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     Il pellegrinaggio,

    un'esperienza di

    maturazione umana e cristiana

    Ab. Donato Ogliari osb - Montecassino

    montecassino-10

    Che si tratti del “Cammino di Santiago”, capace di mettere in moto centinaia di migliaia di persone ogni anno, o che si tratti di un pellegrinaggio legato ad un luogo di culto locale, o di un pellegrinaggio dal sapore “monastico”, come quello che da Montecassino porta a S. Vincenzo al Volturno, il contesto nel quale ci si muove dovrebbe comunque essere un contesto di fede.

    1. Il pellegrinaggio come cammino di conversione

    Il pellegrino non è un trekker, anche se va a piedi come quest’ultimo, né è un semplice turista che si mette in cammino con l’unico interesse di ammirare i luoghi d’arte che attraversa o la natura che lo circonda. Di per sé il pellegrino non è neppure un mendicante di silenzio e di solitudine (anche se essi sono ingredienti necessari del pellegrinaggio), dal momento che tali realtà possono essere praticate in qualsiasi luogo appartato,
    Il pellegrinaggio religioso, nella fattispecie quello cristiano, è caratterizzato da un’aspettativa di fondo che, anche se variamente motivata a seconda del vissuto di ciascun pellegrino, implica una nostalgia di infinito, di trascendenza, che prima o poi – coscientemente o in maniera irriflessa – fa capolino. In fondo il pellegrinaggio cristiano simboleggia bene la nostra vita terrena. Ci ricorda che siamo fatti di cielo e che il nostro cammino su questa terra altro non è che un pellegrinaggio verso la meta definitiva, che è anche la nostra dimora definitiva, la “Gerusalemme celeste”. È dunque nella prospettiva di un’esperienza del trascendente, di Dio, che il pellegrino si mette in moto, nella speranza che magari possa anche verificarsi qualche cambiamento a livello esistenziale.
    Potremmo dire – senza aver timore di usare una parola grossa – che il pellegrinaggio dovrebbe essere, di fatto, un’esperienza di “conversione”. Affinché avvenga qualche cambiamento interiore ed esteriore occorre, però, che si affronti il pellegrinaggio alla luce di alcune dinamiche.

    2. Le “dinamiche” del cambiamento

    Quali sono le dinamiche attraverso le quali il desiderio di cambiamento trova la sua realizzazione? In genere si tratta di processi che coinvolgono le dimensioni della persona: corpo, spirito e anima, e che hanno come primo protagonista la Grazia. È essa che produce frutti spirituali di conversione, anche se questi ultimi si realizzano solo là dove vi è un cuore vulnerabile, che si lascia dissodare e rendere fertile. La grazia normalmente non si impone. Cerca di persuadere e di attrarre a sé, ma sempre nel rispetto della libertà umana.
    Per questo motivo, al di là dell’azione della grazia, all’interno del pellegrinaggio si vivono delle dinamiche che di per sé sono di natura squisitamente antropologica, legate cioè alla struttura dell’essere umano in quanto tale, e dunque non necessariamente collegate alla vita di fede e alla concezione cristiana della vita. E tuttavia, sarà proprio la luce della fede ad aggiungere a tali dinamiche un plusvalore, trasformandole in occasione di crescita spirituale. Vediamone alcune.

    2.1. Il “distacco”
    Quando si inizia un pellegrinaggio, si fa la scelta di sospendere la routine quotidiana, di deporre temporaneamente il proprio ruolo o la propria professionalità all’interno della società civile e religiosa, e di assumere un’identità diversa, quella di pellegrino appunto, per interagire con lo spazio e il tempo in una maniera diversa e inedita rispetto al consueto tran tran quotidiano.
    In passato, il pellegrinaggio era contrassegnato da una “ritualità” che aveva il compito di evidenziare tale passaggio: scrivere il testamento, indossare vesti e oggetti simbolici (come una croce, una conchiglia, …), accomiatarsi dalle persone care e da ciò che era familiare. Non si dimentichi che, nei casi di pellegrinaggi impegnativi (e.g. Terra santa), tutto ciò poteva avere il sapore di un addio!
    In virtù di questa presa di distanza dal quotidiano, la vita viene orientata nell’ottica del raggiungimento di una meta, la quale non costituisce semplicemente il punto di arrivo, ma diventa essa stessa (la meta) il “criterio” per l’organizzazione del pellegrinaggio e per ogni eventuale scelta – anche imprevista – che dovesse rendersi necessaria lungo il cammino.
    Ancora oggi, dunque, farsi pellegrini e mettersi in cammino significa vivere il distacco dalle cose di ogni giorno, rinunciare a oggetti e abitudini che nella ripetitività quotidiana si ritenevano indispensabili. Ecco perché è importante vivere con sapienza questo processo, ma anche con un piglio un po’ provocatorio, del tipo: “Spegniamo lo smartphone durante le ore di cammino!”.

