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    Dante e Beatrice

    Il poeta e la donna amata 

    Bianca Garavelli

    dante e b eatrice

    […] riguardando ne’ belli occhi
    onde a pigliarmi fece Amor la corda.
    (Paradiso XXVIII, 11-12)

     

    La beatitudine di Beatrice

    Il poeta e la donna amata potrebbe essere il titolo per definire il rapporto fra Dante e Beatrice nella Vita Nuova. Ma nella Commedia potrebbe anche diventare Il profeta e la divina ispiratrice, oppure anche Il pellegrino dell’aldilà e la guida beata. Tutti questi titoli sarebbero ugualmente possibili e ugualmente veritieri. Perché Dante ha compiuto un’innovazione unica nel panorama della poesia del suo tempo: ha innalzato la coppia poeta-donna amata, tradizionale nella poesia d'amore cortese prima provenzale poi in volgare del sì, fino al cielo (1). Per tutto il viaggio nel Paradiso, e prima ancora durante l’incontro nel Paradiso terrestre, anche se è una beata del cielo Beatrice è pur sempre la donna onde a pigliarmi fece Amor la corda, attraverso cui Amore catturò il poeta, usando i suoi begli occhi.
    La dimensione dello sguardo rappresenta il comune denominatore fra la concezione amorosa, ereditata dal mondo dei trovatori e diventata poi stilnovistica nella versione elaborata da Dante, e la nuova versione della donna amata dei poeti del Duecento. Proprio lo sguardo, da fonte d'amore tra il poeta e la donna ispiratrice di poesia, diviene motore trainante per compiere l'ascesa: ogni volta che sale a un cielo superiore, Dante guarda prima gli occhi di Beatrice, oppure addirittura compie l'ascesa mentre li sta guardando. In ogni caso è sempre amore quello che passa dagli occhi della donna a quelli del poeta divenuto pellegrino: questa Beatrice teologa e santa, capace di dare spiegazioni al suo Dante e di portarlo al cospetto di Dio, è pur sempre la bambina di Firenze trasformata in Musa, forse l'unica presenza non fittizia, comunque la più autentica, delParadiso. E' questa l'intuizione centrale dei nove saggi di Etienne Gilson, ribadita in più punti e in diversi modi.
    Per capire la Beatrice in versione Paradiso possiamo vederla dalla meta finale del viaggio: vediamo il suo grado di beatitudine e perché Dante ha scelto proprio questa posizione per lei nell’Empireo:

      e se riguardi sù nel terzo giro
    dal sommo grado, tu la rivedrai
    nel trono che suoi merti le sortiro».

    (Paradiso XXXI, 67-69)

    Beatrice è seduta in un terzo giro della rosa dell’Empireo, che come si vedrà nel canto successivo è condiviso da una matriarca biblica, Rachele, già altre volte associata alla donna di Dante nel corso della Commedia. Dei «giri» della candida rosa in cui si mostra la gloria di tutti i beati Dante non parla in modo preciso in altre occasioni, nemmeno quando fa compiere a San Bernardo la presentazione dei principali santi che la compongono, nel canto XXXII. Ma per intuire a quale grado di beatitudine Dante situa la sua Beatrice in Paradiso, proprio colei che imparadisa la sua mente (Paradiso XXVIII, v. 3) si può ricorrere a questa vicinanza con Rachele. Dunque, Rachele viene citata come una delle più importanti anime beate della candida rosa visitata nel canto XXXII, in un passo in cui San Bernardo indica una linea di demarcazione fra coloro che credettero in Cristo venturo e chi invece credette in Cristo venuto, linea formata dall'alto verso il basso da donne presenti nelle Sacre Scritture. L’unica tra queste a non appartenere all’Antico o al Nuovo Testamento è proprio Beatrice. Indubbiamente, il suo rapporto con Rachele è importante, se anche molto prima, in quel canto II dell’Inferno in cui Virgilio spiega a Dante chi è andato a cercarlo al Limbo per mandarlo in suo aiuto, la stessa Beatrice la cita già come sua "vicina di posto" in Paradiso.

      Lucia, nimica di ciascun crudele,
    si mosse, e venne al loco dov'i' era,
    che mi sedea con l'antica Rachele

    (Inferno, II, 100-102)

    Nell'Antico Testamento, Rachele è la moglie di Giacobbe, una delle fondatrici del popolo di Israele. Ma in che modo Dante interpreta la figura di Rachele? Lo scopriamo in un passo del canto XXVII Purgatorio, in cui in un sogno premonitore del suo ingresso nel giardino dell'Eden vede le due sorelle bibliche Lia e Rachele, "figure", anticipazioni di Matelda e Beatrice che incontrerà appunto di lì a poco.

      «Sappia qualunque il mio nome dimanda
    ch'i' mi son Lia, e vo movendo intorno
    le belle mani a farmi una ghirlanda.
       Per piacermi a lo specchio, qui m'addorno;
    ma mia suora Rachel mai non si smaga
    dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
       Ell'è d'i suoi belli occhi veder vaga
    com'io de l'addornarmi con le mani;
    lei lo vedere, e me l'ovrare appaga».

