordo di Gerusalemme: “Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia” (Sal 137, 4-6). Il ricordo di Gerusalemme e la sofferenza del suo popolo si fa desiderio struggente nel cuore di ogni ebreo pellegrino. Così la celebrazione della Pasqua fa ripetere al capo famiglia, al termine del rito, lo struggente desiderio che il pellegrinaggio si compia una volta per tutte nella città di Dio: “Quest’anno schiavi qui in terra straniera, il prossimo anno liberi a Gerusalemme!”

    Il pellegrinaggio nella prospettiva kerigmatica del Nuovo Testamento

    La tradizione ebraica relativa al pellegrinaggio viene assunta e rielaborata nell’ambiente cristiano, alla luce del messaggio di Gesù e delle conseguenze derivanti dall’evento pasquale. Nei vangeli si fa cenno alla tradizione peregrinante della comunità ebraica. Come era usanza del tempo, anche la famiglia di Gesù si reca in pellegrinaggio a Gerusalemme per obbedire alla legge (Lc 2,41s.) e nel corso della missione pubblica il Signore stesso salirà alla città santa in occasione di diverse festività ebraiche (Gv 2,13; 5,1; 7,14; 10,22s; 12,12). Nondimeno, accanto alla pratica dei pellegrinaggi presso i santuari, va evidenziato nei vangeli la presentazione della missione del Cristo descritta come un “viaggio” verso la città santa, dove il Signore porta a compimento la rivelazione del Padre culminata nell’evento pasquale. Dunque la categoria del “pellegrinaggio” diventa una chiave di lettura teologica del ministero pubblico del Signore.
    In particolare è il terzo evangelista a proporre una “rilettura itinerante” della missione di Gesù, riassumendola in un percorso insieme geografico e teologico, che inizia a Nazareth (Lc 4,16-30) e si conclude a Gerusalemme (Lc 9,51; 19,28; 24,47). Nel suo progetto narrativo si coglie come la forma del “camminare” rappresenta una dimensione costitutiva della novità cristologica: il discendere del Figlio nella storia (Lc 1,34-38; cf Gv 1,14), il camminare per le strade degli uomini recando loro il vangelo (Lc 4,18.43), la chiamata a seguirlo rivolta ai discepoli (Lc 5,1-11), la strada del suo pellegrinaggio diventa via di sequela (Lc 5,11), di evangelizzazione (Lc 9,1-6; 10,1-20) e di visita nelle “case degli uomini”, prima di fare l’ingresso a Gerusalemme e in particolare nel “tempio”, il cuore del mondo ebraico. Infine l’ascensione al Padre costituisce l’ultimo tratto del peregrinare del Figlio nella storia (Ef 4,9-10).
    Possiamo utilmente ripercorrere il vangelo lucano, seguendo l’itinerario pellegrinante delle “case” che caratterizzano il “salire” di Cristo verso il suo destino. Anticipando il ministero pubblico, l’evangelista ci presenta la “casa dell’eccomi” di Maria (Lc 1,26-38) e il suo primo “pellegrinaggio” verso la dimora di Elisabetta (Lc 1,39-45). La nascita di bambino è collocata in una casa-stalla di Betlemme (Lc 2,1-20) e successivamente la sua vita domestica si svolge a Nazareth, dove Gesù “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza” (Lc 2,39-40). L’evangelista narra in forma solenne l’inizio del ministero pubblico a partire dalla sinagoga di Nazareth (Lc 4,16-30), tra i compaesani che respingono la sua Parola. Da quel momento il camminare del Cristo (Lc 4,30: eporeueto) diventa compimento del “mandato profetico” (Lc 4,18-19), itinerario di salvezza e di liberazione per i poveri, segnato dalle diverse tappe domestiche. Sembra quasi che non sia il tempio di Gerusalemme, la meta del viaggio di Gesù, ma il cuore della gente che si apre al vangelo, che spalanca le porte delle proprie case per accogliere il “grande profeta” (Lc 7,16) e la sua misericordiosa presenza (Lc 19,9-10).
    In questa luce va interpretato il passaggio del Cristo e dei suoi discepoli per le diverse case della gente: l’ospitalità presso la casa di Simon Pietro (Lc 4,38-39), la casa di Levi il pubblicano, chiamato alla sua sequela che si apre alla festa (Lc 5,27-32), il suo andare “verso la casa” del centurione, uomo dalla grande fede, per guarire il suo servo (Lc 7,1-10) e la casa di Simone il fariseo, dove Gesù incontra e perdona la donna peccatrice (Lc 7,36-50), la casa di Giàiro, in cui si compie l’evento della risurrezione della figlioletta (Lc 8,40-56) e la casa di Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, icona dell’amicizia (Lc 10,38-42), la guarigione di un idropico mentre era in casa di uno dei farisei (Lc 14,1-6) e il detto sul discepolato che chiede di “lasciare le proprie case” per seguire il Cristo (Lc 