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    Viaggio intorno

    alla felicità

    A cura di Simona Molari


    Dove abita la felicità? Ma esiste poi una strada che ci conduca dritti dritti, senza fatica e rallentamenti, a questa meta che sembra tanto avere il sapore del Cielo stesso? In realtà - quante volte ce lo siamo chiesti … ma che cosa è veramente la felicità? E’ possibile possederla, o è solo un attimo fuggente? Carpe Diem, direbbe Orazio. Un piccolo viaggio intorno a questo mistero – grande promessa del Risorto, abbondante, che nessuno ci potrà togliere – interrogando pensatori del passato e del presente, santi sugli altari e quelli che calpestano le nostre strade, in cerca – come noi – di risposte, per scoprire, lungo il percorso, che quello che stiamo cercando… è una Persona.

    DOVE ABITA LA FELICITÀ?
    Domenico Sigalini

    «C'è qualcuno che può dire senza ingannarmi: “sarai felice se...”? “La pienezza della gioia è....”? C'è qualcuno che mi può dire dove sta la pienezza della vita, che non mi dice che devo far tacere i sogni, ma che posso realizzarli? Quando un giovane cerca di notte la discoteca, guarda i laser che tagliano il cielo, indicano la direzione di partenza ed è quella che a loro serve, ma a noi serve il punto di arrivo. E si perdono nel buio. C'è un laser che mi indica non solo la direzione giusta, ma l'obiettivo, lo scopo finale vero? Soprattutto esiste QUALCUNO CHE È la felicità, che mi toglie dall'attenzione alle cose, ma che mi riempie lui come persona di felicità perché è la felicità stessa?
    Voglio avere vita piena, voglio una vita alla grande, non mi interessano le mezze misure, non mi adatto al galateo con cui mi state ingessando la vita. Vivo una vita sola e la voglio vivere al massimo. Non mi dire che bisogna tenere i piedi per terra, che devo cominciare a mettere la testa a posto, che è finito il tempo delle pazzie. Non voglio limiti, non m'interessa se è una vita spericolata o piena di guai, io voglio vivere una vita piena.
    Questo chiese a Gesù quel giovane ricco.
    Ebbene, Gesù lo guardò, ma lui ha abbassato subito lo sguardo, gli stava leggendo dentro un cuore distribuito a brandelli sulle ricchezze che possedeva.
    E Gesù allora gli spara una raffica di verbi: Va', vendi, regala, vieni e seguimi.
    Siamo in grado di formulare una domanda così di felicità?
    Già formulare così la domanda è indirizzarci a una risposta: la felicità è una persona, non possono esserlo le cose».

    L’OGGETTO DEL DESIDERIO E LA FELICITÀ
    S. Agostino

    «"Finora è stato accettato fra noi che non può esser felice chi non ha ciò che desidera e che non necessariamente è felice chi consegue ciò che desidera". Furono d'accordo. "E – continuai – concedete che chi non è felice, è infelice?". Non contestarono. "Ogni uomo dunque che non ha ciò che desidera è infelice". Furono tutti d'accordo. "Che cosa pertanto – chiesi – l'uomo deve conseguire per esser felice? Forse anche al nostro banchetto sarà presentata una vivanda adatta a non lasciare insoddisfatto l'appetito di Licenzio. Io penso che l'uomo deve tendere all'oggetto che può possedere quando lo desidera". Affermarono che era evidente. "Deve esser dunque – soggiunsi – un bene stabile non dipendente dalla fortuna, non condizionato ai vari accadimenti. Infatti non possiamo assicurarci quando e per tutto il tempo che vogliamo ciò che è perituro e caduco". Fecero un unanime cenno d'assenso. Soltanto Trigezio obiettò: "Vi sono molti che accumulano e godono largamente di beni fragili e condizionati agli avvenimenti, ma fonti di gioia in questa vita e non manca loro alcuno degli oggetti del loro desiderio". Gli chiesi: "Ritieni che chi teme è felice?". "Non lo ritengo", disse. "Dunque se può perdere ciò che ama, può non temere?". "È impossibile", mi rispose. "Ora, conclusi, i beni soggetti al caso si possono perdere. Dunque chi li ama e possiede non può assolutamente esser felice". Non contestò. A questo punto mia madre intervenne: "Anche se fosse sicuro di non perdere le proprie sostanze, tuttavia non ne può esser saziato. Quindi intanto è infelice in quanto è sempre bisognoso". Le chiesi: "Non ritieni che possa esser felice se, abbondando e traboccando di tante ricchezze, stabilisse un limite al desiderio e, contento di esse, ne goda convenientemente e gioiosamente?". "Non è felice – rispose – per il possesso delle sostanze ma per la moderazione del suo desiderio". "Benissimo – replicai. Anche a tale domanda da te non si poteva attendere una risposta diversa. Quindi non abbiamo più dubbi che, se qualcuno ha deciso di esser felice, si deve assicurare ciò che rimane per sempre né può essere sottratto dalla fortuna spietata". "Ormai – intervenne Licenzio ­– siamo d'accordo su tale verità". "Ritenete ­– ripresi ­– che Dio è eterno e non cessa mai d'essere?". "È verità tanto certa – rispose Licenzio – che non è necessario farla argomento del dialogo". E gli altri con profondo sentimento religioso concordarono. "Dunque, conclusi, chi ha Dio è felice".
    (Le condizioni della vita e la vocazione alla filosofia: 1,1-5)

