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    Perché

    leggere Dante oggi?

    Maria Soresina

    Incominciamo col porci la domanda: “Perché leggere?”. Si legge per il piacere, il godimento. Qui la risposta alla domanda “Perché leggere Dante?” è fin troppo facile: i suoi versi sono di una bellezza assoluta! Il piacere che dà la lettura di certe terzine è immenso.
    Ma si legge anche per apprendere, e qui sta la radice di quel provocatorio “oggi” nel titolo, che sottintende: Dante è un uomo del Medioevo, espone dottrine, idee filosofiche, scienza del Medioevo. Che interesse può avere oggi per noi? Forse quello di sapere cosa si pensava nel Medioevo, ma cosa ce ne facciamo noi oggi di un’idea, per esempio, come quella dell’Impero? È “necessario al benessere del mondo”,[1] scrive Dante: cose da Medioevo!
    Sì, ma non fermiamoci alla parola (Impero) guardiamo al di là, guardiamo all’idea: l’idea di Impero in Dante non è quella di una nazione che si espande a spese delle altre, a forza di aggressioni e guerre. No: è l’idea di un potere sovranazionale che, in quanto tale, può essere garante della pace e della concordia tra le nazioni, da cui consegue il benessere dell’umanità. L’anelito che sta dietro all’idea di Impero in Dante è esattamente lo stesso che ha mosso gli uomini del XX secolo a istituire la Società delle Nazioni prima, e l’Onu poi. È un’utopia. Ha potere l’Onu? Riesce a far smettere le guerre? No. È un’utopia.
    Ma, e questo è il punto: era un’utopia già per Dante! Dante espone questa idea, questo sogno, però è lui il primo a sapere (e a dire) che è irrealizzabile… se non si va alla radice del problema. È lui il primo a dire quali sono i motivi per cui non è realizzabile. E sono gli stessi motivi per cui ancor oggi non c’è pace sulla terra.
    E quali sono? Da un lato la cupidigia dei potenti, interessati solo al potere e al denaro (ieri come oggi) e, dall’altro lato (e questo è molto
    più importante) il popolo, le persone che come pecore seguono i propri capi, religiosi o civili che siano.
    È la cupidigia per il maladetto fiore (il fiorino, la moneta fiorentina che all’epoca era come il dollaro oggi), che ha disviato le pecore e gli agni (gli agnelli).[2] Dante vede la gente come pecorelle che non sanno ma, dice, non le scusa non veder lo danno,[3] perché
    se mala cupidigia altro vi grida [altro rispetto a quello che è la giusta via]

    uomini siate, e non pecore matte.[4]

    Sono esortazioni come questa a far capire, più di qualsiasi discorso, quanto sia importante leggere Dante oggi: la Divina Commedia non insegna solo un cammino spirituale, ma è anche un manifesto politico di assoluta attualità.
    Dante è attuale perché è eterno, è fuori dal tempo, fuori da quello che sono i costumi degli uomini che vanno, vengono, si modificano negli anni: a lui interessa l’essenza dell’uomo, che è sempre la stessa, non muta; ed è questa la ragione per cui anche l’uomo d’oggi vi può trovare risposta alle grandi domande della vita.
    È quello che hanno capito i poeti di tutti i tempi – e non solo italiani – che con Dante si sono da sempre confrontati:

    O, Divina Commedia, cosa sei dunque?
    Opera maldestra del piccolo Dante?
    Immensa opera del grande Dante?
    Opera mostruosa del perfido Dante?[5]