18,28-30), la casa di Zaccheo, che rappresenta il luogo della conversione e della salvezza (Lc 19,1-10), il segno della purificazione del tempio “casa di preghiera” (Lc 19,45), la casa degli apostoli a Gerusalemme, dove Pietro fa ritorno pieno di stupore dopo aver visitato la tomba vuota (Lc 24,12) e la casa dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), che diventa luogo del riconoscimento eucaristico e dell’annuncio del Risorto. A questo itinerario di Gesù va aggiunto il cammino della comunità cristiana, segnato dall’annuncio del vangelo che da Gerusalemme si espande fino agli “estremi confini della terra” (At 1,8), passando attraverso le molte case e le diverse strade della gente.
    Dal kerigma pasquale deriva un nuovo significato applicato al tema del pellegrinaggio. Il rifiuto totale della proposta del vangelo da parte degli scribi e dei farisei (Lc 11,37-53) e la predizione del Signore circa la distruzione del tempio (Lc 21,5-7) determineranno nella coscienza della comunità post-pasquale l’abbandono del culto sinagogale e templare e con esso dei pellegrinaggi legati alla concezione religiosa veterotestamentaria. La persona glorificata di Gesù, colui che ha vinto la morte, è oramai il centro della fede dei credenti, i quali non si sentono più legati in un luogo terreno (cf Gv 2,19.21; 4,21-23), ma sono chiamati a vivere l’esperienza cristiana come un pellegrinaggio escatologico (2Cor 5,6ss.; Eb 13,14). La nuova valenza conferita all’idea del pellegrinaggio congiunge la categoria temporale e quella spaziale non più finalizzata ad un calendario o ad un luogo sacro, ma al mandato evangelico e alla sua diffusione universale.
    La descrizione della vita della comunità cristiana svolta nel libro degli Atti fotografa la condizione nuova dei cristiani, inviati ad evangelizzare i popoli nei luoghi più lontani del mondo abitato. Il percorso itinerante dei primi missionari è narrato seguendo tappe e protagonisti, a partire dal dono dello Spirito nella Pentecoste (At 2,1-13). L’evangelizzazione graduale dalla Giudea, verso la Samaria, si estende ai confini della terra mediante la peregrinazione del vangelo, secondo l’affermazione profetica del Signore nel giorno dell’ascensione: “… avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). Il cristianesimo nascente è denominato la “via” (At 9,2; 18,25; 24,22) e i credenti hanno ormai la consapevolezza di aver trovato la strada che non è più la Legge antica, ma la persona del Cristo crocifisso e risorto (cf Gv 14,6).
    Prima Pietro e successivamente Paolo diventano i propagatori della “parola del vangelo”, mettendosi in cammino verso le città ebraiche e pagane. È in particolar modo l’Apostolo delle genti che rilegge il suo servizio al vangelo come un “pellegrinaggio” verso Dio. L’infaticabile esperienza missionaria paolina diventa una tangibile dimostrazione del cambiamento di prospettiva apportato al movimento cristiano. Paolo non solo rievoca personalmente l’usanza del pellegrinaggio in occasione della festa di Pentecoste (At 20,16; 24,11), ma si definisce e si presenta ai suoi interlocutori nelle vesti di un pellegrino “in corsa” (1Cor 9,24-27), a partire dall’ora cruciale del suo incontro mistico con Dio sulla via di Damasco (At 9,7) fino all’epilogo di un’esistenza spesa per Cristo (2Tm 4,6-8).
    La categoria del pellegrinaggio è più volte rievocata nelle lettere neotestamentarie per esprimere la forza propulsiva della fede cristiana e della sua operosità. Essa è intesa come “movimento in avanti” (2Tes 4,17), dinamismo itinerante (Gal 5,16; Ef 5,2; Col 2,6), corsa verso una meta (At 20,24; Eb 12,1; 2Tm 4,7), strada aperta per l’evangelizzazione (Rom 1,10). La comunità dei credenti non si basa più sulla distinzione etnica dei suoi membri (Gal 3,28), né su antichi riti di purificazione (Gal 5,6-11), ma si autocomprende come “popolo straniero e pellegrino” (1Pt 2,11), a somiglianza di quanti per fede decisero di mettersi in cammino per obbedire alla voce di Dio (Eb 11,13). Questo pellegrinaggio è da intendersi come “terzo esodo”, dopo quello dall’Egitto e da Babilonia, che accade mentre la storia va verso il suo compimento (2Pt 3,5-17). Secondo questa visione, i credenti vivono al presente un permanente pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste (Gal 4,25; Eb 12,22; Ap 3,12; 21,2.10) e senza fuggire la sfida della storia, camminano in questo tempo penultimo aspettando l’incontro con “Colui che viene”, l’Ultimo e il definitivo (Ap 1,8).