    COS’È LA FELICITÀ
    Sergio Moravia

    La felicità non è primariamente un avere, e neanche primariamente un essere. La felicità, in qualche modo, è un sentire, un costruire, un trovare delle relazioni, le più enigmatiche e diverse. Non è facile dare una ricetta della felicità, a differenza di quanto dicono tanti oggi, soprattutto tanti esponenti delle industrie farmaceutiche. Non si diventa felici con una pillola. Non si scoprirà mai la pillola della felicità. La felicità, è una costruzione, è una ricerca.

    Studente: La felicità è più l'attesa di qualcosa che so che potrà rendermi felice, che il suo raggiungimento…
    Moravia: È una domanda molto bella ed altrettanto difficile. Anch'io credo, da filosofo, che la felicità sia piuttosto una ricerca che non un suo raggiungimento come tale.

    S. Che rapporto c'è tra felicità e tempo? Cioè, col passare degli anni, é possibile che il nostro concetto di felicità cambi da un'idea di turbamento ad un'idea piuttosto di serenità, di calma?
    M. Certamente la felicità ha un suo rapporto col tempo. Però, siamo davvero sicuri che la felicità sia uno stato permanente molto lungo nel tempo? Oppure riteniamo che la felicità possa essere anche di un momento, di uno stato, lungo anche lo spazio di un mattino? La felicità, capite, ha questo di peculiare e misterioso: che non conosce definizioni a priori, che non si lascia determinare, definire da noi esseri umani. Qualche volta noi ci accorgiamo di essere stati felici quando lo stato relativo è già passato. Guardi che il rapporto temporale tra l'essere felici e l'accorgersi di esserlo non è sempre un rapporto di coincidenza, e questo produce tragedia più che felicità, è un perdere l'occasione.

    S. Eppure, nella pessimistica visione leopardiana, la felicità era definita come una breve assenza del dolore.
    M. Tenderei a dire che la felicità non è semplicemente una assenza di dolore. Se volete, la felicità è uno stadio che viene dopo il dolore. Perché l'esperienza del dolore ci fa ri-apprezzare meglio stati diversi, anche se non appartengono a quella categoria, a quel paradiso di stati d’animo che la civiltà - o la inciviltà in cui viviamo - ci definisce come ‘stati felici’. Forse la felicità è proprio quel sentire - dopo una sofferenza - quanto siano belle ed appaganti anche delle piccole cose o dei piccoli sentimenti.

    S. Quindi la felicità è soltanto qualcosa di effimero?
    M. Può essere una cosa effimera, o può essere una cosa più lunga. Ma non chiedete alla felicità, neanche nel vostro immaginario interiore, di essere davvero un assoluto che si trovi al di là del tempo, dell'esperienza in cui noi viviamo. O, magari, coltiviamo anche quest'idea, ma senza diventarne schiavi. Questo è molto importante. Tendo a sottolineare questo aspetto di relativa imprevedibilità, e quindi voglio dirvi, più che indicarvi quali sono le strade, e tanto meno le autostrade, che portano direttamente alla felicità - e non è una battuta, perché una parte dell’idea di felicità di oggi tende a dire questo, identificando la felicità con la semplice contentezza o appagamento intorno ad alcuni beni -, che questa non è la felicità, quasi mai. La felicità è una ricerca. E allora l'importante è essere pronti a cogliere con le nostre antenne quando qualcosa di quel tipo ci è capitato. È questa la vera scommessa della vita, non quella di partire per le autostrade.