    Così scrive, nel 1966, Witold Gombrowicz in un delizioso breve testo che termina con un’ardente invocazione: “Spiegaci, o Pellegrino, come dobbiamo fare per giungere a te?”.
    Vi sono poeti e letterati che hanno scritto su Dante, a partire da autori antichi come Boccaccio, e altri (talvolta gli stessi) che si sono
    ispirati a Dante nello scrivere le loro opere. Per citare i nomi di alcuni moderni, e non italiani: Ezra Pound e T.S. Eliot, Jorge Luis Borges, Osip Mandel’štam, Samuel Beckett, Peter Weiss… e Philippe Sollers che ha scritto un voluminoso libro intitolato La Divine Comédie.[6] Non è una traduzione. Di che cosa tratta? Esattamente dei temi di cui tratta anche Dante: di noi, della nostra vita, della nostra società in tutti i suoi aspetti (cultura, religione, politica). È, si potrebbe dire, una intelligente riscrittura. Lo stile è quello di oggi e i personaggi citati sono a noi noti. Ma quello che conta, l’essenza, è quella di sempre, perché Dante “va beaucoup plus loin que son temps” e a leggerlo “medievalizzandolo” (come in genere si fa) ci priviamo della possibilità non solo di capire Dante, ma soprattutto di trovare in lui una prodigiosa chiave di lettura per capire il nostro tempo.
    Nei secoli Dante ha ispirato non solo poeti, ma anche pittori, musicisti, coreografi, registi cinematografici… e continuerà a essere una fonte inesauribile di bellezza e creatività. Sarà sempre attuale, sempre “moderno”.
    Moderno, modernissimo, soprattutto se paragonato con le idee e le prassi della Chiesa del suo tempo, è il suo approccio a Dio, nonostante non sia altro che l’antico cammino tradizionale. Questo è un ulteriore buon motivo per leggere Dante, a patto però che la peculiarità di questo cammino spirituale venga alla luce. Cosa che perlopiù non succede, perché nei commenti (scolastici e non) Dante viene compresso dentro i binari della più stretta ortodossia. È un’operazione miope e anche sterile, perché la religiosità di Dante è troppo grande e profonda: lui va al nocciolo più alto, più sacro dell’anima del cristianesimo, al rapporto dell’uomo con Dio.
    Dante esorta a essere uomini e non pecore. Cosa significa essere uomini, vivere da uomini? Significa in primo luogo usare la ragione. Il nostro poeta lo dice già nel Convivio: “Vivere nell’uomo è ragione usare”.[7] Usare la ragione è un concetto molto ampio, e ambiguo: i peccatori nel fondo dell’Inferno sono così in basso proprio perché hanno usato la ragione. L’hanno usata male, naturalmente, ma l’hanno usata. Che
    cosa intende quindi Dante per “ragione”? Quando, nel canto XXV del Purgatorio, vuole distinguere la facoltà razionale dell’anima da quelle vegetativa e sensitiva, la definisce come capacità di riflettere su se stessa. In altre parole è la capacità di vedere noi stessi, di essere consapevoli. Non si tratta di una facoltà innata nell’uomo, bensì di una capacità acquisita dopo tutto un cammino e un duro lavoro su di sé. È il conoscere se stessi. “Conosci te stesso” raccomandava l’oracolo di Delfi. Non è certo una cosa semplice: è la cosa più difficile!
    Questo è il nocciolo fondamentale della Commedia e il motivo principale per leggerla: Dante insegna il cammino che ci conduce alla conoscenza di noi stessi, senza la quale non vi può essere vera felicità. Egli stesso dice che lo scopo per cui ha scritto il suo poema è quello di “togliere i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato della felicità”.[8]
    È un percorso che tradizionalmente è suddiviso in tre tappe. Gli alchimisti le chiamavano:

    Nigredo o opera al nero;
    Albedo o opera al bianco;
    Rubedo o opera al rosso.

    Nell’induismo sono tamas, rajas e sattwa.
    Nella Commedia Inferno, Purgatorio e Paradiso.
    La prima tappa è un percorso nell’oscurità e discendente. Si tratta di vedere il male che alberga nel proprio cuore, nella propria mente. Ma ciò non riguarda i tanti personaggi che Dante incontra. Questi non compiono alcun cammino: sono lì, fermi, fissati per l’eternità, ma tanto affascinanti che alla fine ciascuno ricorda solo loro, ricorda Paolo e Francesca, il conte Ugolino e dimentica l’unico personaggio veramente importante, l’unico che compie un cammino: Dante stesso.
    Per quanto riguarda l’Inferno i vari personaggi non sono che la personificazione del male, di tutto il male che può esserci nel cuore dell’uomo. “Perché cotanto in noi ti specchi?”[9] gli chiederà un dannato
    conficcato nel lago ghiacciato sul fondo dell’Inferno. Dante si specchia perché vuole vedere e riconoscere il male nel suo cuore. Arrivato in fondo, il “maestro” (Virgilio) gli dice che ormai possono lasciare quel luogo, perché tutto avem veduto.[10]
    Poi giungono al Purgatorio, al

    secondo regno
    dove l’umano spirito si purga
    e di salire al ciel diventa degno.[11]