    (Purgatorio, XXVII, 100-108)

    Insomma, se Lia è tutta intenta all'azione, Rachele è invece tutta dedita alla contemplazione, e lo dimostra guardando allo specchio i suoi belli occhi, belli proprio come quelli dell'amata Beatrice: di nuovo, lo sguardo è in primo piano. Questo è dunque il legame fra Rachele e Beatrice: Beatrice come Rachele è una donna che ha scelto la vita contemplativa, diventando così un legame tra il mondo terreno e quello spirituale, un legame reso possibile da una creatura vivente. Come Rachele, non è un semplice personaggio: Beatrice è viva, dimostra con la sua esistenza, le sue azioni e le sue scelte, che la direzione da prendere è questa. Ed è questo anche il filo conduttore dei saggi di Gilson, particolarmente di alcuni: Dalla "Vita Nuova" alla "Commedia"La mirabil visionePoesia e teologia nella Divina Commedia, e persino il penultimo, Note sulla filologia romanzata, una sorta di colloquio a distanza con Michele Barbi, di cui Gilson confuta lo scetticismo dello studioso sull'autenticità dell'amore, pressoché eterno, che ha legato Dante alla sua donna. 
    In altre parole, secondo Gilson ciò che rende la Commedia un testo unico, che fa saltare tutte le categorie dei generi, e soprattutto più autentico di qualsiasi altro mai scritto, è proprio questo: che è una promessa d'amore mantenuta.

    La vera natura della Commedia e la "trilogia per Beatrice"

    I nove saggi di Gilson, in particolare il primo, ci inducono a riflettere su alcune realtà interessanti, riguardanti le possibili motivazioni che hanno reso Dante l'autore della Commedia, o, come la chiama l'autore usando l'aggettivo tributato da Boccaccio, la Divina Commedia.
    La sua idea, che difende in alcuni tra questi saggi anche senza ricorrere nel titolo al nome di Beatrice, è che il poema sacro sia unico, anche se è il risultato della commistione di più generi ben codificati e non certo nuovi per il suo tempo, perché la motivazione più profonda che lo sostiene è proprio mantenere la promessa di lodare Beatrice come mai non era stato fatto per nessuna donna amata da un poeta e da lui cantata nei suoi versi. Un'interpretazione che potrebbe essere romantica, se non venisse da uno studioso della filosofia medievale. 
    In effetti, l'argomentazione di Gilson è filosofica: rende più coerenti col personaggio Dante, e nel contempo umanamente spiegabili, i famosi «trenta mesi» che Dante stesso dichiara di aver trascorso a studiare filosofia, per colmare una sua lacuna culturale (2). Infatti secondo Gilson esiste una continuità in tal senso, un felice collegamento fra tre opere dantesche tutte in volgare, che considera i suoi veri capolavori: Vita NuovaConvivio e Commedia. Questo felice collegamento è rappresentato da Beatrice. 
    Ora, possiamo accettare con una certa facilità che tra Vita Nuova Commedia esista una naturale continuità, dato che di entrambi i libri Beatrice è protagonista. Nella seconda parte dellaVita Nuova, dopo la sua morte, avviene già quel passaggio straordinario che rende sia il poeta sia la sua donna figure uniche nella storia della letteratura: l'amore diviene spinta al misticismo, conduce a una meta ultraterrena. E' un caso unico nella poesia erede della grande tradizione dei trovatori. E il fatto che Beatrice appaia solo alla fine del Purgatorio non significa che non abbia esercitato un ruolo importantissimo, con la sua stessa assenza, per tutta la durata del viaggio nell'aldilà. Ma è più difficile comprendere la tesi di Gilson per quanto riguarda il Convivio, in cui Beatrice è solo brevemente citata. Eppure, secondo lui, Beatrice è la causa finale, cioè il fine autentico, per cui Dante ha composto anche l'incompiuto Convivio
    E' indubbiamente una tesi che induce a riflettere, a rivedere con occhi diversi alcuni aspetti del percorso intellettuale di Dante. Si è soliti pensare, attenendosi a quanto lui stesso racconta, che Dante dopo la morte di Beatrice avesse vissuto un periodo di solitudine sentimentale, durante il quale aveva cercato consolazione al suo dolore immergendosi nello studio della filosofia. Ladonna gentile che appare nei capitoli conclusivi della Vita Nuova e torna nel primo trattato delConvivio non sarebbe altri che la filosofia, di cui Dante si sarebbe innamorato come di un'altra Beatrice. Gilson rovescia questa prospettiva: in realtà, Dante si è immerso nello studio dei filosofi contemporanei, che gli mancava, per prepararsi a meglio lodare Beatrice in un'opera futura che sarebbe diventata il suo capolavoro. Così è nata la Commedia in cui Beatrice fa sfoggio del nuovo sapere teologico dantesco, ma anche il Convivio, che è la testimonianza dell'impegno con cui il poeta si è dato alla filosofia, fondendo cultura letteraria e cultura teologica, e trasformandosi perciò in un personaggio unico nel panorama letterario del suo tempo. Diventato un esperto di quel sapere filosofico e teologico che aveva il suo fulcro nello Studium di Parigi, sapere che aveva rinnovato la cultura europea fondata sulla grammatica, formazione culturale quasi esclusivamente letteraria, Dante aveva sentito l'impulso entusiastico di proporlo ai lettori meno preparati, e soprattutto inesperti di lingua latina. Con questo intento divulgativo nasce ilConvivio, ed è solo perché in seguito cede alla suggestione assoluta della poesia che Dante ne abbandona il progetto lasciando l'opera incompiuta: «giunge dunque la poesia dove la filosofia non può arrivare», osserva Gilson (3). Ma nulla del nuovo sapere teologico viene abbandonato nel Poema Sacro. E il nesso diretto fra Vita Nuova Convivio continua a esistere nella Commedia: scriverla per Dante è un modo per venerare in Beatrice la fonte stessa della sua arte. E' attraverso lei, attraverso l'idea del viaggio che la beata donna gli ispira (ispirazione spiegata nel saggio La mirabil visione), che Dante percorre paesaggi ultraterreni, si pone domande e cerca risposte, non sempre trovandole, ma almeno proponendole ai suoi lettori come quesiti esistenziali, come misteri chiusi nella mente di Dio. Questa ispirazione era già nata nella Vita Nuova, sottolinea Gilson con pacate e metodiche deduzioni, perché da quando Beatrice è morta Dante non ha desiderato altro che di raggiungerla, almeno per il momento attraverso la poesia, quindi si è voluto attrezzare teologicamente, per poter descrivere angeli e beati con cui vive la sua donna, insomma quel mondo dell'aldilà di cui non sapeva abbastanza.
    Gilson porta alla luce le domande, i quesiti e i dubbi di Dante, e a volte se ne pone di propri, con un approccio curioso e originale, a metà strada fra filosofico ed estetico.