    S. Lei prima ha parlato di ricerca, ma la ricerca della conoscenza, che si fonda sulla consapevolezza della propria ignoranza, e che può essere considerato il primo passo dell'uomo verso la coscienza di sé, e quindi verso la felicità, non è invece un ostacolo alla felicità stessa, perché si fonda sul dubbio, che può far perdere sicurezza all'uomo?
    M. Direbbero gli Americani: che bella domanda. Bella perché richiede due risposte forse contraddittorie, ma la felicità è il contraddittorio. Cioè, contro una sorta di pregiudizio, che ci ha sempre accompagnato negli ultimi duemila anni, tra la felicità e la ricerca della verità c'è una notevole differenza. Il che non vuol dire che per qualche ricercatore del sapere la felicità coincide davvero con questa ricerca. Però la storia del pensiero, che voi studiate al liceo, mostra quanti casi ci siano stati, nella tradizione intellettuale d'Occidente, di filosofi e scienziati che hanno cercato la verità, che è il mestiere del filosofo, ma senza ricavarne automaticamente la felicità. Il fatto di essere felici - o più spesso infelici - è qualcosa che non appartiene, puramente e semplicemente, al campo della ricerca cognitiva. Forse appartiene ad una dimensione più complessa, più subconscia, e di rapporti con gli altri e col mondo che ci circonda.

    S. La conoscenza di sé può avvicinare alla felicità?
    M. Direi di sì, con tutte le cautele e le timidezze che questo tipo di risposta può dare, almeno a me. Può essere un buon inizio del processo che porta alla felicità, almeno nella misura in cui una buona conoscenza di noi stessi ci aiuta a emanciparci da tanti pregiudizi, da tante passioni terrene, che a volte ci rendono particolarmente ottusi o miopi di fronte a quello che potrebbe essere veramente il cammino verso la felicità. Indubbiamente conoscersi interiormente è, in ogni caso, un buon traguardo per gli esseri umani. Poi, sapete, la felicità è un po' come la grazia dal punto di vista religioso: potrebbe anche essere vero che ci viene data da un altrove, non solo da noi stessi.

    S. Qual è il limite tra felicità ed euforia?
    M. Se potessi risponderLe d'istinto, le direi che non c'è nessun rapporto possibile tra la felicità e l'euforia. Personalmente detesto l'euforia, e tanto più la detesto perché è lo stato che viene raggiunto con l’uso di molti psicofarmaci, per non parlare delle droghe, e le industrie spacciano l'euforia raggiunta con questi psicofarmaci, con la felicità. E da questo punto di vista vorrei tornare un attimo ai due spezzoni di film, che abbiamo visto. Specie al secondo. Le sembra che Antoine Duanell sia euforico, quando corre agitato, tormentato a suo modo, verso qualcosa che lui non conosce? Come arriva Antoine Duanell al mare? Come reagisce di fronte alla visione, tanto agognata, della dimensione mare? È serio. La felicità non coincide con l'euforia, ma, al limite, neanche col sorriso, anche se spesso il sorriso può essere una buona espressione di un raggiungimento ipotetico della felicità. Ma vorrei davvero insistere sul fatto che la felicità si manifesta nei modi più diversi. E da questo punto di vista, pensate a quella scena davvero paradossale, quasi grottesca, dell'altro film. È una scena che fa un po' ridere, ma in quella scena si sta consumando, o raggiungendo la realizzazione di un ideale vagheggiato dalla lei o dal lui - non ricordo più - in giovane età. E quindi, vede, la felicità può assumere l'espressione di una scena un po' grottesca o surreale, o comunque che ci fa sorridere, e il volto serio di un ragazzo che vede qualcosa che in qualche modo lo trascende, ma che per lui è felicità.