    Spunti per una rilettura del pellegrinaggio nel contesto giovanile

    La ricchezza dei messaggi biblici emersi evidenzia quanto la categoria del pellegrinaggio sia collegata con diversi temi e motivi della pastorale giovanile. Infatti la presentazione della vita cristiana come pellegrinaggio, movimento, dinamismo missionario, operosità, condivisione nella speranza esalta le attese dei giovani. Nella prospettiva del “cammino di fede” i giovani sono invitati a guardare all’esperienza ecclesiale come una realtà in movimento, che li chiama “dentro una storia di pellegrinaggio” e li fa diventare compagni della vita di ciascun uomo in cerca di Dio. Dalla modalità dei pellegrinaggi delle Giornate Mondiali della Gioventù si possono dedurre alcuni motivi che traducono i principali momenti dell’itinerario biblico. Considerando le componenti motivazionali del pellegrinaggio (D. Sigalini), proponiamo una rilettura attraverso cinque tappe che segnano il percorso di un’esperienza itinerante: la decisione di farsi “pellegrino”, la preparazione e la partenza; il cammino e l’incontro con l’altro; l’arrivo alla meta; il ritorno alla vita quotidiana.

    La decisione di “farsi pellegrino”

    La sorgente vitale di ogni pellegrinaggio sta nella decisione di “mettersi in cammino” e di accettare lo status proprio del pellegrino con tutte le sue rinunce. In primo luogo si diventa pellegrini solo se si sceglie intimamente di partire e tale scelta coinvolge tutta la persona. È questa la prima condizione testimoniata dai racconti biblici. Come Abramo chiamato da Dio a lasciare la propria terra obbedì alla vocazione e si mise in cammino verso una nuova realtà (Gen 12,1-4; Sir 44,19-21), così il giovane comincia con un preciso appello progettuale che chiede di rimettersi in discussione e di lasciare le proprie certezze per un disegno più grande. La tradizione cristiana, memore della ricchezza biblica e spirituale dei secoli passati, non riduce il pellegrinaggio all’esperienza di un momento che si consuma nella eccezionalità dell’evento vissuto, ma chiede di entrare nello spirito itinerante e di accettare l’imprevedibilità e la sfida del cammino. In questo senso “farsi pellegrino” implica un atteggiamento di fiducia, una ulteriore dose di affidamento, una risposta di fede e di apertura nella speranza.