    2.2. La “fatica”
    La fatica dovuta ai disagi e agli imprevisti sono componenti pressoché inevitabili di un pellegrinaggio. In passato – soprattutto se si trattava di pellegrinaggi giudiziali (comminati dal giudice) o penitenziali (imposti dal confessore) – le scomodità, i sacrifici e la sofferenze venivano affrontati secondo una dimensione espiatoria e accolte come vie di purificazione dalle inclinazioni malvagie, in vista di un rinnovamento interiore.
    Anche oggi, il pellegrino può mettersi alla prova e sperimentare non solo le proprie possibilità, ma anche le proprie inadeguatezze. Difatti, non è raro che, accanto alla scoperta sorprendente di avere le energie necessarie per potercela fare, si affianchi l’esperienza del proprio limite. Naturalmente, sia l’una che l’altra devono essere considerati tests importanti ai fini di una maggior conoscenza di sé, le cui risonanze interiori, se rielaborate con sincerità, possono risultare fattori di crescita umana e spirituale.

    2.3. La “compagnia”
    Uno dei più grandi letterati tedeschi, Johann Wolfgang Goethe, ha scritto che «l’Europa è nata pellegrinando e la sua lingua è il cristianesimo». Secondo lui, cioè, la coscienza europea sarebbe maturata lungo le vie dei pellegrinaggi, i quali diventavano occasioni di incontri, di conoscenze, di condivisione e di sostegno reciproco.
    Anche oggi il pellegrinaggio regala l’esperienza di una compagnia che si sperimenta unita nel condividere momenti di cammino o di sosta che diventano occasione di conoscenza e di dialogo. È un’esperienza singolare di umanità, alla quale contribuiscono anche i non-pellegrini, quelli cioè incontrati casualmente lungo la strada o quelli che supportano il cammino con il loro servizio.
    Durante il pellegrinaggio emerge poi quell’elemento costitutivo dell’essere umano che è il bisogno dell’altro. Cade la falsa idea di autosufficienza e si impone la verità che gli altri ci sono necessari, come noi agli altri. Si riscopre, di fatto, quella interdipendenza che ci lega gli uni gli altri, e che ci mostra in maniera eloquente come noi siamo fatti per la relazione: «No man is an island» (John Donne). Spesso il pellegrinaggio favorisce una rinnovata fiducia nell’essere umano, assieme al desiderio di vivere in modo diverso le proprie relazioni (solidarietà, condivisione nella diversità, inter-generazionalità, etc.).
    Non va, infine, dimenticata la presenza di una compagnia invisibile durante il cammino: le persone care – vive e defunte – che non sono fisicamente presenti, ma che ciascuno porta nel cuore, e la cui presenza emerge con sorprendente forza nell’interiorità o anche nelle conversazioni. Alla luce della fede cristiana, si sperimenta qui quella che la dottrina della Chiesa definisce la “comunione dei santi”, ossia il sentirsi parte del Corpo mistico di Cristo che ci avvolge con la comunione di quanti non ci sono più e di quanti, come noi, sono ancora pellegrini su questa terra.

    2.4. La “solitudine”
    Se l’essere umano è fatto per la relazione e la comunione, tuttavia ha bisogno di armonizzare la sua ricerca di condivisione con l’altrettanto necessaria dimensione del silenzio e della solitudine. È forse la componente più difficile del pellegrinaggio, e tuttavia non meno importante della compagnia.
    La possibilità di godere di spazi di solitudine (in cui non si conversa con chi ci sta vicino) e di lunghe pause di silenzio rappresenta una componente essenziale del cammino. E proprio perché silenzio e solitudine sono merci rare nella vita frenetica delle nostre odierne società, è importante, durante il pellegrinaggio, prevedere spazi in cui essi possano essere sperimentati e apprezzati come opportunità di “ritorno in sé stessi”, come laboratorio dello spirito.
    Chiaramente, più numerosi sono gli spazi di silenzio e di solitudine previsti lungo il cammino, e più occasioni si offriranno all’interiorità di ciascuno di sperimentare la dimensione della profondità di un silenzio che da esteriore si fa interiore. E questa è la vera sfida: riuscire a discernere le tante voci che albergano nel nostro cuore e a far tacere quelle che fanno solo rumore e portano allo sfilacciamento o alla dissipazione interiori.
    In un pellegrinaggio di pochi giorni – come quello da Montecassino a S. Vincenzo – bisognerebbe, dunque, avere la cura di programmare opportuni tempi di silenzio e di solitudine, magari dedicandovi ogni giorno la prima e l’ultima ora di cammino.

    2.5. La “meraviglia”
    Per molti, nel passato, il pellegrinaggio (dal quale talora non si ritornava più a casa) era il viaggio della vita, e rappresentava un’opportunità per conoscere nuovi luoghi e culture, per ammirare paesaggi, città e grandi cattedrali. Le varie narrazioni dei pellegrinaggi, ieri come oggi, ce lo confermano.
    Tali pellegrinaggi possono offrire:
    – una rinnovata esperienza della bellezza del “creato” (=dimensione teologica della natura), che spesso, nella vita di tutti i giorni, non abbiamo il tempo di ammirare e gustare;
    – una più intensa percezione del territorio – resa possibile anche dal fatto di doverlo attraversare a piedi – con ciò che esso ha significato in passato e significa oggi (e.g.: Cavendish road: la guerra; i castagneti abbandonati di Terelle: l’inurbazione; etc.);
    – la possibilità di godere dell’arte e delle vestigia – soprattutto religiose – del passato, disseminate lungo la strada.
    Il procedere a piedi, ci dà il tempo di “guardare” con più attenzione ciò che si offre al proprio sguardo. Il pellegrino impara a fermarsi; non è più un “consumatore”, ma un “contemplativo”. Sa riconoscere e apprezzare le cose così come si presentano ai suoi occhi, non come qualche cosa di scontato, ma come un elemento che può suscitare vari sentimenti, incluso quello della gratitudine.