    S. Lei ha parlato prima di consapevolezza, quindi di quella frazione di secondo che ci fa dire: "Cristo sono felice!". Quindi ci sono delle spie d'allarme, per farci capire se davvero siamo felici?
    M. Senta le spie le lasci allo spionaggio. Non si può dire: "io sono felice" perché mi si è acceso un led o una lucina da qualche parte. Della felicità noi siamo gli unici testimoni, e, quando siamo felici, intanto possiamo anche non dirlo. Tanto ci basta essere felici, e d'altra parte non ci occorre, se raggiungiamo quella condizione, una prova empirica visibile che ci dica che siamo felici. La felicità, cara signorina, ed anche la sofferenza, sono, come diciamo noi filosofi, incorreggibili. Uno si sente felice. "Io sono felice, a meno che tu non mi dimostri il contrario", è una frase che non sta in piedi. La felicità è un’esperienza tutta soggettiva, tutta interiore. E da questo punto di vista, se il regista me lo consente, vorrei mostrare uno degli oggetti simbolici che abbiamo scelto per esprimere qualcosa cui ho alluso nelle ultime risposte. Ed è quell'oggetto là. Non siate delusi. Non domandatemi di levare quel velo. Intanto quel velo potrebbe essere anche mantenuto in piedi da un' invisibile forza dal basso. In ogni caso nessuno di voi ha il diritto di alzare quel velo. Voi non saprete mai cosa c'è sotto quel velo, perché la felicità - questo significa quell'oggetto simbolico -, non è una cosa, né uno stato che tutti conoscono e sanno definire quale sia. La felicità invece, come volevo esprimere con questa scelta bizzarra di un oggetto velato, dove il velo conta più dell'oggetto, è qualcosa di costitutivamente enigmatico. Non vi posso dare ricette. Lo dicevo prima. Vi posso dire, al contrario, che la felicità potrebbe, per ognuno di voi individualmente preso, configurarsi nei modi più imprevisti. Allora, se questo è vero, la vera astuzia è preparare le nostre antenne a cogliere i momenti che alludono ad uno stato di felicità, per noi. Avevo anche scelto un altro film, dove la felicità si identificava con un raggio verde del sole che tramonta, ma che nessuno vede, eppure molti lo vedono, o ci credono, o credono di vederlo. E questo è un altro bel modo di alludere alla felicità.

    S. Secondo Lei la felicità è uno stato soggettivo ed individuale, quindi non può esistere una felicità collettiva, cioè la comunità non può raggiungere una felicità, uno stato che accomuni gli uomini, uno stato sentimentale, insomma?
    M. Non so che anno frequenti lei di liceo. Lei ha studiato storia e filosofia. E se io le chiedessi - non è molto gentile rispondere con una domanda ad un'altra domanda - ma, se io le chiedessi se lei nella storia d'Occidente ha mai trovato uno stato felice, una comunità felice? Le rispondo io: non l'ha trovata. Questo è vero, ma non è tutta la verità. Cioè non escludo assolutamente che ci possano essere delle modalità di felicità che non consistono in uno stato individuale, esistenziale. E mi rendo conto di avere sottolineato soprattutto questo modello di felicità. In parte ero unilaterale, perché invece è molto vero, come ho anche detto nella scheda introduttiva, che la felicità può anche coincidere con un tipo di relazione che uno ha saputo costruire col proprio partner, con la propria comunità di lavoro, con la propria comunità sociale di appartenenza. La felicità può anche assumere un volto in prosa, ma non è detto che la felicità debba essere il momento di epifania estatica. Questa è una felicità, ma esiste anche una felicità legata ad una prosa del mondo, ad una prosa del quotidiano, ad una serenità non opaca. Sul rapporto felicità - euforia ho risposto con l'aggressività che era giusto usare. Sul rapporto felicità - serenità sarò molto più problematico. La felicità potrebbe davvero essere un sinonimo di serenità, specie in un mondo come il nostro, dove la serenità è così rara. E dunque, tra gli altri messaggi che vi sto mandando, è quello che già indicavo nella introduzione: la felicità non può essere definita in modo universale. Nelle varie epoche storiche, nelle varie congiunture, noi assumiamo diverse posizioni.

    S. Premettendo che sono d'accordo con Lei quando dice che la felicità non è euforia, perché magari dietro un sorriso si può nascondere una grande sofferenza, volevo chiederle fino a che punto può esserci un legame tra la passione e la felicità? Cioè la passione può essere causa di felicità?
    M. Sì, la passione può produrre felicità.

    S. Non euforia?
    M. "Euforia" è un termine che mi spinge a mettere la mano al calcio della pistola, proprio nella misura in cui, come dicevo prima, la società di oggi cerca di convincerci che l'euforia è il massimo a cui noi possiamo aspirare, perché l'euforia si può governare in modo biochimico, come è ben chiaro. Mentre non si possono governare certi stati simbolici estremamente complessi, a cominciare appunto dalla felicità. Tant'è vero che della felicità non sta neanche tanto bene parlarne in pubblico. La controparte ti risponderà: "Ma che termine retorico! Forse tu vuoi dire che sei contento!". Guai, la felicità non è un'euforia, ma, al limite, non è neanche una contentezza. È un qualcosa di più e di diverso.