    La preparazione e la partenza

    La preparazione è il momento che precede la partenza. Dalla decisione del cuore si passa all’aspetto operativo non privo di tentazioni e difficoltà. Chi si accinge a partire per un viaggio deve portare con sé il necessario, svuotarsi delle comodità, avendo chiara la finalità della meta e i mezzi per raggiungerla. Le immagini del sacco, dello zaino, della borsa, evocano simbolicamente la capacità “fare sintesi” guardando avanti, di saper fare a meno delle cose inutili che potrebbero appesantire e ostacolare il viaggio. Dunque la fase della preparazione diventa già una prima “purificazione” delle motivazioni per le quali si sceglie di camminare. L’esempio ci deriva dalla narrazione dell’esodo dall’Egitto, che si compie nella notte della Pasqua: il popolo si prepara al “pellegrinaggio” nelle condizioni di un popolo nomade, in piedi, senza il tempo di far lievitare i pani (Es 12,17-20.39), cinti i fianchi e pronti per partire (Es 12,10ss.). La tentazione è quella del ripensamento, della stasi, della pretesa di sapere e di calcolare ogni cosa, di portare con sé ricchezze, ori, pretese sicurezze che nel corso del viaggio potrebbero diventare idoli (cf Es 32,1-6). Il pellegrinaggio della vita implica l’essenzialità, è contrassegnato dall’imprevedibilità, così come l’itinerario esodale fu caratterizzato dalla nostalgia della schiavitù e dall’invito ad un perseverante obbedienza di fronte ai segni che Jahvé poneva sulla strada del popolo nel deserto. È quindi fondamentale avere la consapevolezza che la preparazione del viaggio non segue la legge umana dei calcoli e dei compromessi, ma chiede a ciascuno di avanzare nella fiducia, di assumersi quotidianamente la responsabilità del cammino e della condivisione.
    Alla preparazione segue la partenza, cioè il distacco dalle proprie certezze umane e dalla propria terra. Lasciare una parte della propria storia per affidarla a Colui che ci ha chiamato è la condizione ineludibile del pellegrino. In questo senso mettersi in cammino significa “farsi povero”, rendersi disponibile alla capacità di ascolto, al desiderio di comunione, alla conoscenza di altri e di nuove realtà. La partenza costituisce la prima grande risposta all’appello di Dio e implica l’abbandono delle proprie comodità e la speranza di poter superare la prova per conquistare la meta.

    Il cammino e l’incontro con l’altro

    Nel corso del cammino, tra le diverse situazioni vissute, si fanno due principali esperienze. La prima è data dalla capacità di misurare la propria persona di fronte alla fatica e alla difficoltà di guardare avanti, e la seconda è costituita dall’incontro con coloro che sono accanto e condividono la medesima strada. Non c’è pellegrinaggio senza una strada da percorrere, come non c’è strada senza fatica e stanchezza. Il percorso concreto rappresenta un invito a verificare la propria vitalità e a rettificare i propri modi di pensare se stessi e la realtà che ci circonda. Nelle narrazioni bibliche che descrivono le tappe del popolo eletto verso la terra promessa si presenta costantemente la valenza pedagogica dell’itinerario nel deserto. Si tratta di un cammino geografico e insieme di un cammino spirituale: la comunità ebraica “dalla dura cervice” è invitata a spalancare i propri orizzonti spirituali e a mantenersi fedele all’alleanza stipulata con Jahvé (Es 19-24; 34). Allo stesso modo il pellegrinaggio ha una meta geografica e un tempo prefissato, ma l’obiettivo principale è quello di “far camminare” i pellegrini, che sono i giovani, verso una riflessione più profonda intorno alla vita e al progetto di Dio su di essa.
    In questa prospettiva si comprende come la valenza del cammino non si misura dalla quantità della strada percorsa, bensì dalla capacità di maturare la dimensione della propria fede e di offrire in dono la propria esistenza. La ricerca di senso, il bisogno di giustizia e di verità, la voglia di scoprire e costruire amicizie sincere, la capacità di rispondere all’appello di Dio costituiscono gli aspetti cruciali dell’itinerario giovanile, vissuto “insieme” in uno stile di fraternità. Sulla strada non si è soli, ma si sperimenta la compagnia di altri fratelli e sorelle. L’assemblea di Israele, pur articolata in dodici tribù (cf Nm 1-2), sente di essere un unico popolo in viaggio verso la terra promessa. L’incontro con l’altro rappresenta una dimensione costitutiva del pellegrinaggio. Sulla strada si fa conoscenza, si instaurano legami, si condivide la fatica e la festa, si pregusta l’incontro finale. L’altro è un aiuto per conoscermi, per accettarmi, per cambiare in meglio, per vivere l’amore vero attraverso l’ascolto e il servizio. La vocazione espressa nel simbolismo del pellegrinaggio va interpretata in rapporto alla comunità e non può ridursi ad una dimensione privata. Allo stesso modo la relazione con l’altro è sempre un dono che Dio concede per sperimentare la sua misteriosa presenza e protezione.

