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    Dostoevskij

    La tragedia di

    un uomo sublime

    Pietro Citati

    dostoev
    Fëdor Dostoevskij e Anna, la seconda moglie ventenne, lasciarono Pietroburgo il 26 aprile 1867. Fuggivano i creditori, che minacciavano di gettare in carcere Dostoevskij; e la famiglia di lui, che non aveva tollerato il matrimonio, e voleva tutto per sé lo scrittore, i suoi libri e il suo danaro. Pensavano di restare qualche mese nell'odiosissima e amata Europa. Ritornarono soltanto dopo più di quattro anni, laceri, sfiniti, carichi come prima di debiti, con tre nuovi libri, l'ultimo dei quali incompiuto, una figlia, e un figlio che sarebbe nato sette giorni dopo il ritorno.
    Su questo periodo, abbiamo due documenti principali. In primo luogo, le lettere di Dostoevskij: queste lettere tortuose, gonfie, interminabili, dove egli prima negava poi affermava, prima affermava poi negava, ritornava, aggiungeva, come un'onda che non poteva esaurirsi ma solo sfinirsi in sé stessa. L'altro documento sono i tre grossi quaderni - quasi seicento fitte pagine a stampa - che nel corso del 1867 la moglie scrisse con minuti caratteri di stenografa. Dostoevskij parlava, scriveva, taceva, si infuriava, ascoltava musica, girava per Dresda e Ginevra; e lei - infantile e ostinata - registrava ogni cosa sul suo quaderno. Temeva che lui non l'amasse o fosse incapace di amare: avrebbe voluto possederlo completamente, sapere il suo passato, entrare nella sua mente, conoscere i pensieri, capire quell'intollerabile mistero che egli portava in sé; e perciò annotava tutti i gesti e le parole, per paura che il mistero- le sfuggisse. La mole di notizie; che essa raccolse, è immensa, meticolosa e commovente. Non ho mai letto un diario così pieno di amore e di adorazione: un diario che non insegue il segreto di chi scrive, ma il segreto di un altro. Eppure, quel segreto sfuggì sempre ad Anna Snitkina. Dostoevskij rimase lontano e irraggiungibile, come Stavrogin nei Demoni.
    A Dresda, dove i Dostoevskij arrivarono il primo maggio, la loro vita era immersa nella musica. Ascoltavano sempre musica: nel Grande Giardino, sulla terrazza e a teatro; Mozart, Beethoven, Rossini, Mendelssohn, Strauss, Wagner, Il flauto magico, Il trovatore, Lucia di Lammermoor - opere, operette, sinfonie, sonate. Talora canticchiavano insieme ai cantanti, dividendosi le parole del testo: «Fed'ka, mio caro, perdonami» - e lui rispondeva: «No, no, no, per nulla al mondo». Come era lieta, quando il marito era lieto, e parlava di loro come di Mr. e Mrs. Micawber! Sul suo quaderno Anna annotava tutto: le visite alla biblioteca, dove Dostoevskij prendeva a prestito sempre nuovi romanzi di Dickens: le visite al Museo, dove egli attraversava velocissima-mente le sale, per fermarsi davanti ai quadri più amati, la Madonna Sistina di Raffaello e l'Aci e Galatea di Claude Lorrain: l'acquisto, per lei, di un cappello di paglia, per lui di un cappello di feltro marrone, che lo rese vanitosissimo: il tiro a segno, dove Dostoevskij aveva una mira quasi infallibile; e i suoi frequenti momenti di umor nero - i litigi, le grida, i cupi mutismi, gli attacchi aggressivi, le labbra strette, le sopracciglia aggrottate.
    Qualche volta, a si sentiva tristissima: lì, sola con un vecchio signore, senza la madre e senza amici; e poi diventava felice, felicissima, quando s'accorgeva che il marito si innamorava a poco a poco del suo amore per lui. Allora, era disposta a sopportare qualsiasi cosa da parte di quell'uomo incomprensibile. Come amava i loro discorsi notturni. Andava a letto presto, mentre Dostoevskij mai prima delle tre del mattino. Lui la svegliava, per «augurarmi buona notte: sono allora delle lunghe conversazioni, parole tenere, risate, baci, e questa mezz'ora o quest' ora è il momento più ispirato e felice della giornata». «Siamo terribilmente felici». Poi Dostoevskij si addormentava, sprofondando nei suoi incubi: mentre per qualche ora lei non riusciva a prendere sonno, e fantasticava attorno alla strana sorte che l'aveva portata così lontana da casa, insieme a un marito così tenero e misterioso.

    * * *

    Quella piccola felicità domestica non durò a lungo. Poco tempo dopo I arrivo a Dresda, Dostoevskij fu ripreso dal desiderio del gioco, che lo torturava da qualche anno.
    Quante notti aveva sognato la roulette, la voce dei croupiers, i volti pallidi o estasiati dei giocatori, i calcoli con cui preparare la propria rovina! Finalmente il 17 maggio giunse a Homburg, dopo un lungo viaggio che lo aveva portato a Lipsia e a Francoforte. Quando scrisse allo moglie, le spiegò che nel gioco «si può guadagnare tutto quello che si vuole, e questo senza alcun dubbio possibile». Bisognava avere una mente come di marmo, inumanamente fredda e attenta: controllare perfettamente la propria volontà, conservare una prudenza sovrumana, e non esitare mai. Allora si può sconfiggere il caso bruto che si annida nel mondo. Erano gli stessi pensieri di Raskol'nikov che prepara il proprio delitto, come se l'ultimo dei suoi personaggi dominasse ancora la sua mente.