    S. Però la felicità non mi sembra nemmeno serenità. La felicità la vedo come un attimo, mentre la serenità, secondo me, è uno stato che dura di più. Credo che questo tipo di felicità, intesa come attimo, sia provata soprattutto dai giovani, che magari non se ne accorgono neanche, ma per un momento sono veramente felici. Una persona serena, invece, lo é sempre. Non so se parlo così perché sono una ragazza e quindi la vedo in maniera diversa da Lei che ha qualche anno più di me. Una sbronza, una pasticca di Xanax o due, prese insieme, un bel bicchierozzo, magari cinque, di vino o di wisky, creano euforia. Ma qui la dimensione chimica è quella prevalente.
    M. La sua domanda è molto densa, molto complessa, e direi cruciale. Accetto totalmente l'accentuazione di un rapporto stretto tra la felicità ed il momento o la passione. Però, proprio alcune sue parole mi aiutano a sollevare un interrogativo molto delicato: avete tutti i diritti, voi giovani, di essere felici e di esserlo in quel modo. Ma che dire degli altri? Gli adulti, gli anziani. È probabile che, specialmente gli anziani, non possano contare sulla felicità, quale lei l'ha definita, in un rapporto stretto con certe motivazioni, la passione o quant'altro. Vorremo allora dire che non ci può essere felicità nell'anziano? Lei sa benissimo, o lo immagina, che anche i vecchi possono essere felici. Il che implica che ci siano altre modalità di felicità, diverse da quelle che lei, giustamente, dal suo punto di vista, mette in evidenza. Da questo punto di vista non posso che ribadire il possibile rapporto tra la felicità ed una serenità che includa uno stato personale di equilibrio e di appagamento.

    S. Però non ho visto un legame tra felicità e serenità. Ho detto che sono due cose diverse.
    M. Ma sto dicendo proprio questo: che esiste anche un rapporto tra felicità e serenità, soprattutto per certi soggetti umani. Non solo gli anziani, ma certo, pensando alla possibile felicità degli anziani, si può rimandare allo stato di serenità, e ancora più ad una relazione felicitante tra l'anziano ed una rete di familiari o di amici, che ancora gli diano un senso forte della propria esistenza. Quindi, di nuovo, ribadisco la pluralità della felicità.

    S. Pensa sia vero che la felicità dei giovani sia legata maggiormente alle passioni, mentre la felicità degli anziani sia più legata alla consapevolezza di uno stato reale di benessere?
    M. Ho l'impressione che qualcuno di voi abbia bisogno di trovare una sorta di ricettario o di definizioni codificate della felicità. Risponderò in modo molto più cauto e problematico, che per lo più i giovani possono avere momenti di felicità intensa, legati a certe loro situazioni di rapporto con l'altro. E queste situazioni possono manifestare indici di grande intensità. D'altra parte quel tipo di felicità, a cui lei chiaramente si riferisce, é una felicità di breve durata, qualche volta di durata più lunga. Ma vede, il problema è che di felicità ce ne sono tante, e nessuna potrebbe darle il catalogo definitivo. Salterà sempre fuori un Pierino o anche un nonnino che dica: ma io sono felice per questo ulteriore motivo. E questo è il fascino della felicità, che uno non sa mai come si realizza. Ed è per questo che io vi dicevo di tenere soprattutto le antenne molto ...

    S. Secondo lei è possibile imparare ad essere felici?
    M. Credo che molti di voi si aspettano una risposta: "no", decisa. Non sarà questa la mia risposta. Certo insegnare ad essere felici è un desiderio abbastanza astratto, tecnologico. Però, per un altro verso, si può accettare questa formula, almeno in certi limiti. Cioè, si può insegnare, non proprio ad essere felici, ma ad essere preparati al possibile incontro con la felicità. Ecco, questa è la formula che preferirei sottolineare, anziché la tua. Prepararsi, essere preparati ad un incontro, perché nella felicità, questo non dimenticatevelo mai, c'è sempre un elemento di imprevedibilità. Ed ecco perché il vero problema è essere sempre pronti a captare le occasioni diverse di essere felici. E questo vale anche per voi giovani, perché avete più volte sottolineato che la felicità è molto vicina alla passione. Magari, giustamente, avevate in mente una felicità legata all'amore. L'amore certamente ha molto a che fare con la felicità. Ma non esageriamo. Ci sono anche delle esperienze, perfino nei giovani, nelle quali la felicità non è tutta ancorata a questo stato amoroso, passionale, o quant'altro.