    L’arrivo alla meta

    L’itinerario del pellegrinaggio culmina con l’arrivo alla meta. Le attese della partenza si compiono dopo la fatica della lunga strada e la pazienza del tempo trascorso nel cammino. È il momento dell’incontro con Dio che produce gioia, ringraziamento, lode. Tre sono i motivi che segnano questa tappa: il fermarsi nel segreto della preghiera, dell’intercessione e della contemplazione, con cui il pellegrino affida al suo Signore la propria vita e gli affetti più profondi; la memoria del proprio passato e della realtà che ha lasciato alle spalle; l’impegno di conversione e di rinnovamento della propria vita. La meta, condivisa con l’intera comunità, è insieme punto di arrivo dell’itinerario e condizione per ripartire con il cuore trasformato dall’incontro. La stessa esperienza si ripete nell’ingresso di Canaan, quando le tribù guidate da Giosuè si attestano gradualmente nella terra promessa e, una volta riunite in Sichem, confermano l’alleanza verso Jahvé, il Dio fedele alle promesse (Gs 24). La conquista della meta indica una crescita nella maturità, punto di arrivo della conoscenza di sé, consapevolezza delle proprie potenzialità e dei limiti. Il pellegrinaggio è da intendersi come una prova esistenziale che deve produrre una crescita integrale della persona, infondere la sapienza “dall’alto” fondata sulla fede in Dio, contribuire a superare l’atteggiamento arrogante del sentirsi arrivati e favorire l’apertura del cuore alla capacità di saper costruire il proprio futuro.

    Il ritorno alla vita quotidiana

    All’entusiasmo del pellegrinaggio, segue il ritorno nella quotidianità, contrassegnato dalla fase della normalità, della rielaborazione e della narrazione dell’esperienza vissuta. La conseguenza del pellegrinaggio è quella di “cambiare” la sorte della propria vita. In tale prospettiva il ritorno alla quotidianità diventa il banco di prova del cammino svolto. Tornando alle cose di sempre, alle relazioni interpersonali nella famiglia, alle scelte della vita di ogni giorno, i giovani devono sentirsi protagonisti di una storia rinnovata dall’amore di Dio, disponibili a trasformare e interpretare l’ordinario in modo straordinario, pronti a spendersi con coraggio per l’annuncio del vangelo e la costruzione di un mondo nuovo. Dopo aver cercato e trovato alcune risposte alle domande esistenziali, i giovani si sentono coinvolti nel nuovo cammino che si apre davanti a loro. L’avventura itinerante ha messo a nudo la debolezza della condizione di vita, ha spogliato delle certezze effimere e ha aiutato a crescere nell’ascolto della Parola e nella conoscenza del cuore. Come il seme nella terra, colui che accoglie la logica del pellegrinaggio si lascia seminare nel vissuto della propria comunità, perché, fecondato dall’azione dello Spirito, possa rispondere con disponibilità il proprio “eccomi” al Signore e spendersi per la costruzione il Regno.

    Conclusione

    Il nostro percorso ha inteso rileggere, nella prospettiva del grande “esodo biblico”, lo status viatoris dei giovani e la loro voglia di mettersi in cammino, di uscire in modo “estatico” (ek-stasi) da se stessi per andare verso l’Altro. In questo senso diversi autori della tradizione cristiana hanno letto la condizione esistenziale del credente attraverso l’idea dell’homo viator (G. Marcel) in marcia verso la città di Dio (S. Agostino), nel senso di un viandante in cammino verso la meta ultraterrena. Nella stessa accezione latina di peregrinus (dal latino “ire per agros”: andare attraverso i campi) si vuole indicare l’identità dell’uomo che vive da straniero rispetto al destino caduco della città, sede del consorzio umano, ma anche l’appartenenza del credente ad una “patria” e ad una cittadinanza che è nei cieli (Ef 2,12). In questa duplice valenza, terrestre e celeste, l’esperienza del pellegrinaggio va reinterpretata come chiave ermeneutica del nostro tempo, soprattutto nella relazione tempo-spazio vissuto dai giovani. Chiamati da Dio a partire come “pellegrini”, i giovani sono estranei al mondo, pur vivendo “dentro” la storia (cf A Diogneto, V), non si differenziano dagli altri né per territorio, né per lingua né per costumi, ma sono come l’anima del mondo, in cammino verso Dio, perché la fede ha messo nel loro cuore il dono spirituale del pellegrinaggio.


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