    Gilson, la filosofia medievale e Dante

    La prima questione aperta è proprio quella dell'incompiutezza del Convivio: si può non essere affatto d'accordo con l'idea di Gilson, e studiosi importanti non lo sarebbero (4). In ogni caso, qualunque sia la vera ragione dell'abbandono del trattato, qui va riconosciuto allo studioso francese il merito di averla sollevata in termini originali. Le altre questioni sono altrettanto interessanti, e tanto stimolanti in quanto ancora attuali:
    se Dante creda davvero nell'esistenza delle «ombre» di cui racconta;
    se una parte della sua ispirazione filosofica sia di fonte platonica (con la conseguente riflessione sulla grande libertà con cui Dante agisce nella scelta delle proprie fonti);
    il concetto di "materia" riferito all'Empireo, e l'assenza proprio di questa parola, che designa il cielo di Dio e dei beati, in tutto il Paradiso;
    Dante come punto d'incontro fra due culture "nemiche" nel Medioevo: quella fondato sullagrammatica, ormai superata, e quella nuova, fondata sulla filosofia scolastica;
    l'autenticità dell'Epistola a Cangrande;
    la coerenza del finale della Vita Nuova, nodo di passaggio dall'opera giovanile al Convivio e da questo alla Commedia;
    Dante come rappresentante perfetto del Medioevo e non già uomo dell'Umanesimo;
    l'autenticità del suo amore per Beatrice, a dispetto di tutte le interpretazioni intellettuali che lo considerano pura creazione letteraria.
    Tutti argomenti interessanti, tra cui quello conclusivo sarebbe degno di chiudere il discorso, perché con esso l'indagine era cominciata, a partire da un evento riguardante la memoria dantesca. Tuttavia il posto d'onore della chiusura è riservato a una riflessione sulla "traduzione intersemiotica", come la chiameremmo oggi (5), fra la Commedia e alcuni quadri e affreschi di Delacroix: a testimoniare quanto stesse a cuore a Gilson che l'eredità di Dante fosse in qualche modo raccolta anche in Francia.
    Questi saggi sono stati pubblicati quattro anni prima della morte di Gilson, nel 1974, quando l'autore aveva novant'anni. Nato a Parigi il 13 giugno 1884, Gilson apparteneva alla stessa generazione degli Ungaretti, dei Saba, una generazione intellettualmente privilegiata e longeva, e rivela qui la sua intatta giovinezza intellettuale. I nove testi sono stati scritti e pubblicamente singolarmente, nella maggior parte dei casi, per il centenario della nascita di Dante, nel 1965, tuttavia non sono semplicemente degli scritti occasionali, ma sempre nel segno di una continuità e di una profonda coerenza di pensiero. Il centenario e le sue celebrazioni sono citate da Gilson anche nell'ultimo saggio inedito, per lamentare lo scarso interesse suscitato in Francia da questo evento per lui importante. Soprattutto, a Gilson dispiace che alla Commedia sia rimasto uno scarso numero di lettori nella Francia degli anni Settanta. Probabilmente sarebbe contento di poter vedere come oggi l'interesse per Dante sia nettamente aumentato, almeno in Italia.
    La formazione culturale di Gilson era tale da permettergli di apprezzare appieno Dante come un campione del pensiero medievale: infatti nessuno meglio di lui conosceva e interpretava la filosofia della Media Età. Fin dagli studi universitari si era interessato soprattutto alle tematiche della filosofia scolastica, addirittura sulla sua influenza sul pensiero cartesiano. Dopo la Grande guerra, a cui aveva partecipato ottenendo riconoscimenti per il suo valore, iniziarono i lunghi anni del suo insegnamento universitario: dapprima all'Università di Strasburgo, quindi a partire dal 1921 in quella di Parigi. Tra i suoi numerosissimi lavori, ancora insostituibile è La filosofia medievale (2 voll. Payot, 1922). Di Dante si era direttamente occupato nel saggio Dante e la filosofia (Vrin, 1939), dopo aver toccato i capisaldi della sua stessa cultura filosofica, nei saggi La filosofia di San Bonaventura (Vrin, 1924), San Tommaso d'Aquino (Gabalda 1925), La teologia mistica di San Bernardo (Vrin, 1934): non a caso, tutti teologi e santi che sono diventati personaggi del Paradiso dantesco.
    Dante e Beatrice è la sua penultima pubblicazione, e senz'altro anche a questo contributo alludeva papa Paolo VI, quando gli scrisse una lettera (datata 8 agosto 1975) che ne lodava lo «sguardo di filosofo e storico» in grado di toccare «la qualità dell'uomo e della civiltà», e naturalmente non mancava di citare i suoi studi su Dante (6). In effetti, i temi che lo affascinano studiando Dante spaziano dalla filosofia alla teologia alla cultura popolare, alla letteratura e alla pittura.