    Molti altri desideri lo soggiogavano: quello di liberarsi dalla monotonia della vita quotidiana, di conoscere sensazioni sempre più intense e febbrili, di provare una specie di vertigine erotica, di andare fino all'ultimo limite, precipitandosi nell'abisso; e, insieme, di conoscere la sconfitta assoluta di fronte al caso, l'umiliazione e la degradazione. Forse, la roulette era la sola immagine possibile di quel grandioso gioco d'azzardo che era per lui la letteratura. E l'alternarsi del rosso e del nero, il passare veloce dei numeri sotto lo sguardo gli rivelava la sconosciuta macchina del mondo, di cui Ippolit parla nell'Idiota.
    Appena arrivato a Homburg, raggiunse il Casinò. Ecco la tremenda beatitudine. Con che palpito, con che sospensione di cuore ascoltò il grido del croupier: trente et un, rouge, impair et passe; oppure quatre, noir, pair et manque. Con che avidità guardava la tavola da gioco, sulla quale erano sparse le monete, le colonne d' oro, quando dalla paletta del croupier sì sparpagliavano in mucchi ardenti come brace, o le colonne d' argento attorno alla ruota. Avrebbe dovuto dimostrare a sé stesso il proprio sovrumano dominio sul caso. In realtà, gli succedeva sempre il contrario. Appena cominciava a vincere, non sapeva dominarsi, perdeva la ragione, i nervi eccitati si tendevano e si spezzavano, il cuore mancava, le mani e i piedi tremavano e si ghiacciavano. Aveva il viso rosso: gli occhi venati di sangue come se fosse ubriaco: non aveva tempo di riprendersi; e perdeva tutto. Anche questa volta successe così. Rimase senza un soldo: solo due Gülden per il tabacco Impegnò l'orologio. Chiese per lettera alla moglie venti napoleoni d'oro, per pagare l'albergo e tornare a casa.
    Appena i napoleoni arrivarono, giocò anche quelli, e perse di nuovo. «Anja, mia cara, amica mia, perdonami, non trattarmi da canaglia! Ho commesso un delitto, ho perso tutto quello che m'hai mandato, tutto, fino all'ultimo Kreuzer. Anja, come mi guarderai ora, come mi qualificherai?». E chiese ancora dieci napoleoni d'oro. Intanto lei era rimasta sola, a Dresda. Quando Dostoevskij partì, pianse. Aveva paura della casa vuota. Non sapeva cosa fare per passare il tempo. Andò al Museo, guardò i soldati fare gli esercizi, camminò senza fine per la città, fece un piccolo viaggio sull'Elba, raggiunse in diligenza un castello vicino, riprese il battello sino a Pillnitz, senti Il Trovatore. Tornava sempre inutilmente alla stazione. Lui non arrivava mai. Singhiozzò disperatamente per la strada: finché il 27 maggio, dodici giorni dopo la partenza, Io vide camminare sfinito lungo i binari. L'orologio era rimasto nelle mani dell'usuraio di Homburg.
    Anna aveva appena conosciuto le prime bolge dell'inferno del gioco. Presto Dostoevskij non si accontentò più di una veloce incursione: voleva abitare a lungo dentro una vera città del gioco, dove costruire per sempre, calcolando sulla forza disumana della mente, la sua fortuna. Il 4 luglio partirono per B ad en. Ci rimasero cinquanta giorni. Noi contempliamo la figura da ossesso di Dostoevskij attraverso gli occhi precisi, amorosi e terrorizzati della moglie. Per cinquanta giorni Dostoevskij non fece altro che giocare: il mattino, il giorno e la sera, fino a quando la voce del croupier annunciava: «Les trois derniers coups, messieurs»: non scrisse quasi nulla, passeggiò poco, ascoltò poca musica; e leggeva anche i giornali russi dentro le mura del Casinò. Perse subito, e poi perse ancora, e perse di nuovo. Accusava della sfortuna un inglese troppo profumato, che stava seduto accanto a lui, un polacco, o la moglie, o una signora russa che chiacchierava. Presto non restarono che 20 monete d'oro, poi 18, 15, 12, 7, 5, 2... All'improvviso prese a vincere: più di tremila franchi; e come un felice genio dell'abbondanza, comprò un cesto di albicocche, ciliegie, ribes, prugne, susine, regine claudie, uva, arance, limoni, mirtilli, caviale e mostarda francese, nascosti tra i fiori. Lei, a poco a poco, si lasciava corrompere: diventò la moglie di un giocatore, e partecipava alle vicissitudini, felice se il marito porta:a:casa del- le ardenti monete d'oro, stoica se perdeva.
    La fortuna durò pochi giorni. Dostoevskij riprese a perdere. A casa non c'era più niente: né the, né zucchero, né soldi per pagare i pranzi e l'affitto; e intanto i martelli del fabbro, a pianterreno, battevano implacabilmente nelle orecchie, e i bambini del vicinato urlavano a squarciagola. Dostoevskij andò a impegnare le fedi, gli orecchini e la spilla della moglie: una mantiglia di «vero merletto Chantilly», che era per Anna l'incarnazione dell'eleganza, la pelliccia, un cappotto invernale, una vecchia redingote, le scarpe, i vestiti... Chiese soldi a Gončarov, e alla madre di lei. Anna pianse. «Erano veri singhiozzi, avevo male, terribilmente, nel petto, e questo dolore non fu nemmeno addolcito dalle lacrime. Invidiavo tutti gli altri, trovavo tutti felici, mi sembrava che noi soli fossimo così infelici...». Andò a letto: poi pensò che era infinitamente felice di averlo sposato e «doveva pagare il suo debito per una simile felicità». A volte Dostoevskij scherzava. Immaginava che sarebbero rimasti almeno cinque anni a Baden, perduti nel gioco, e poi sarebbero divenuti dei vecchietti, magri come i tedeschi, e che nessuno li avrebbe riconosciuti al loro ritorno in Russia. Ma di solito era affranto: «ha detto che finirà per diventare pazzo, o per tirarsi una pallottola in testa». Alla fine, il cerchio dell'ossessione si spezzò. Il 23 agosto partirono per Basilea: ma Dostoevskij giocò fino all'ultima mattina, un'ora prima della partenza del treno. Gli orecchini e la spilla di Anna rimasero a Baden.