    S. Un uomo può essere felice se la persona amata raggiunge la felicità?
    M. La risposta è stata consegnata ad una delle immagini più imperiture della storia del cinema. Peccato che non sia stato possibile, come speravo, proiettarla in questa trasmissione. È l'ultima immagine del film di Chaplin, Luci della città, dove Charlot ha dato i soldi perché la fanciulla da lui amata potesse riacquistare la vista. La fanciulla riacquista la vista, vede chi era il suo principe azzurro per la prima volta, e resta abbastanza perplessa. Charlot non è troppo seducente. Lui del resto capisce perfettamente la delusione, e tuttavia è felice. Il messaggio stupendo di Chaplin è che la felicità può anche coincidere con la constatazione che la persona da noi amata è felice grazie a noi.

    S. Ma non pensa comunque che anche se la persona amata é felice, uno voglia la propria felicità?
    M. È molto complicato distinguere tra una felicità di tipo egoistico ed una felicità di tipo, diciamo così, relazionale. Ho la sensazione che quando si parla di felicità del singolo, e perfino di felicità di tipo egoistico, in verità si compie un piccolo abuso interpretativo. Mi pare difficile essere felici tutti soli, separati da una relazione con l'altro. La felicità ha un forte investimento soggettivo, personale, diciamo anche "ego-referenziale", il termine di molti psicologi. D'altra parte "essere felici" passa molto spesso anche per un certo tipo di relazione, che si è potuta costruire con altri o con il mondo che ci circonda.

    S. Le pratiche esoteriche definiscono la felicità come il raggiungimento di un equilibrio interiore. Dunque può essere accettata questa definizione, oppure, più che altro, è il raggiungimento di un'armonia, di un equilibrio con l'esterno, con gli altri?
    M. Mi sento un po' ignorante sulle esperienze e riflessioni, diciamo, orientali, dove il suo primo riferimento si è maggiormente verificato e teorizzato, però credo che si possa avere anche una felicità di tipo strettamente interiore, personale, una sorta di punto d'arrivo, di traguardo, se vuole, di processo di ascesi, di separazione dalle follie di questo mondo. Lo credo, a costo anche di contraddirmi, in parte, rispetto a ciò che ho detto prima. E tuttavia credo che nel nostro mondo, che è poi quello che maggiormente ci interessa, la felicità passi per lo più attraverso i canali di una qualche forma di relazione, dove la serenità viene raggiunta quando il rapporto con quanto ci circonda è quello che in qualche misura desideravamo.

    S. Lei ritiene che per un giovane sia opportuno, per essere felice, staccarsi ogni tanto dalla realtà?
    M. Sì, ma non necessariamente solo per i giovani. Che ci possa essere un momento nel quale mettiamo tra parentesi le visioni e le esperienze di questo mondo, che così spesso, anche se non sempre, sia ben chiaro, ci delude, e nel quale non sempre ci riconosciamo, e che cerchiamo, ritraendoci dal mondo, di costruirci una nostra felicità, questo è vero. C'è un famoso dramma di Ibsen, L'anatra selvatica, in cui la felicità veniva collocata spazialmente in una soffitta, che era quasi una antitesi, un luogo lontano mille miglia dal mondo reale. Che dire di queste immagini, di questi orientamenti? Da un lato esistono, dall'altro li guardo con qualche apprensione, perché ritrarsi dal mondo può produrre un momento di liberazione, ma non proprio di felicità in senso pregnante. Ci liberiamo dal mondo. E ciò felicita se e quando questo mondo è davvero infame. D'altra parte la risposta: "Il mondo è infame ed io mi ritiro nella mia soffitta", quale rischio comporta? Quello di sostituire a componenti concrete, reali, vitali, dell'essere umano, delle componenti puramente immaginarie, di fantasia. Si può essere felici anche con un insieme di immagini e fantasie? Sì, ma quella è una felicità che mi parrebbe molto, molto fragile. Quanto meno l'indicazione che, assumendomene ogni responsabilità, vorrei darvi - siamo già in chiusura - è quella di cercare una felicità reale, anche se, in quanto reale, non sarà mai né assoluta, né perfetta, né invariante, però sarà reale. E lei non si sbaglierà più tra il fantasma della soffitta e la realtà di un volto amato. La felicità sta nel rapporto con un volto amato, sta nel produrre qualche cosa per l'altro e per noi stessi. È un falso dilemma quello di dire: la felicità è un fatto puramente soggettivo, egoistico, o è un fatto tutto relazionale? Le due cose si intrecciano. È difficile, a ben guardare, creare una felicità tutta egocentrica. È molto difficile e pochi di noi lo fanno veramente. Non crediate di essere poi così egoisti, non siete egoisti. L'uomo sano non è egoista. L'uomo cerca l'altro. L'uomo è un "animale politico", come diceva Aristotele, la sua felicità e la sua sofferenza si trovano lì. È lì che dobbiamo cimentarci nella felicità. E poi c’é la felicità come ricerca, ricerca di quell’oggetto misterioso, che magari non esiste. E dov'è il mio regista, perché vorrei sapere se, a questo punto devo leggere. Intanto io non so leggere i poeti, e poi ho molte paure e timori. D'altra parte i versi che vi leggerò sono tra i versi più straordinari di uno dei più grandi poeti dell'intera tradizione poetica italiana, Montale, Ossi di seppia, che, guarda caso, dedica alcuni versi alla felicità. E lui scrive: "Felicità raggiunta, si cammina per te su un fil di lana. Per gli occhi sei un barlume che vacilla, al piede teso ghiaccio che si incrina. E dunque non ti tocchi chi più t'ama".