    Ombre, luci, anime e fantasmi

    Gilson dedica due saggi alla definizione di "ombra" nella CommediaChe cos'è un'ombra? Ombre e luci nella Divina Commedia, in entrambi i quali menziona la tradizione medievale, non solo letteraria ma soprattutto popolare, della credenza in fantasmi e spettri. Ciò che è interessante è la domanda che lo studioso si pone, senza mettere in dubbio la fede del poeta: Dante credeva nelle ombre che descrive, che vede, incontra e con cui dialoga durante il viaggio nell'aldilà? In questo caso, trova anche la risposta: il poeta è libero dalle pastoie della credenza popolare, anche se, come Gilson afferma giustamente, non è detto che l'eccesso di erudizione faciliti la comprensione dell'architettura e dell'aspetto dell'aldilà dantesco. Sicuramente, anche se non crede nei fantasmi, Dante queste ombre le crede possibili, in termini strettamente teologici e di fede. Infatti, si preoccupa di giustificarne la formazione, spiega minuziosamente come questi corpi che non sono corpi assumano un aspetto così simile a quello umano. Non lo fa subito, anche se accenna fin dal secondo girone infernale, quello dei golosi, al fatto che pur essendo anime separate dai corpi, e perciò necessariamente immateriali, i dannati subiscono le pene corporali soffrendo come se ancora avessero corpi viventi (7). Ma la spiegazione vera, filosoficamente ineccepibile e completa, si trova solo nel Purgatorio, dove passaggi e argomentazioni che descrivono la formazione di questo fittizio «corpo dell'anima» testimoniano la profonda conoscenza dantesca della filosofia aristotelica. Ma non solo: siccome i grandi teologi della Scolastica, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, si limitano a offrire pochissimi elementi tecnici sulla vita dell'anima umana dopo la morte del corpo, la sua punizione e la sua gloria, la costruzione di un aldilà così complesso e vibrante, diviso in tre regni, ciascuno con un suo paesaggio e una sua atmosfera, per così dire, non poteva avere come fonte solo la teologia del Duecento, sia pure indispensabile come base di sapienza. Perciò dunque ecco intervenire Virgilio con il suo Eliso, che non ha nulla a che fare con quello cristiano, ma che può colmare qualche lacuna immaginativa. Gilson non sembra conoscere la questione del rapporto fra la Commedia e la letteratura araba, in particolare il Libro della Scala di Maometto che con ogni probabilità ha rappresentato a sua volta un buon serbatoio di spunti per qualche immagine e qualche pena infernale (8). Tuttavia la sua osservazione sull'importanza per Dante di quella che chiama «letteratura romana classica», cioè l'epica dell'Eneide, è giusta e fondamentale. Tant'è vero che solo in un poema come la Commedia poteva essere possibile assistere all'incontro, forse il più improbabile che si sia mai visto, eppure reso verisimile dalla sua poesia, fra uno dei più celebri poeti latini e una giovane donna della Firenze del Duecento. E' quanto accade nel canto II dell'Inferno, e Dante spiega come questo incontro fosse stato preparato da una sostanziosa serie di sante mediazioni femminili, questa volta provenienti dall'Antico Testamento. Questo è un ottimo esempio di come cultura classica, medievale e biblica si incontrano e convivono felicemente nel Poema Sacro.
    Lo stesso discorso sull'anima vale per il Paradiso dove però, osserva Gilson, la parola "ombra" scompare. L'unica occorrenza è nel canto III, ma sembra essere una scelta quasi meccanica, dettata dall'abitudine, per i primi personaggi e all'inizio della terza e ultima cantica, in cui i puri spiriti che il pellegrino Dante incontrerà saranno ben diversi da quelli visti fino a qui: non più esseri dalla forma pur vagamente umana, ma davvero puri concentrati di amore. Tanto che appaiono come forme luminose, in cui qualsiasi lineamento umano è ormai indistinguibile, e anzi la cui emanazione luminosa diventa sempre più insostenibile per lo sguardo ancora umano di Dante. Ed è un metodo ben riuscito, che coniuga teologia e realismo narrativo, per rendere anche ai lettori la struttura gerarchica delle anime del Paradiso, il cui splendore luminoso è direttamente proporzionale al grado di beatitudine.

    Aristotelismo e platonismo nella Commedia

    A proposito di anime e ombre, Gilson è un convinto assertore dell'aristotelismo della Commedia. Eppure, ha l'intuizione felice di una contaminazione di questo sapere, pur sempre preponderante, col platonismo, cioè la corrente filosofica di derivazione platonica che aveva il suo continuatore nel filosofo ellenistico Plotino. Anche tale questione negli anni successivi fu riaperta e ancora oggi è attuale. Assodato che Dante è indipendente da qualsiasi credenza popolare sull'esistenza degli spettri e che basa la conformazione e la vita degli abitanti del suo aldilà sulla propria fede e sulla sua cultura teologica, è interessante mettere a confronto la sua idea di anima, che è indubbiamente quella tripartita della filosofia scolastica, quindi aristotelica, con l'idea di Anima universale e dei suoi "riflessi", che è invece di origine platonica (9). In effetti, e questo Gilson non ce lo fa notare ma non possiamo fare a meno di osservarlo stimolati da lui, la descrizione dantesca, fatta attraverso una delle tipiche lezioni teologiche di Beatrice, della creazione degli angeli, è più platonica che aristotelica. Quindi Gilson, che qui sembra escludere un sapere platonico di Dante, per lui tutto aristotelico, tuttavia intuisce che da fonti difficili da individuare qualche traccia di questo filone filosofico appaia nella Commedia e anticipa così alcuni interessanti studi successivi (10). E ci fa notare come la teoria della formazione delle ombre esposta nel canto XXV del Purgatorio si probabilmente una creazione teologica originale di Dante, pur mutuata dalla lettura di San Tommaso, che pure parla di formazione di anime e corpi, ma non di ombre.
    Resta senza risposta, poi, una sua domanda: come mai, visto che man mano che Dante sale, l'aspetto umano delle anime è sempre meno visibile e quelli che erano un tempo uomini e donne appaiono sempre più come globi di luce, fiaccole accese, riflessi della luce divina, una volta arrivato nella candida rosa il pellegrino riesce nuovamente a scorgere lineamenti, volti, aspetto fisico generale? Potremmo osare rispondere, anche se Gilson con il suo tipico senso dell'umorismo sospetta di «aver preso troppo sul serio Dante». Come già Beatrice gli ha anticipato, nella vera sede dei beati Dante troverà risposta a tutte le domande che gli premono nella mente, e non solo: avrà la gioia e il privilegio di vedere l'aspetto vero, l'aspetto definitivo, degli eletti, quello che avranno dal Giudizio universale in poi. Non più solo anime splendenti, ma anime e corpi eternamente uniti, senza più corruzione perché le leggi del mondo fisico saranno superate dalla perfezione della salvezza raggiunta. Il pellegrino aveva chiesto questo privilegio a San Benedetto, che incontra nell'ultimo cielo in apparenza abitato da anime, il settimo, quello di Saturno. Ma il santo gli risponde che per il momento non è possibile, che dovrà aspettare ancora un po', cioè fino a raggiungere l'ultima spera, l'ultimo cielo che non è propriamente un cielo astronomico:

      Però ti priego, e tu, padre, m'accerta
    s'io posso prender tanta grazia, ch'io
    ti veggia con immagine scoverta».
      Ond'elli: «Frate, il tuo alto disio
    s'adempierà in su l'ultima spera,
    ove s'adempion tutti li altri e 'l mio.
      Ivi è perfetta, matura e intera
    ciascuna disianza; in quella sola
    è ogne parte là ove sempr'era,
      perché non è in loco e non s'impola;
    e nostra scala infino ad essa varca,
    onde così dal viso ti s'invola.

    (Paradiso, XXII, vv. 58-69)

    Giunto finalmente nella vera sede dei beati, ecco che il desiderio di Dante è esaudito: non solo vede il volto di anziano venerando di San Bernardo di Chiaravalle, ma anche quello della Madonna, dei grandi personaggi biblici, dei padri della Chiesa, e persino dei bambini morti prima di poter esercitare il libero arbitrio.
    Dunque, potrebbe essere questa la risposta alla domanda che Gilson si pone alla fine di Ombre e luci nella "Divina Commedia". Anche se forse nessun lettore del poema ha mai percepito come una difficoltà narrativa questa contraddizione fra invisibilità nella luce prima e ritorno alla visibilità dei lineamenti poi. Così come non ha mai percepito, come Gilson stesso intuisce, alcuna difficoltà nel fatto che le "ombre" di Inferno Purgatorio soffrano pene corporali, siano visibili e persino dimagriscano.

    La "materia" del Paradiso

    San Benedetto, rispondendo alla richiesta di Dante, gli offre anche una definizione del luogo della sua e altrui beatitudine, che la scala degli spiriti contemplativi come lui, visibile al pellegrino nel cielo di Saturno, raggiunge perdendosi alla vista: è, naturalmente, l'Empireo.
    Sempre restando nell'ambito del Paradiso e dei suoi fenomeni difficilmente comprensibili per le nostre menti legate ai parametri terreni, l'analisi di Gilson si spinge fin lì, fino a quello che Dante stesso definisce, con estrema attenzione e cautela, come l'ultimo cielo, che potrebbe essere il decimo nella numerazione matematica, ma forse non è un cielo ma il Paradiso per eccellenza: appunto l'Empireo. Lo studioso osserva un fenomeno lessicale che a quanto mi risulta non è stato mai rilevato da alcuno: il sostantivo "empireo" non viene mai usato da Dante, almeno nelParadiso, e quasi mai in tutta la Commedia, dopo una fugace apparizione nella prima cantica. Gilson si chiede allora, con curiosità indubbiamente legittima, il motivo di tanta cura, perché di attenzione, di cura appunto si tratta, nella scelta di non usare mai proprio questo sostantivo. E' l'argomento del quarto saggio, Alla ricerca dell'Empireo, dove, esaminate accuratamente le fonti teologiche di Dante in proposito, Gilson giunge alla conclusione che la sua scelta è data da una ragione squisitamente concettuale: "empireo" sembra essere un sostantivo troppo materiale per definire questo luogo-non-luogo, sede eterna di tutti i beati in compagnia di Dio stesso, dunque origine di tutto ciò che esiste e nel contempo sua fine. Ma la difficoltà di Dante nel circoscrivere, con le sue terzine in cui la poesia rende musica anche le nozioni più elevate di teologia, la natura di questo che è la meta ultima di tutte le anime elette, è uno degli aspetti più interessanti e sorprendenti della Commedia: sembra che Dante abbia qui anticipato l'attuale scienza delle particelle con un'idea di Dio come punto (in Paradiso XXVIII) e di fusione fra materia ed energia che solo la fisica del ventesimo secolo ha portato alla luce. Se infatti l'Empireo è un cielo, o comunque ha in sé aspetti materiali, è indubbio che la sua materia è speciale, deriva direttamente da Dio, è la sua energia primaria fatta luce. Siamo qui allo stato di fusione fra la vibrante energia e la solidificata materia.