    * * *

    A Basilea li chiamò un quadro. Qualcuno aveva parlato a Dostoevskij del Cristo al sepolcro di Hans Holbein il giovane, conservato al museo di Basilea. Quando entrarono nel museo, Dostoevskij si sedette davanti al quadro, e vi rimase a lungo a contemplarlo. «Il viso di Cristo -scrisse nell'Idiota, attraverso le parole di Ippolìt - era atrocemente sfigurato dai colpi, tumefatto, con tremendi lividi sanguinolenti e gonfi, occhi dilatati, pupille storte; il bianco degli occhi, ampio e scoperto, brillava di un riflesso vitreo, cadaverico». Ignoriamo ciò che accadde nella piccola sala: forse Dostoevskij si spaventò davanti a quel Cristo irreparabilmente morto, e la moglie scoprì nei suoi occhi la stessa espressione che aveva già osservato prima di una crisi epilettica.
    In quel momento Dostoevskij conobbe una tentazione: la più grande e angosciosa della sua vita, che ritorna più volte nei suoi libri di quegli anni. Forse Cristo non era risorto. San Paolo aveva detto: «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana anche la nostra predicazione, e vana pure la vostra fede». Se Cristo era soltanto quel cadavere livido, col bianco degli occhi scoperti in un riflesso vitreo, quel cadavere che mai sarebbe tornato in cielo, tutto quello che aveva sperato e sognato, opponendolo dentro di sé alla forza della negazione, era inutile. La storia del mondo, e la sua stessa vita e i suoi libri, erano un fallimento. C'era solo la natura. Ma, se Cristo non risorse, la natura era una grande bestia: un enorme scorpione, oppure un grande ragno, o una tarantola ripugnante. O, peggio ancora, una macchina di nuova costruzione, sorda e insensibile, che dominava tutta la storia, e «aveva afferrato, maciullato e inghiottito un Essere sublime e inestimabile». Lui conosceva quella macchina: l'aveva scorta al tavolo della roulette, e aveva cercato invano di dominarla. Conosceva quell'animale spaventoso; e l'avrebbe rappresentato nella ragnatela dei Demoni, e nel ragno che è Stavrogin. Non sappiamo quanto profonda fosse la tentazione, e con che forza disperata la vinse. Nella Prima Lettera ai Corinzi, poteva leggere: «Sì, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di tutti quelli che dormono. Infatti, come per mezzo di un uomo è venuta la morte, così per mezzo di un uomo vi è la risurrezione dei morti».
    A Ginevra, dove arrivarono due giorni dopo, l'epilessia assalì Dostoevskij con una violenza inusitata. Di solito, lo aggrediva nel sonno, verso il mattino, quando egli era più indifeso, o subito dopo che era andato a letto. Il viso si sconvolgeva: i denti stridevano, gli occhi guardavano storto: convulsioni e spasimi correvano per tutto il corpo; e poi c'era il grido - spaventoso, subumano, che a Dostoevskij sembrava giungere da qualcun altro acquattato dentro di lui. Quando la crisi era finita, per quattro, cinque o otto giorni aveva una dolorosa oppressione al petto, la testa confusa e nebbiosa, la memoria indebolita: emicrania, eccitazione dei nervi, tristezza ipocondriaca; mentre una sfumatura color - rosso-sangue avvolgeva le cose, come se fosse già giunta l'Apocalisse. Provava un acutissimo senso di colpa: temeva di-morire e supplicava la moglie di non lasciarlo solo, sperando che la presenza di lei allontanasse la morte; o gli sembrava di avere perduto la persona più cara. Non si faceva illusioni. Sapeva che la sua malattia affondava nella tenebra. Anche lui aveva qualcosa di Smerdiakov. E aveva letto nei Vangeli, che considerava molto più di qualsiasi manuale di psichiatria, che l'epilessia era una possessione dei demoni.
    Dell'altro aspetto dell'epilessia - il momento di euforica eccitazione prima delle crisi -Dostoevskij non parlò mai a nessuno, o forse soltanto a due ragazze di Pietroburgo. Non ne lasciò traccia nei suoi appunti: ma attribuì quel momento al principe My'gkin e a Kirillov, che conosce l'estasi epilettica senza essere epilettico. Con tutte le forze della propria immaginazione filosofica, Dostoevskij trasformò quell'istante impercettibile di luce nel momento supremo dei suoi libri: un mito doppio, tenebroso e luminoso, come i suoi miti più profondi; un attimo di rivelazione metafisica e mistica, così alto e inattingibile, che nessuna altra forza poteva raggiungerlo. Allora (diceva il principe Myškin) le sue sensazioni erano più acute ed intense; ed egli avvertiva le sensazioni e i pensieri con una «autoappercezione e un'autocoscienza in sommo grado immediate». Era tutto sé stesso, ed era doppio. Quale felicità ricca e dolce, quale gioia e speranza, quale luce straordinaria gli illuminavano lo spirito: un accordo col mondo, una «trepidante, estatica fusione colla sintesi della vita». Era una condizione superiore a qualsiasi amore: per pochi istanti, balzava oltre il tempo, che lo aveva sempre schiacciato, e conosceva l'«armonia eterna». Muovendo di lì, poteva tentare qualsiasi specu--, lazione esoterica: che la storia cessasse, che la fine dell'urnanità venisse raggiunta, che gli uomini, come dicevano Matteo e Luca, vivessero in terra senza generare, simili a angeli di Dio nel cielo.