    Basterebbero questi pochi versi per attestare la credenza di Dante in questo regno intermedio inventato dalla Chiesa solo nel 1274. Il Purgatorio dantesco è però tutt’altra cosa. Certo, ci si “purga”, ma la purificazione è prevista in ogni cammino: non si può “salire al ciel” se non si è totalmente puri. Anche qui, concentrati sui personaggi e sulle modalità delle pene, non si pone sufficiente attenzione al fatto che a purificarsi è soprattutto Dante, come afferma inequivocabilmente nell’ultimo verso della cantica, dove dichiara di essere puro e disposto a salire a le stelle.[12] Infatti salirà alle stelle, ed è l’unico personaggio che vediamo “salire al ciel” alla fine del Purgatorio. Da un punto di vista teologico ciò è assurdo, improponibile, perché Dante è vivo!
    Raggiunto l’anelato incontro con Beatrice, il ritrovarsi puro e pronto a salire – con lei – verso il cielo potrebbe sembrare la fine del poema, ma non è così: c’è ancora un lungo cammino da compiere, l’intera terza cantica, che a detta dei grandi conoscitori della Commedia è la più bella. Qui viene portato a compimento il percorso della conoscenza di sé, che non consiste soltanto nel vedere il proprio male. Quello è un aspetto importante, ma rappresenta solo un primo passo: non si esaurisce qui la conoscenza di se stessi, come non si ferma all’Inferno, e nemmeno al Purgatorio, il viaggio di Dante. La conoscenza di sé consiste soprattutto nel riconoscere l’elemento divino nella propria anima e nell’identificarsi con esso, nel prendere coscienza della propria libertà eterna e della propria sostanziale identità con Dio.
    Nell’ultimo canto del poema Dante si paragona al geometra che si sforza invano di trovare la quadratura del cerchio, il grande enigma che ha assillato gli uomini nei secoli passati. Aveva già visto Dio come un punto luminosissimo. Ora sembra essere entrato in questo punto indivisibile, immensurabile e inalterabile (che tal è sempre qual s’era davante),[13] e vede in esso tre cerchi, che rappresentano la Trinità. Nel secondo cerchio, che rappresenta il Figlio, Dante vede un volto umano. I commenti leggono questi versi come un accenno al mistero dell’Incarnazione e quindi il volto sarebbe quello di Gesù Cristo. Ma Dante non lo dice. A mio avviso Dante vede il proprio volto: per che ’l mio viso in lei tutto era messo [14] (perché il mio viso era tutto messo in quel cerchio). Trovando Dio Dante trova se stesso.
    E mi piace citare ancora il mitico oracolo di Delfi, che non diceva solo “conosci te stesso”. Diceva anche: “se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerchi non potrai trovarlo nemmeno fuori. […] In te si trova occulto il Tesoro degli Dei. Oh Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei”.
    Infine vorrei affrontare una questione spinosa, sottesa in quanto finora detto: non perché leggere Dante, ma come leggere Dante.
    Sul modo tradizionale di leggere Dante avrei molto da dire, o piuttosto da ridire. Per quanto riguarda la scuola, in Italia, trovo criticabile il fatto che, non potendo ovviamente leggere l’intero poema, si scelgano (soprattutto per il Purgatorio e il Paradiso) solo alcuni canti, quelli ritenuti più belli, più poetici e dunque più famosi. È un criterio che non consentirebbe (e uso il condizionale) nemmeno di farsi un’idea della Commedia, se non fosse per l’insegnante che integra. Qui il ruolo dell’insegnante è fondamentale. Altrettanto criticabile è la prassi tradizionale di leggere separatamente le tre cantiche.
    Ricevuto l’imprinting, si va avanti così in sæcula sæculorum. Sì, perché è fin dai primissimi tempi (la Lectura Dantis è una tradizione che risale al Boccaccio) che si legge la Commedia canto per canto. Capisco che per la lettura non si possa fare diversamente, ma l’interpretazione deve spaziare: non si può cogliere il pensiero di Dante leggendo un canto come se fosse una poesia a se stante. La Divina Commedia
    è un’opera organica composta da cento canti. Ogni singolo canto è, in un certo senso, come la tessera di un puzzle: il significato lo si coglie solo all’interno dell’opera complessiva.
    Non a caso Dante l’ha strutturata in modo che (ad eccezione dei primissimi canti dell’Inferno) tutti i passaggi da un cerchio all’altro (o da un cielo all’altro per il Paradiso) avvengano sempre a metà di un canto. Ovviamente i commentatori considerano questi canti “brutti”, mancanti di unità, ma non si chiedono come mai Dante abbia operato in questo modo. A mio avviso si tratta di uno stratagemma escogitato proprio per far capire che il canto non significa niente, non rappresenta un’unità! Semmai è il cerchio o il cielo che può rappresentare un’unità, ma mai il singolo canto.
    Il bello della lettura della Divina Commedia è proprio quello di scoprire similitudini o contrapposizioni tra canti diversi, tra personaggi diversi. Non si tratta solo di godere dell’armonia dei versi, anche se questo rappresenta un aspetto importante. Assai più significativo – e davvero entusiasmante – è lo scoprire il pensiero di Dante.
    Dante aveva un messaggio da trasmettere, una dottrina. Lo dice a chiare lettere all’inizio del Convivio: “Movemi desiderio di dottrina dare”.[15] Della Commedia sono famosi e citatissimi i versi:

    O voi ch’avete li ’ntelletti sani
    mirate la dottrina che s’asconde
    sotto ’l velame de li versi strani.[16]

    Trasmettere una “dottrina” è l’obiettivo prioritario di tutta l’opera di Dante. Ma quale dottrina? La dottrina che lui espone è cristiana, ma non è quella cattolica: è proprio per questo che la deve “nascondere”.
    Ora, per cogliere la dottrina esposta da Dante, o meglio, per cogliere il suo pensiero, non c’è che un metodo: leggerlo. Leggerlo stando stretti alle sue parole (come esorta lui stesso: se non volete andar smarriti, restate nella scia della mia barca)[17] e sforzandosi di capire, umilmente e senza preconcetti, quello che lui voleva dire. Le note nel
    le edizioni scolastiche troppo spesso stravolgono il pensiero di Dante. Lo fanno, a mio avviso, soprattutto allo scopo, come già dicevo, di costringerlo entro i limiti dell’ortodossia. In parte in buonafede, in parte, temo, in malafede, perché se si va a fondo non si può non scoprire che molto ortodosso il pensiero di Dante non è.
    A questo proposito vorrei citare un libro di Leo Strauss dal titolo molto esplicito: Scrittura e persecuzione.[18] Leo Strauss non parla di Dante, ma spiega che quando c’è una persecuzione in atto gli scrittori che pensano in modo eterodosso sono sempre ricorsi a una determinata tecnica letteraria: esprimono il pensiero ortodosso in modo esplicito e ripetutamente, ma non rinunciano al proprio pensiero (eterodosso), e lo comunicano tra le righe con vari trucchi. È esattamente quello che fa Dante: la Divina Commedia è piena di asserzioni assolutamente ortodosse, cioè corrispondenti alla dottrina cattolica. Ci sono però anche dichiarazioni inequivocabilmente eretiche. Dante ricorre a un trucco fin troppo palese: fa dire a Beatrice più volte, all’inizio del Paradiso, che solo lei e i beati, che vedono in Dio, conoscono e dicono la verità.[19] In altre parole è come se dicesse: “Qualunque cosa ti abbiano detto Virgilio o i tanti personaggi incontrati in Inferno e nel Purgatorio non è necessariamente vero”. Infatti su moltissimi problemi vi sono evidenti contraddizioni tra quanto dice Virgilio e quanto dice Beatrice, ma se non si paragonano i canti fra di loro non si farà mai chiarezza su quello che è il pensiero meraviglioso, grande, altissimo di Dante. E si continuerà a sbandierare come “pensiero di Dante” ciò che dice Virgilio anche quando in Paradiso viene detto l’esatto contrario.
    In conclusione: leggere Dante è un viaggio della mente e del cuore, un’esperienza straordinaria, di quelle che possono cambiare la vita, ed è un privilegio riservato a coloro che conoscono la nostra bella lingua.

    NOTE

    1 Dante Alighieri, Monarchia, I, II.
    2 Paradiso IX, 130-1.
    3 Paradiso XXIX, 106-8.
    4 Paradiso V, 79-80.
    5 Witold Gombrowicz, Su Dante, Sugar Editore, Milano 1969, pp. 39-40.
    6 Philippe Sollers, La Divine Comédie, Desclée de Brouwer & Gallimard, Paris 2000.
    7 Dante Alighieri, Convivio IV, VII, 12.
    8 Dante Alighieri, Epistola XIII (a Cangrande della Scala).
    9 Inferno XXXII, 54.
    10 Inferno XXXIV,69.
    11 Purgatorio I, 4-6.
    12 Purgatorio XXXIII, 145.
    13 Paradiso XXXIII, 111.
    14 Paradiso XXXIII, 132.
    15 Dante Alighieri, Convivio I, II, 15.
    16 Inferno IX, 61-63.
    17 Cfr. Paradiso II, 14-15.
    18 Leo Strauss, Scrittura e persecuzione, Marsilio Editori, Venezia 1990.
    19 Cfr. per esempio Paradiso III, 31-33, Paradiso IV, 94-96, Paradiso VIII, 85-90 e 94-95, Paradiso XV, 55-63.

    (da: 

    Italogramma, Vol. 4 (2012) https://italogramma.elte.hu
    „sul fil di ragno della memoria”


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