    (Rai Educational, Il grillo, 12.01.1998)

    FELICITÀ E SALVEZZA NEL CRISTIANESIMO
    Cesare Bissoli

    Ho cercato di sviluppare l’esistenziale della felicità nella prospettiva cristiana. Vi ho ricavato questi punti di sintesi conclusiva:
    - Dio è felice quando siamo felici. La ricerca umana, laica, della felicità il cristiano la vede come grazia e compito voluto dal Creatore e insito nel dinamismo della creazione. Merita ricordare che nella visione cristiana non vi è disprezzo né invidia delle via di felicità proposte in altre religioni con le proprie vie di salvezza, ma piuttosto condivisione di quanto è comune ed ultimamente la visione cristiana crede di proporsi come salvezza delle salvezze.
    - Dio vuole l’uomo felice quando è infelice, quando in particolare è abbattuto, si sente schiacciato dall’amarezza di ogni tipo . Dio non è mai contento del malessere dell’uomo, anche di chi si dichiarasse suo nemico, giacché lui non è nemico di nessuno, e credo che lui sia a braccia spalancate per quei figli che saltano dalla finestra. Una sfaccettatura tipica e propria della gioia cristiana è la consolazione.
    - La sua proposta al nostro malessere esistenziale si snoda nella storia non in termini automatici, o come gioco di fortuna , ma secondo un progetto di salvezza o liberazione dal male che tenga conto della nostra libertà, e dunque nel rispetto della nostra autonomia. Lui avanza un processo di avvicinamento che si chiama alleanza, che è un dono gratuito ma profondamente congruo alla nostra natura, dono che sorregge con una disciplina educante e assicura un compimento che supera ogni ostacolo che l’uomo incontra, come la paura, il fallimento, la morte. Dio dunque ci vuole felici attraverso un processo di salvezza; la salvezza produce felicità, la felicità va commisurata sulla salvezza. Una testimonianza travolgente l’abbiamo nella lettera di Pietro ai poveri cristiani perseguitati della Bitinia: “Senza vederlo, ma credendo in lui, voi esultate di gioia indicibile e gloriosa”(1Pt 1,8). Fanno eco, dopo 20 secoli, queste parole detta a sua mamma da Chiara Luce Badano, intaccata da un cancro osseo, deceduta a 19 anni nel 1990 e beatificata il 26 settembre 2010. Ormai vicina a morire decide di rifiutare la morfina: “Toglie lucidità – dice - e io posso offrire a Gesù solo il dolore. Mi è rimasto solo questo. Se non sono lucida che senso ha la vita?”. Le sue ultime parole sono: “Mamma ciao, sii felice perché io lo sono!”. E al papà stringe la mano quando le chiede se quelle parole valgono anche per lui.
    - Gesù è il testimone indimenticabile di questo snodo arduo della nostra felicità. Come annota Jörg Lauster, “i grandi pensatori cristiani, che si sono occupati del problema della felicità, lo hanno fatto richiamandosi espressamente alla persona di Gesù. In Gesù e per Gesù essi vedono realizzato in maniera normativa quanto, dal punto di vista cristiano, si deve intendere per felicità”. Puntare su Gesù vuol dire confrontarsi con uno stile che si può chiamare al meglio ‘vita buona’ . Non quindi uno sporgersi positivo, di tanto in tanto, sulla vita dei sudditi - come nella parusia dei re ellenistici - ma un’intera vita buona vissuta nei nostri confronti, condividendo con noi gioie e dolori, dando la sua esistenza per liberarci da quello che lui ritiene la radice dell’infelicità: il misterium iniquitatis, ereditato da tutti e interiorizzato da ciascuno con il proprio peccato. Insomma, un amore che fa sacrificio della vita non è la massima perdita, giacché la sua risurrezione è la massima garanzia di una vita che assume il profilo della beatitudine senza fine nel Regno di Dio. Chiaramente in questo snodo di morte e risurrezione, in questo che i cristiani chiamano mistero pasquale, si colloca il centro di gravità del problema della felicità e della sofferenza, per oggi e per domani, per domani a partire da oggi