    Due anni più tardi, ai primi di agosto del 1869, dopo un lungo soggiorno a Ginevra, Milano e Firenze, i Dostoevskij erano di nuovo a Dresda, dove lui venne iscritto nei registri di polizia come «un tenente russo in ritiro e rentier» - amara ironia per un «forzato della penna». La seconda gravidanza di Anna era difficile. Stava chiusa in casa, e pensava che sarebbe morta di parto. Il 26 settembre nacque Ljuba, sana e robusta. Quando la prima figlia, Sonia, era morta, Dostoevskij aveva scritto che non avrebbe mai potuto dimenticarla: voleva soltanto Sonia, nient'altro che lei: non voleva nessun'altra figlia; ma ora si innamorò di quella bambina tranquilla, che gli assomigliava «fino al ridicolo», rideva quando le cantavano una canzone, e presto cominciò a capire benissimo e voleva parlare ad ogni costo. A volte la trovava nervosa: temeva di averla infettata con la sua nevrastenia. Ma era felice. «Perché non avete bambini, scriveva. Vi giuro che sono i tre quarti della felicità terrestre, tutto il resto non è più di un quarto».
    Come sempre, non avevano soldi; e dovettero rinviare il battesimo della bambina. In casa non c'era più cibo. Non avevano pagato né la levatrice né il padrone di casa. La drogheria non concedeva più credito. La rivista Aurora ritardava un pagamento; e lui tornava ogni giorno alla banca, umiliandosi e diventando «oggetto di scherno». «Crede che faccia dello stile -diceva con disperato furore riferendosi all'amministratore di Aurora - descrivendogli la mia miseria? Come posso scrivere, se ho fame, se, per trovare due talleri, ho impegnato i miei pantaloni? Tanto peggio, al diavolo me e la mia fame! Ma lei, lei che allatta, impegnerà lei stessa la sua ultima gonna di lana calda? Ecco il secondo giorno che qui nevica (non mento, guardate i giornali!) e può prendere freddo! Lui non può comprendere la vergogna di spiegargli questo?... E si esige da me dell'arte, della poesia pura, dove non si senta né lo sforzo né la tensione, e mi danno come esempio Turgenev e Gončarov! Guardate in che condizioni lavoro!». Vedeva dovunque segni di ostilità e di disprezzo: scorgeva complotti; vedeva la morte e temeva che non sarebbe mai riuscito a scrivere tutto quello che portava nella mente.
    Non poteva più sopportare l'esilio. Lì, a Dresda, si sentiva come su un'isola deserta. Non c'erano pensieri russi, né preoccupazioni russe, e quasi nessun libro russo, e pochi volti russi. Qualsiasi lettera giungesse da Pietroburgo o da Mosca, provocava in lui un'emozione profonda, che si prolungava per molti giorni. «Quanto desidero la Russia - ripeteva da anni - : che nostalgia provo della patria, a che punto mi sento spaventosamente infelice! Leggo i giornali fino all'ultimo segno tipografico». E poi: «Penso alla Russia e me ne ricordo tutti i giorni fino ad esserne ubriaco, tanto ho voglia di ritornarci, costi quello che costi». Mentre scriveva I Demoni, aveva l'impressione che la società russa gli sfuggisse: per quanto leggesse i giornali, gli sembrava di essere tagliato via dalla «corrente della vita viva»; aveva bisogno di tornare a guardare - luoghi, volti, situazioni - e soprattutto di ascoltare le voci, quelle inconfondibili voci, che echeggiavano nel suo sonno: Diceva che non sapeva nemmeno più scrivere bene. Eppure mai come lì, in quell'isola deserta, con il cannocchiale che aveva suggerito a Turgenev, riuscì a rappresentare con mirabile intuizione ciò che avveniva o stava per avvenire in patria. In quei quattro anni, l'Europa era diventata per lui un incubo: provava una «ripugnanza fisica, che andava sino all'odio». Forse non vedeva più nulla. Tingeva tutto con i colori tenebrosissimi, che traeva dalla sua anima. L'Europa era un delirio: l'inferno del gioco di Baden, l'atroce grigiore di Ginevra, la morte di Sonia, il mercato di Firenze che, come una fornace, ardeva il carcere della sua piccola stanza, dove strisciavano le tarantole.
    Alla fine dell'aprile 1871, partì per Wiesbaden, assalito ancora una volta dalla furia del gioco. Ave con sé centoventi talleri, rubati alla loro miseria. Li perse. Chiese con un telegramma alla moglie altri trenta talleri. La notte prima aveva sognato il padre. «Aveva lo stesso terribile aspetto sotto il quale mi era apparso per due volte nella mia vita, profetizzando una spaventosa sventura, ed entrambe le volte il sogno si è realizzato». Due notti prima aveva sognato la moglie con i capelli bianchi. Pieno di terrore, decise di non giocare. Poi non riuscì a resistere alla tentazione: entrò nel Casinò, in piedi davanti a una roulette, e cominciò a puntare con la mente. Guadagnò una decina di volte. Prese a giocare, e guadagnò diciotto talleri: pensava di regalare un paio d'orecchini alla moglie, per sostituire quelli che aveva lasciato dall'usuraio di Baden. Alle ventuno e trenta, aveva perduto tutto. Era sconvolto. Nella notte, attraverso strade sconosciute, corse dal sacerdote russo. «Non è un pastore del Signore? si diceva. Non gli parlerò come a uno qualsiasi, ma a un confessore». Si perse nella città. Quando arrivò alla chiesa, che aveva creduto ortodossa, si accorse che era una sinagoga. Ritornò in albergo, e cominciò a scrivere una lunga lettera alla moglie.