    2.6. La “preghiera”
    Dai “Cantici delle ascensioni” del Salterio alle pratiche esicastiche del pellegrino russo, la preghiera appartiene strutturalmente al pellegrinaggio cristiano. Tuttavia, la trascendenza vi si infila spesso quasi di soppiatto, senza che uno se ne accorga. E non sempre ciò sfocia nella preghiera esplicita: a volte si tratta di un confuso anelito verso il Mistero, che necessita di essere decifrato e orientato. E comunque, anche questa percezione è segno di un movimento interiore suscitato dalla grazia e dalle circostanze del pellegrinaggio stesso.
    Anche nel pellegrinaggio, ovviamente, non devono mancare opportunità per proporre momenti di preghiera, che quasi sempre trovano una inaspettata rispondenza interiore.
    Nel caso del Pellegrinaggio Montecassino–S. Vincenzo al Volturno potrà soprattutto essere la bellezza del creato a venire in aiuto, ma ciò che più conta è comunque l’emergere di percezioni e sentimenti forse scivolati nel dimenticatoio, e che, appunto, dispongono il pellegrino alla relazione con un Mistero ridivenuto vicino.

    2.7. L’amicizia con Gesù
    La preghiera è certamente uno degli strumenti con cui il cristiano mantiene vivo il suo rapporto di amicizia con Gesù. Anche il pellegrinaggio – per le ragioni sopra addotte – può trasformarsi in un’esperienza più profonda di Gesù.
    Il tema che fa da sfondo al pellegrinaggio Montecassino – S. Vincenzo al Volturno del 2017 è costituito dalle parole di D. Giussani: «Io ci sto alla simpatia umana che promana da te, Gesù di Nazareth». Queste parole sono state prese da una meditazione tenuta negli anni ‘90 attorno alla pericope evangelica di Gv 21, e imperniata sul dialogo serrato che si svolge tra Gesù e Simone attorno all’insistente domanda del Signore: «Simone, mi ami tu?». Rileggiamo il paragrafo dal quale sono state estrapolate le parole di cui sopra:
    «Quest'uomo, Gesù, ha una caratteristica umana molto semplice: è un uomo da cui promana una simpatia umana. E allora la moralità, cioè la vittoria sul nichilismo, non è non sbagliare, non fare errori, ma, pur facendo gli errori, sbagliando, alla fine: «Simone, mi ami tu?», «Sì, Signore, io Ti amo», io ci sto; io ci sto alla simpatia umana che promana da Te, Gesù di Nazareth, io ci sto.
    E dentro questa simpatia che promana da Te io imparo, imparo a vivere, imparo ad essere uomo.
    È semplicissima la moralità: è starci ad una simpatia, una simpatia umana. Umana come la simpatia che la madre prova per il proprio figlio e il figlio prova per la propria madre. Perché da Gesù nasce questa simpatia; Gesù ha questa simpatia umana per te, per me, e io, nonostante che sbagli, dico: «Sì, Signore, io ci sto a questa simpatia». Quest’ultima affermazione è l’ultima possibilità per vincere il nichilismo che noi «prendiamo» per contagio dalla società in cui viviamo. Mi preme che voi rimaniate su quello che ho detto alla fine, e cioè che la moralità – il rispondere «sì» a Cristo che ti chiede: «Mi ami tu?» – ha un inizio semplicissimo, che è la semplicità dello starci a una simpatia.
    E lo starci a una simpatia ha un inizio semplicissimo, che è un guardare: uno sguardo a Cristo» (D. Giussani).
    Cristo sta al centro dei nostri sguardi. Egli è Colui al quale – come scrive S. Benedetto – nulla assolutamente va anteposto (cf. RB 72,11). È un Cristo che va guardato e contemplato, perché, incrociando il suo sguardo, noi sperimentiamo tutta la simpatia che egli riversa su di noi, quella “sympatheia” di cui ha dato soprattutto prova sulla croce, quando, facendosi carico dei nostri peccati, ha patito ed è morto per la nostra redenzione.
    Dallo sguardo contemplativo verso Colui che il Padre ci ha mandato perché imparassimo da Lui come ama il cuore di Dio, nasce il desiderio di “stare con Gesù” e di fruire della sua amicizia, per diffondere attorno a noi il profumo del suo amore.

    (FONTE: https://www.abbaziamontecassino.org/index.php/blog-home-ita/briciole-di-spiritualita/532-il-pellegrinaggio-esperienza-abate-donato-montecassino)


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