    Teologia, poesia e amore per la conoscenza

    In effetti, Gilson non si stanca mai di affermare che uno dei lati più straordinari della personalità dantesca è la convivenza in essa fra amore per la bellezza e la poesia, e insopprimibile curiosità scientifica. Quella che per noi oggi è scienza, al tempo di Dante era speculazione filosofica e teologica. E' proprio perché infine l'amore per la poesia ha prevalso, che secondo Gilson ilConvivio è stato lasciato incompiuto. Solo se Dante avesse voluto essere un filosofo e non un poeta avrebbe portato a termine il trattato e non avrebbe scritto il poema che è il suo capolavoro.
    Quel che è importante segnalare qui è comunque l'immagine di Dante come "uomo delle due culture nemiche": una figura unica di intellettuale, in cui trionfarono contemporaneamente due modi opposti di pensare la formazione culturale e il sapere. E' questa la ragione per cui Dante è superiore a tutti: in lui grammatica e Scolastica si fondono in modo fecondo, producendo uno dei capolavori più straordinari di tutti i tempi, la Commedia.
    Nel saggio Poesia e teologia nella Divina Commedia, Gilson mostra come Dante, sostanzialmente unico fra i poeti del suo tempo, abbia voluto aggiornarsi sul nuovo modo di fare filosofia, la Scolastica, che contrariamente a quanto a volte si crede non fiorì per tutto il Medioevo ma solo per gli ultimi duecento anni, e rappresentò una vera rivoluzione del sapere, che aveva come fulcro l'università di Parigi. Gilson non ne parla, ma questo modo di interpretare la formazione culturale di Dante si concilia con la "leggenda", che forse leggenda non è, del suo viaggio a Parigi, dove avrebbe potuto incontrare direttamente grandi personalità della filosofia del tempo, anche se non più Tommaso d'Aquino, morto nel 1274 (11). In questo caso, l'esilio per lui da disgrazia si sarebbe trasformato in occasione privilegiata. E' da questo doppio aspetto del suo sapere che Dante sarebbe diventato nel contempo una sorta di filosofo (soprattutto quando scrive laMonarchia) e di autore di Sacra Scrittura (naturalmente quando scrive la Commedia), appunto tenendo insieme con gli strumenti poetici straordinari che aveva affinato in anni di produzione, filosofia e scrittura profetica, sacra. E' anche da questa considerazione che emerge secondo Gilson la quasi certezza dell'autenticità dell'Epistola a Cangrande, che commenta in modo perfetto la nuova idea dantesca di poesia: «se non è sua, è una fortuna che qualcuno l'abbia scritta a suo nome», afferma Gilson. 
    Questo è anche il motivo principale per cui Dante compendia così bene nella sua opera il Medioevo. Nella sua vita, in cui è tutta compresa quella di Duns Scoto (di cui condivide probabilmente l'anno di nascita, il 1265), è davvero fino in fondo uomo del Medioevo, e anche se ama Virgilio e l'epica latina non è un umanista. E non è affatto un'offesa per lui che non lo sia. L'Umanesimo è un fenomeno culturale italiano, proprio perché è la conseguenza diretta dellagrammatica: Dante però non è come Petrarca perché fonde in sé la cultura di eredità latina e quella dell'Europa centro-settentrionale. Unendo due ingredienti così diversi con un ingrediente di coesione che ha a sua volta ereditato dal latino, ma dal latino classico: i grandi modelli della poesia. Ancora una volta, con una linea di demarcazione importante: quello che per Petrarca è il modello più grande, alla biblioteca di Dante manca: Cicerone. Quello che per Dante è Virgilio per Petrarca è Cicerone, con la differenza tra la scrittura dei due che conosciamo, tanto che Dante, secondo Gilson, è più vicino a Omero che a Virgilio, anche se non ha mai letto Iliade Odissea in vita sua.

    La "visione" di Beatrice, la poesia e la vita di Dante

    Ed eccoci di nuovo alla prevalenza della poesia nell'opera di Dante, che è riuscito a farla scaturire dalla fisica di Aristotele, come acqua da una roccia (12), ed eccoci a quel simbolo dell'ideale poetico dantesco che è il finale della Vita Nuova. Nel saggio La mirabil visione Gilson torna all'idea difesa nel primo saggio che le tre più significative opere di Dante, Vita NuovaConvivio eCommedia, trovino il loro senso più profondo nel desiderio del poeta di raggiungere nuovamente Beatrice. Infatti la tanto analizzata "visione" che l'autore racconta nel capitolo conclusivo del suo romanzo per Beatrice non è altro, secondo Gilson, che l'idea della Commedia, non tanto l'intero disegno dell'opera, quanto l'illuminazione, non certo un fenomeno inconsueto per uno scrittore, sul fatto che avrebbe avuto addirittura la missione di comporla. Insomma, Dante amò per tutta la vita Beatrice e dall'immagine, dal ricordo, dalla nostalgia di lei si lasciò guidare per tutta la sua vita letteraria, e non solo. Cosa che invece non avvenne a Tolstoj anche se dichiarò due volte di essersi innamorato a nove anni di una coetanea, Sonia Kolochine, e di averla poi amata per tutto il resto dei suoi giorni: non scrisse mai nulla su di lei (13).
    Personaggio unico nella letteratura, Dante lo è anche nella vita, quindi. La sua esistenza fu segnata da un'esperienza eccezionale, non solo la sua opera. L'intreccio profondo tra fede, passione, rigore politico, lo ha spinto ad affrontare le attività più disparate, da artista a uomo di governo, da studioso e scienziato a diplomatico, senza mai venir meno ai suoi principi nonostante il peso dell'esilio. Tanto coraggio nelle scelte esistenziali è pari a tanta originalità nella creazione del Poema Sacro: accanto alla sua donna, Dante è l'unico autore di un poema epico che vi colloca se stesso come protagonista. Forse per questo è diventato un personaggio così interessante che incuriosisce ancora oggi, e si è trasformato nel protagonista di romanzi avvincenti (14)
    Gilson osserva che nessun poeta francese dell'epoca di Dante avrebbe potuto fondare la lingua nazionale come lui fece, e non solo: ancora oggi Dante può essere profeta del futuro della nazione italiana e persino dell'Europa, con la sua idea di unità all'insegna dell'Impero. Vale la pena di citare, in conclusione e come buon auspicio per tanti altri lettori, le parole stesse dello studioso: «Per un italiano l'opera di Dante raggiunge tutte le fibre del suo essere. La lingua italiana, la storia dell'Italia in cerca della sua unità e persino della sua personalità di Stato moderno, tutto nella Commedia contribuisce a farne lo specchio della nazione che nel 1965 ha celebrato il settimo centenario della nascita del suo autore» (15).