    Scrivendo questa lettera - febbrile, disperata, infuocata -, ebbe una rivelazione. Con un solo sguardo, contemplò la sua vita: quegli otto anni, da quando aveva cominciato a giocare proprio a Wiesbaden; e si accorse che per tutto quel tempo era stato preda di una spaventosa ossessione, di una «orribile fantasia». Stava scrivendo sui «demoni», che avevano occupato le menti dei giovani russi; e anche lui aveva conosciuto una possessione simile. Anche lui era vissuto tra i fantasmi: perseguitato dai fantasmi. Non sognava che gioco, roulette, rosso e nero, pari, dispari, vittoria e degradazione, come i nichilisti sognavano distruzione. Almeno una metà di lui era indemoniata. Ora, di colpo, dopo quei sogni, la sconfitta e le fughe nella notte e la visione della sinagoga, si sentiva completamene-te liberato dai fantasmi. «Ora è finita. È veramente l'ultima volta! Credimi, Anja, ho le mani slegate». I suoi demoni erano usciti da lui, come dall'indemoniato dei Vangeli; erano entrati nel gregge dei porci, gettandosi nel lago e affogando. Era libero, poteva lasciare l'esilio, «la maledetta terra straniera e i suoi fantasmi», e tornare in patria. Non entrò mai più in una casa da gioco.
    Leggeva tre giornali russi ogni giorno: fino all'ultima riga, frugando tra le notizie politiche, la cronaca nera e i resoconti giudiziari, cosa poteva evocare la patria lontana. Aveva una vera passione per i giornali, perché la sua «seconda vista» gli faceva scorgere tra avvenimenti in apparenza banali il senso stesso della realtà. «Tutta la realtà, diceva, ce la facciamo passare sotto il naso. Chi, finalmente, noterà i fatti, e si sprofonderà dentro di loro?». Nel maggio e nel dicembre 1869, e nell'anno successivo, lesse specialmente sulla Gazzetta di Mosca degli articoli su una cellula terroristica, che Sergej Nečaev, un allievo di Bakunin, aveva organizzato tra gli studenti di Mosca. Nečaev aveva scritto delle parole che il tempo avrebbe fatto diventare sinistramente famose: «Il rivoluzionario non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, Non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe ed esclude ogni altro, un unico pensiero, un'unica passione - la rivoluzione... conosce un'unica scienza: la scienza della distruzione». Il 21 novembre 1869 il gruppo di Nečaev uccise, nel parco dell'Accademia di agricoltura di Mosca, uno studente che voleva abbandonare la società segreta. Dostoevskij aveva il dono di leggere attraverso i giornali: bastava il resoconto di un processo, perché la sua terribile fantasia oggettiva scorgesse da lontano, attraverso i fogli di carta, il viso del criminale, i suoi sentimenti, i suoi gesti, le sue parole, la sua condizione. Anche questa volta fu così. Quando lesse la notizia del delitto, vide Nečaev: lo comprese come solo oggi gli storici lo comprendono; e lo trasformò in Pëtr Stepànoviv Verchovenskij, il suo alter ego nei Demoni.
    Cominciò I Demoni nel dicembre 1869 - nell'abisso della miseria. Scriveva la notte, dalle dieci alle cinque di mattina: aveva torpori, flussi di sangue alla testa: temeva un improvviso assalto epilettico; eppure poteva scrivere solo di notte, perché solo la notte gli portava il silenzio e la tenebra di cui aveva bisogno. Modulava a voce alta i dialoghi dei personaggi: in margine ai manoscritti, disegnava visi inquietanti di vecchi o ogive gotiche; poi si alzava, percorreva la stanza, beveva un bicchiere di the, accendeva alla fiamma della candela una sigaretta arrotolata con le sue dita. Scrivere era, per lui, come giocare alla roulette, rischiando tutto se stesso. Su quella ruota vertiginosa, tentava moltissime combinazioni romanzesche, ognuna opposta all'altra: dava sempre nuovi volti al medesimo personaggio; modellava decine di intrecci che non avevano nulla in comune tra loro. Cercava di sfondare le porte ancora sigillate del suo libro, penetrandó il mistero che respingeva i suoi sforzi. Strappava gli schemi, i piani, i progetti, gli abbozzi, e li rifaceva decine di volte. Da principio, pensò di comporre un'opera tendenziosa: ma era troppo grande e onesto per scrivere un pamphlet. Così, nella primavera e specialmente a partire dall'agosto 1870, modificò completamente il suo piano, trasformando Stavrogin nel «vero eroe» del romanzo.
    Come tutti i grandi artisti, diffidava della propria arte. Temeva che la fretta, a cui era costretto dagli editori e dal bisogno, lo costringesse a rovinare le idee che gli infiammavano l'immaginazione. Avrebbe voluto il tempo e la quiete, che la sorte aveva regalato a Turgenev e a Tolstoj. Temeva di aver scelto un'idea al di sopra delle sue forze. «Non so padroneggiare completamente i miei mezzi (non ho saputo impararlo)». Temeva le lunghezze inutili: le incongruenze; e la tendenza a fondere più romanzi e racconti in uno solo, «in modo che non c'è misura né armonia». Quale meravigliosa onestà! Non sapeva che perfino l'ansia, la fretta, con cui scriveva nelle notti piene di visioni, aggiungevano alla bellezza dei suoi libri.

    * * *

    Non credo che Dostoevskij abbia mai scritto un romanzo bello come I Demoni: Delitto e castigo e I fratelli Karamazov non raggiungono la sua perfezione; e non so quale altre romanzo dell'Ottocento porgli vicino - nemmeno Anna Karenina, che Dostoevskij amava tanto. La sovrana e vertiginosa architettura: l'intreccio romanzesco, che Dickens avrebbe invidiato: la leggiadra eleganza dell'inizio, e poi il furibondo diapason drammatico e grottesco, quella accelerazione progressiva del racconto, quella spirale ascendente, di cui parla Jacques Catteau, e infine la nuda tragedia senza commento: il rapporto tra i personaggi: i sublimi dialoghi filosofici, che in Europa hanno un solo precedente, quelli di Platone: la densità, a volte quasi impenetrabile, delle allusioni interne: il gioco dei punti di vista, più raffinato di quello di James: l'orchestrazione delle voci dei personaggi, di cui conosciamo il suono, il peso e il colore - non c'è aspetto dei Demoni che non incarni l'immagine della perfezione.