    Vi è dunque un’attesa di felicità piena da parte dei cristiani che, pur nascendo in questo mondo, va oltre questo mondo, per essere gustata in questo mondo. Agostino con la celebre espressione: “Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” diceva che la nostra è una felicità inquieta, ma è anche una inquietudine gioiosa.
    Gesù che creò per sé e per gli altri un futuro felice, cominciò a farne esperienza per sé e per gli altri già in questo esilio terreno. In verità questa parola - “esilio” - lui non l’avrebbe mai adoperata. La vita su questa terra conta perché è unica e preziosa. E invece di portare la terra subito in Cielo ha preferito portare il Cielo in terra, generando gioia e felicità nelle persone che incontrava, “ facendo del bene a tutti quanti stavano sotto il potere del diavolo” (At 10,38). E’ un enorme insegnamento, che egli diceva già nelle parabole: se, come Gesù, creeremo felicità per gli altri, oltre a esserlo noi stessi, potremmo trovare felicità domani. Non potremo mai fare della terra un paradiso, ma possiamo e dobbiamo renderla sempre meno inferno. Chi rende infelici gli altri e non gusta per sé la felicità che ci dona la vita, con tanti segni umani e soprattutto con la fede in Dio, resterà infelice per sempre, come chi vuole mangiare e non ha bocca, vedere e non ha occhi, udire e non ha orecchi, amare e non ha cuore. La felicità cristiana è attiva, come il chicco di grano, e deve mostrare gioia già da oggi per poterla renderla credibile per domani. Si tratterà - come dice giustamente Benedetto XVI – di avere la ‘grande speranza’ oltre il tempo, ma sapendola nutrire di piccole speranze in questo tempo.
    Tre grandi nuclei centrali cristiani della gioia sono la lettura della Parola di Dio, in particolare dei cc. 13-17 del Vangelo di Giovanni, che è una grande rilettura post-pasquale del modo di pensare di Gesù sulla nostra gioia; la celebrazione dell’Eucaristia, che riattualizza e ci consegna il segreto della gioia, la sua offerta di amore così totale e da cui deriva, terzo, la carità, che fa esperienza per sé e per gli altri di questa strana e straordinaria logica dei cristiani, da oltre 2000 anni! Insomma, non puoi dire ‘Dio’ se non provi gioia. Non potrai provare gioia vera ed ultima se non entri in dialogo con Dio.
    È un capovolgimento dei valori tutto questo? Non lo è, se ciò volesse dire che i cristiani devono stranamente camminare a testa in giù e piedi in alto. Direi invece che è un approfondimento radicale della nostra vicenda umana. Non ci è data la felicità del bengodi, del ricco stolto dai granai ripieni, e nemmeno si identifica con le ricette di felicità che l’uomo si dona da sé con i suoi ragionamenti e la sua sola esperienza. Il cristiano non le disprezza queste risorse, anche lui gioca al lotto, fa i giorni di vacanza, si ingegna per avanzare, ma nel contempo le discerne, per dare loro quel respiro vasto e permanente di cui solo Dio è capace. E dalla Parola di Dio viene ad avere la certezza di sapere che Dio vuole la nostra gioia e ci dà in Cristo la certezza di raggiungerla anche nel buio più radicale. La possibilità certa di felicità è già felicità. Tante volte è l’unica. A patto che tra gli uomini circoli lo stesso stile di vita di Gesù, la vita buona di Gesù, la stessa carità di Gesù. E’ la carità il segreto della felicità, domani e oggi. E questo è anche la forma naturale, da diversi laici presagita tra le più ambite, per essere e fare felici: amare ed essere amati.
    “Allora ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto” (Is 35, 10).


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