    NOTE

    (1) E' la riflessione a proposito dell'evoluzione ultraterrena della coppia poeta-donna amata, davvero suggestiva, che ha fatto Elena Landoni: «[…] il patto dell'amore cortese […] viene esaltato in termini esistenziali nell'indissolubilità del legame tra donna e uomo non più in nome di un virtuoso impegno reciproco, ma perché solo una forma definita può divenire feconda nell'ordine universale» (Elena Landoni, Il "libro" e la "sententia". Scrittura e significato nella poesia medievale: Iacopone da Todi, Dante, Cecco Angiolieri, Vita e Pensiero, 1990, p. 73). Ma è in primo luogo quella fondamentale di questi saggi di Gilson.

    (2) Dante stesso racconta come, dopo la morte di Beatrice, per cercare conforto dalla sua disperazione, si sia dedicato allo studio della filosofia, approfondito al punto tale da assorbire tutta l'energia della sua mente: «E sì come essere suole che l'uomo va cercando argento e fuori de la 'ntenzione truova oro, […] io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; […]. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.» (Convivio, II, XII, 5-7) Insomma, Dante segue una sorta di corso universitario accelerato, con la donna, cioè la signora delle opere dei filosofi e dei teologi, la filosofia appunto, corso che ben si addice a un talento precoce, a un'intelligenza rapida e prensile come la sua.

    (3) A p. 6 del primo saggio, Dalla Vita Nuova alla Divina Commedia; Gilson qui osserva anche come nel trattato della Monarchia Dante abbia convogliato la sua originale filosofia politica, rendendo quindi doppiamente inutile continuare il progetto del Convivio: «Dante pensa fin d'allora a Roma, con l'Impero, e l'importanza dell'argomento ci dà, fin dal Convivio, pagine dov'è già contenuto tutto l'essenziale della Monarchia. Il poeta forse ha interrotto la stesura del Convivio perché una volta in presenza di quel magnifico argomento, […] non aveva potuto resistere al desiderio di trattarlo isolatamente, in un'opera distinta, e immediatamente? Sono terribilmente tentato dal pensarlo […]. […] E' quanto meno un fatto che Dante ha lasciato incompiuto il Convivio, ma questo si spiega forse semplicemente con la continuità stessa del progetto di Dante. Aveva intrapreso studi filosofici per essere in grado di parlare più degnamente di Beatrice beata. […] La "mirabil visione" si faceva a poco a poco cielo di una Divina Commedia.»

    (4) Per esempio Enzo Quaglio pensa che «i quattro trattati del Convivio stesi da Dante rimasero fra le sue carte private […] . Solo dopo la morte di Dante qualcuno trasse dallo scartafaccio autografo […] quella copia scorretta donde dipendono i manoscritti a noi pervenuti (Enzo Quaglio, Convivio, in «Città di Vita», XX, 1965, 361-382, p. 363). Insomma, per lo studioso Dante aveva solo steso un abbozzo dell'opera, che aveva poi abbandonato in quanto non credeva più nel suo stesso progetto.
    Maria Corti invece ritiene che Dante abbia seguito un percorso ben diverso da quello della filosofia, tutta laica, che aveva animato il Convivio, passando a una visione teologica del mondo; che perciò abbia riversato tutto il suo sapere dalla prosa del trattato alle terzine del Poema Sacro: «[…] Dante passava dal sicuro influsso dell'aristotelismo radicale, di cui vari segni restano al Convivio e alla Monarchia […], cioè da una filosofia laica che su monito delCommentator per eccellenza, Averroè, si teneva ben distinta dalla teologia, […] al fascino della grandiosa e armonica costruzione tomistica, dove l'aristotelismo veniva accolto con un procedimento di immunizzazione nei riguardi della sua natura laica» (Maria Corti, Dante a un nuovo crocevia, Quaderni della Società Dantesca Italiana, Sansoni, 1981, p.79).
    Ruedi Imbach non è del tutto d'accordo: pensa che il progetto filosofico di Dante proceda con continuità dal Convivioalla Commedia, dove «la filosofia, asilo e consolazione di Dante, quella stessa filosofia che il Convivio aveva presentato come nutrimento intellettuale destinato ai laici, trova ormai compimento nella morale o filosofia pratica, ossia in una riflessione sulla trasformazione degli uomini e della società, una riflessione che, nella Commedia, prende gli accenti di una interpellanza drammatica e narrativa» (Ruedi Imbach, Dante, la filosofia e i laici, Marietti 1820, 2003, p. 141).

    (5) Ne parla per esempio Umberto Eco in Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (Bompiani, Milano, 2003, p. 23), definendola un «argomento appassionante», anche se vuole distinguere le «versioni da romanzi a film o da quadri a musiche» dalle traduzioni vere e proprie.

    (6) Lettre du Pape Paul VI au Professeur Etienne Gilson, Vaticano, 8 agosto 1975 (www.vatican.va/holy_father/paul_vi/letters): «Votre regard de philosophe et d'historien s'est porté sur les sujets les plus divers, dès lors qu'ils touchaient la qualité de l'homme et de la civilisation: les lettres – comment ne pas évoquer ici vos études sur Dante? – l'art, le langage, la biologie, la culture de masse ont suscité chez vous réfléxion et publications.»