    Quando Dostoevskij mutò il progetto dei Demoni, una luce lo illuminò all'improvviso. Comprese che, per rappresentare l'immensa vastità del Male, avrebbe dovuto cominciare da molto lontano, e avvicinarsi con un passo lieve, frivolo e quasi lieto. Così, nella prima parte, passeggiò amabilmente sulla superficie iridata dell'esistenza, ostentò futilità, ironie tenere e scintillanti, come se fosse diventato un altro scrittore. Nelle sue notti di incubi, lui, l'uomo delle profondità, inscenò la più deliziosa delle pochade; e si divertì talmente che scrisse: «Non ho lavorato mai con tale godimento e con tale leggerezza». Rinunciò al suo sguardo di narratore: con il suo dono di ventriloquo, diventò un cronista provinciale, di cui non sappiamo il cognome, un modesto funzionario, uomo limitato, difensore dell'ordine costituito; e gli attribuì il proprio fraseggio narrativo, dietro il quale avvertiamo uno spirito.abissale, che non coincide quasi mai con lo sguardo del cronista.
    L'eroe di questa prima parte dei Demoni è Stepàn Trofimovič Verchovenskij, uno scrittore della vecchia generazione: vano, ridicolo, egoista, infantile, sentimentale, eppure adorabile per candore e innocenza. Eccolo, nella divisa da genio romantico, che gli ha preparato la sua protettrice: un soprabito nero dalle falde lunghe, abbottonato fin quasi al collo: il cappello floscio dalle ali larghe: una cravatta bianca di batista, con un gran nodo dalle ciocche penzoloni: i cappelli lunghi: la biancheria di batista ricamata, quasi da ballo, dei guanti freschi color paglia, un bastone d' argento; una leggera nuvola di profumo lo avvolge. Strascica le parole, tirando su dolcemente la saliva: si comporta come un attore sulla scena, facendo mots d'esprit anche nelle situazioni più tragiche: come Don Chisciotte, ignora la realtà, sebbene a volte pronunci osservazioni acutissime; e intarsia il suo russo con parole del più vaporoso, convenzionale e divertente francese. Il cronista dei Demoni, il più intimo confidente di Stepàn Trofimovič, lo ama e lo odia, lo venera e lo disprezza: mentre, dietro le sue spalle, nascosto dietro il racconto, Dostoevskij lascia cadere il suo giudizio su lui e tutta la vecchia generazione, mescolato con la simpatia più affettuosa per la creatura uscitagli così felicemente dalla penna.
    Il cronista non sa mai esattamente quello che accade: una parte degli eventi gli sfugge; o non capisce quello che accade. Così si tesse una zona sempre più vasta di mistero e di suspense. Dietro la sua voce, ascoltiamo le voci di altri narratori, che spiano, origliano, sospettano, chiacchierano, fanno maldicenze, diffondono scandali, svelano parzialmente i segreti: o, più sovente, ne accumulano di maggiori. Ecco una lettera anonima, con un nuovo segreto; e poi un'altra. Questa trama di voci rende più inquietante una realtà già di per sé atroce: non c'è limite al sospetto; la rivolta nichilista non è altro, in primo luogo, che questa trama di voci che spiano e chiacchierano. Prima che accada qualsiasi attentato, siamo già irretiti nella «ragnatela di un enorme ragno», dalla quale non riusciamo più a districarci. Poi, all'improvviso, con un gesto di impazienza, Dostoevskij allontana dal libro il cronista; e, con i suoi occhi di grande veggente, scorge tutto quello che accade sulla terra. Sta nell'ombra della notte, presso lo stagno: vede i nichilisti contemplare il cadavere di Satov con una specie di stupore; poi ascolta uno di loro gridare, e un altro strillare senza tregua con voce farina, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata...

    * * *

    I Demoni non sono affatto un pamphlet, come da principio pensava Dostoevskij, e come pensano ancora i suoi avversari. Sono un grandioso libro di storia - scrive Joseph Frank. Dostoevskij aveva compreso che la società russa era minata. il caos politico, il disordine amministrativo, la leggerezza delle classi dirigenti corrodevano ogni cosa: le cloache della città stavano per spalancarsi; il fanatismo ossessionava le anime dei giovani più ingenui. Tutto era pronto a incendiarsi, come le tetre case dei borghi artigiani ed operai; e fra poco l'incoscienza e la volontà avrebbero acceso una fiammata, dove sarebbero bruciati insieme i giusti e gli ingiusti, gli innocenti e i colpevoli. In quel momento, per diffondere dovunque «l'appassionato, terrificante e spietato» spirito della distruzione, non c'era bisogno di un grande uomo politico come Robespierre. Bastava Nečaev: il suo Nečaev, che nei Demoni aveva assunto il nome di Pëtr Stepànovič Verchovenskij.
    Pëtr Verchovenskij è, in primo luogo, una voce. Appena lo incontriamo, col suo viso sottile e i passi frettolosi, ci sembra che abbia in bocca una «lingua di qualche forma speciale, una lingua straordinariamente lunga e sottile, terribilmente rossa e con una punta estremamente aguzza che si agita involontariamente senza interruzioni»: chiacchiera, chiacchiera, insidia, maligna, corrode, calunnia, mente, inganna, arruffa, ostenta, mistifica, salta di palo in frasca: insinua un inciso dentro un inciso, e poi spezzetta, spezzetta... Il suo vero padre è l'uomo del sottosuolo: i suoi eredi sono Bobòk e Beckett. Dostoevskij vedeva in lui un Mefistofele moderno: ora fanatico ora buffone da operetta. Ama fare il male, e disprezza il male. Ride malignamente, sorride velenosamente, ghigna malvagiamente. Non crede in nulla: nemmeno nella rivoluzione; deride ogni filosofia, ogni ideologia, ogni idea, sebbene sia una vittima della ragione. Così, con la sua lingua rossa e aguzza, sparge per qualche tempo nella piccola città di provincia l'odio, il sacrilegio, I empietà, la corruzione, la diffamazione, lo scandalo, la distruzione. La sua è l'incarnazione perfetta dello spirito demoniaco della parodia. Come dice Kirillov, la storia diventa tra le sue mani un vaudeville del diavolo.