    (7) «Noi passavam su per l'ombre che adona / la greve pioggia, e ponavam le piante / sovra lor vanità che par persona» (Inferno, VI, vv. 34-36). Qui Dante e Virgilio stanno camminando addirittura sopra i golosi del terzo cerchio, perché i loro passi, o almeno quelli di Dante che è dotato di un corpo, attraversano la vanità, l'incorporeità che sembra corpo, di questi dannati.

    (8) Ha approfondito negli ultimi anni lo studio del Libro della Scala come possibile serbatoio di spunti, dettagli e suggestioni visive per la Commedia Maria Corti, che lo definisce un «caso suggestivo di modello analogico», perché appartiene a una cultura religiosa completamente diversa da quella dantesca e non può essere stato considerato dall'autore un vero e proprio modello (si veda per esempio il saggio Percorsi mentali di Dante nella "Commedia", in AA. VV., Guida alla "Commedia", Bompiani, Milano 1993, pp. 183-200; e il saggio Metafisica della luce come poesia, sesto capitolo di Percorsi dell'invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Einaudi, Torino, 1993, pp. 147-163). Il primo studioso a sollevare la questione delle possibili "fonti" arabe della Commedia fu comunque l'arabista spagnolo Miguel Asìn Palacios; si veda La escatologìa musulmana en la "Divina Comedia" (seguida de la Historia y Crìtica de una polemica), "Instituto Hispano Arabe de cultura", Madrid 1961, terza edizione.

    (9) Dante parla per bocca del poeta latino Stazio, ai vv. 34-75 del canto XXV del Purgatorio, della formazione degli esseri umani, appunto per arrivare alla spiegazione di come si formi un'ombra dell'aldilà. E fa riferimento alle "tre anime" del genere umano, vegetativa, sensitiva e razionale, che è nozione ampiamente approfondita da Tommaso d'Aquino. Le prime due anime, proprie rispettivamente dei vegetali e degli animali, terminato il processo di formazione del nuovo essere umano ancora nel ventre materno, si fondono nella terza, propria esclusivamente dell'umanità, e abdicano alle loro funzioni. L'unità dell'anima così non è messa in discussione.

    (10) In particolare, nella Commedia si trovano tracce di una dottrina neoplatonica fondamentale, l'emanantismo: «studiando il rapporto tra l'Unità e il Molteplice, si concepisce l'Uno quale principio trascendente che, come la luce, si espande, digradandosi nel molteplice» (Anna Longoni, La ricerca di Dante tra sapienza umana e rivelazione divina, in AA. VV., Guida alla "Commedia",cit., pp. 129-153, p.141). Longoni ipotizza che la conoscenza dantesca di tale dottrina possa essere stata mediata dai commentatori del testo neoplatonico fondamentale, il Liber de causisdell'autore ebreo Ibn Daoud, perché Alberto Magno per esempio ne accoglie la tesi che Dio Causa Prima crei direttamente solo cieli e intelligenze angeliche, demandando a loro, Cause Seconde, la creazione del resto dell'universo.

    (11) Sull'affascinante ipotesi, peraltro avallata dai primi commentatori medievali tra cui Boccaccio, di un soggiorno di Dante a Parigi, si veda Jacqueline Risset, Dante. Una vita, Rizzoli, Milano, 1995, pp. 149-155. L'autrice sembra proprio aver letto in francese questi saggi di Gilson, che infatti cita in bibliografia, specialmente quando parla in questi termini del rapporto di Dante con Beatrice: «L'aver iniziato la propria vita con l'apparizione della piccola Beatrice non lo confina tra amori e riflessioni sentimentali, liriche, o religiose… Anzi. Ciò che quell'apparizione gli comunica, ciò che gli fa percepire all'improvviso, fisicamente, oltre la grazia di quella fanciulla, è la bellezza dell'universo, è il rapporto immediato, indissolubile, tra l'universo e la sua vita. Beatrice è non un segno tra i segni, ma il segno dei segni che l'universo offre» (pp. 82-83).

    (12) «E' Dante l'uomo nel quale la bellezza del vero fa scaturire il canto. […] Non è una specie di miracolo far scaturire poesia dalla fisica di Aristotele? E' come far uscire acqua da una roccia», Poesia e teologia nella "Divina Commedia", p. 5.

    (13) Si veda Dalla "Vita Nuova" alla "Divina Commedia", p. 3.

    (14) Per citarne alcuni tra i più interessanti, in cui gli autori si sono cimentati coraggiosamente nella "costruzione" di Dante come protagonista: Enzo Fontana, Tra la perduta gente, Mondadori, Milano, 1996; qui Dante è raccontato nella parte finale della sua vita, a Ravenna, immerso in controversie politiche e tormentato da rimpianti e rimorsi, ma sempre votato al ricordo di Beatrice. Fabio De Propris, Se mi chiami Amore, Fazi, Roma, 2001, dove l'amore "assoluto" per Beatrice di un Dante giovane e passionale è riproposto in chiave contemporanea, parallelo al colpo di fulmine di un camionista. E il recentissimo I delitti del mosaico di Giulio Leoni, Mondadori, Milano, 2004, in cui la personalità di un Dante priore e investigatore nel 1300 è dipinta nei suoi aspetti più aggressivi e collerici.

    (15) Dalla "Vita Nuova" alla "Divina Commedia", p. 8.

    Prefazione di Bianca Garavelli al volume di Ètienne Gilson Dante e Beatrice, (Edizioni Medusa Milano - 2004)

     


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