    Non sottovalutiamo Pëtr Verchovenskij. Stravrogin lo disprezza: il narratore non lo capisce; ma Dostoevskij aveva compreso che soltanto un demone meschino poteva diventare, nei tempi moderni, il genio della distruzione e della degradazione. Verchovenskij intuisce che in uno stato moderno la rivoluzione è uno spettacolo di teatro; e che il vento derisorio delle parole, se viene guidato da un abile regista, è più forte degli Stati, degli eserciti, della burocrazia e delle chiese. Così, con l'aiuto di pochi compagni, diffonde i suoi incendi verbali. Alla fine viene sconfitto perché - potrebbe aggiungere uno storico - era nato un secolo troppo presto, in una società ancora contadina. Ma Dostoevskij contemplò affascinato il vaudeville del diavolo, che Verchovenskij mette in scena nella città di provincia. Lo rappresentò con stupenda oggettività: lui che era lo spirito stesso delle parodia, orchestrò la parodia della parodia, il vaudeville del vaudeville con un divertimento sinistro e elegantissimo.
    Tutti i personaggi, nell'Idiota e nei Demoni, leggono l'Apocalisse e parlano dell'Apocalisse: perfino i buffoni, i moribondi, i nichilisti e i briganti. Se l'Apocalisse è il libro scarlatto del male, - il rosso è il colore che domina I Demoni: la cravatta rossa di Stepàn Trofimovič, il nome di Karmazinov (cramoisi), il ragno rosso di Stavrogin, l'incendio nella notte, il sangue dei Lebjàdkin, la scatola rossa di fiammiferi di Kirillov, l'armadio sporco del suo sangue. E se l'Apocalisse, che investiga «le profondità di Satana», rappresenta la Trinità demoniaca - il Dragone rosso-fuoco, la Bestia scarlatta del mare, la Bestia della terra, - anche Dostoevskij, gareggiando con l'Apocalisse, volle raffigurare una Trinità del male: Stravrogin come creatore, Kirillov come Cristo, e Pëtr Verchovenskij come Mefistofele. Così il nichilismo politico russo diventa, tra le mani di Dostoevskij, l'irradiazione di un tema religioso molto più vasto. Siamo agli ultimi giorni della storia: stanno per giungere, o sono già giunti, i prodigi e i mostri; sulla terra soffia il vento di una drammatica imminenza, forse il tempo sta per fermarsi; e Dostoevskij compone la tragica e farsesca Apocalisse dei tempi moderni.
    Questo tema religioso culmina nella figura di Kirillov. Quando entriamo nella sua casa, insieme a Satov, a Stavrogin e a Verchovenskij, ci sembra un nodo di contraddizioni. Da un lato, nessuno è più nichilista di lui: con quegli occhi senza luce, con quelle parole scorrette, spezzate, a scatti, ingarbugliate, che rivelano una specie di rottura interiore, con quei gesti da automa, con la sua perenne veglia notturna. Nessuno, tra i nichilisti, è ossessionato, inghiottito dall'idea come lui. Ma, d'altro lato, per tanti aspetti ci ricorda il principe Mygkin: il candore, la letizia astratta, il carattere infantile, i giochi coi bambini, gli esercizi di ginnastica, il sogno di balzare oltre il tempo ci rammentano il doloroso principe-Cristo moderno. Tiene una lampada accesa davanti a un'immagine del Redentore; e, quando parla, le sue frasi violentano la nostra prosa per imitare il linguaggio dei Vangeli e dell'Apocalisse.
    Con i suoi occhi senza luce, la voce evangelica e i gesti da autonoma, Kirillov è un paradosso vivente. Ci chiediamo perché egli si uccida. Nelle sue febbrili discussioni notturne, sostiene che vuole affermare, di fronte a Dio, la libertà assoluta, sostituendo al tempo del Dio-uomo cristiano quello dell'uomo-Dio ateo. Avrebbe potuto cancellare completamente Dio dalla vita umana per mezzo della più totale indifferenza, come avevano fatto gli eredi dell'illuminismo. In realtà, Kirillov imita con la sua teologia rovesciata la teologia di san Paolo; e con la sua morte imita la morte di Cristo. San Paolo e Dostoevskij sapevano che l'incarnazione e la crocefissione (questo suicidio di Dio) erano stati un gesto divinamente assurdo, col quale Cristo aveva salvato l'uomo e capovolto la storia. Anche il suicidio di Kirillov è un gesto assurdo di immolazione, che deve salvare l'uomo e aprire una nuova epoca della storia. Quando egli si ucciderà, comincerà (pretende Kirillov) un'epoca identica al regno di Dio annunciato dai Vangeli. Il tempo si arresterà, l'eterno scenderà nella vita, tutto sarà chiaro e terribilmente luminoso, conosceremo l'armonia eterna,proveremo una gioia più alta dell'amore, nòn prenderemo moglie né marito, tutti i misteri saranno rivelati... Nel presentimento di questa meta, Kirillov prova una gelida ed estatica felicità, e benedice tutta la vita moltiplicata su questa terra.
    Sappiamo cosa rimanga di tante speranze. Rigido come un automa, Kirillov sta tra l'armadio e il muro della sua stanza: il volto è innaturalmente pallido, gli occhi immobili, fissi in un punto lontanissimo dello spazio: con una folle frenesia animalesca morde il dito mignolo di Pétr Verchovenskij : getta un grido pauroso, che assomiglia all'ultimo grido dell'epilettico prima della crisi; e si uccide con un colpo di rivoltella, spandendo il sangue e il cervello su pavimento. Cosa rimane del suo grande progetto di salvezza? Il mistero che doveva «palesarsi» resta oscuro, rinchiuso nella piccola casa di Filippov. Invece della libertà, dell'armonia e della rivelazione, c'è morte e orrore. Invece della trasformazione dell'uomo in angelo, c'è furia subumana. Il luminoso regno dell'uomo-Dio non si è realizzato. Siamo entrati nel regno della tarantola, dello scorpione, del ragno, della bestia che divora e maciulla, come ogni volta che l'uomo crede di diventare Dio.

    * * *

    Infine giunge Stavrogin. «Era elegante senza ricercatezza, mirabilmente modesto e nello stesso tempo ardito e sicuro di sé, come nessun altro tra noi, dice il cronista. Il suo viso mi colpì: i suoi capelli erano un po' troppo neri, i suoi occhi chiari un po' troppo quieti e sereni, il colore del viso un po' troppo delicato e bianco, il rossore un po' troppo vivo e puro, i denti come perle, le labbra di corallo...». Il mistero avvolge Stavrogin: sta chiuso nella sua stanza per giorni, avvolto nell'ombra, esce al crepuscolo e nelle ore della notte, inoltrandosi tra le case buie e luride dell'Oltrefiume. Tutti i tentativi degli altri per comprenderlo, servono soltanto ad accrescere il suo segreto. Appena entra in un salotto o in una stamberga, diffonde un fascino più insinuante di qualsiasi profumo. La voce melodiosa e carezzevole, il sorriso tenero e indulgente, i modi delicati, con i quali si rivolge alle donne e agli uomini, sembrano la rivelazione della grazia celeste sulla terra. Quale calma, quale dolcezza. Se vuole toccare un cuore, nessuno gli resiste. Tutti lo adorano, lo venerano, lo idolatrano con un immenso bisogno di dedizione, anche i suoi nemici. Ma sospettiamo subito che il suo incanto sia quello che diffondono le grandi ale nere, ancora bagnate di luce, degli angeli colpevoli.
    Dostoevskij non aveva mai tentato di creare un personaggio così vasto, rispetto al quale tutti i personaggi di romanzo sembrano delle creature limitate. Stavrogin è un mondo, un universo, un concentrato della letteratura universale. Ora è Amleto, ora il principe Harry, ora Don Giovanni, ora Faust, ora, più segretamente, Steerforth di Dickens; e fitte allusioni si intrecciano nella sua figura, che tende ad uscire continuamente da sé e a lasciare risonanze che non finiscono di allargarsi. Nelle profondità del proprio cuore, Dostoevskij era «andato a cercare» un grande eroe romantico, erede dei personaggi di Byron e di Puškin. Ecco lo spleen: la noia; la nostalgia dello straniero, che non è mai qui, . prigioniero del carcere della vita. Ecco la «selvaggia sfrenatezza»: l'amore della turpitudine: il desiderio di seduzione; la passione dell'abisso, dove si getta a capofitto. Il demone dell'ironia, che lo porta verso ogni gesto gratuito, come in un libro di Sterne. E infine la scissione della coscienza: egli condivide tutti i sentimenti opposti, il male e il bene, la luce e la tenebra; e porta accanto a sé, dentro di sé, un doppio, come un personaggio di Hoffmann.
    Sulle spalle di Stavrogin incombe la responsabilità più pez sante che possa gravare su un personaggio di romanzo. «Stavrogin», dice un appunto di Dostoevskij, «è Tutto». Egli è il centro dei Demoni: il «sole» verso cui guardano i personaggi; il punto al quale fanno capo Satov e Kirillov, Pëtr Verchovenkij, Lebjàdkin, Varvara Petrovna, Daša, Mar'ja Lebjàdkina, Liza, la moglie di Satov, che non sembrano possedere nessun'altra ragione di vita. Come Dio e il demiurgo, egli li ha creati dal nulla, proiettandoli fuori di sé con un gesto di noncuranza sovrana. Prima che il romanzo cominci, egli ha giocato alla roulette del pensiero, come amava giocare Dostoevskij : ha inventato delle concezioni del mondo, diverse e opposte tra loro: nello stesso momento, senza credere a nessuna, indifferente a ciascuna di loro. Le idee, che ora i personaggi ci espongono con voce rabbiosa e frenetica, sono state, una volta, le sue idee: le loro parole sono state le sue parole, che risuonano, alla lettera, sulle labbra di Satov, Kirillov e Pëtr Verchovenskij. Un emblema animale lo accompagna per tutto il romanzo. Egli è un ragno, piccolo o grande, rosso o nero: ha attirato tutti i personaggi nella sua grande ragnatela li guarda, li fissa, li insidia; e questa ragnatela è la stoffa dei Demoni.
    Quando il romanzo si apre, Stavrogin ha abbandonato le idee giovanili, che un tempo aveva infuso negli altri. Ora, non prova che indifferenza e ironia verso qualsiasi idea e concezione del mondo. Creare uomini è un gioco che ha smesso di divertirlo. Nulla lo attrae; e non sa a cosa applicare le energie immense che continuano ad agitarsi dentro di lui. Ci pare assorto, distratto, sovrapensiero: il suo sorriso è «stanco, freddo», e una specie di stanchezza e di sfinimento mortali accompagna i suoi gesti. Se una volta era il «Tutto», ora è «niente». Se una volta era un eroe romantico, ora è diventato un eroe del nostro tempo. Cosa lo occupa, senza quasi lasciarlo respirare è il vuoto: in lui soffia il vento di un vuoto gelido e vertiginoso, illimitato e senza confini, ubiquo e irraggiungibile. Non è più niente; e allora come potrebbe partecipare a qualcosa, condiviclere idee sentimenti e sensa- zioni, parlare, fare un gesto? Se crede; non crede di credere. Se non crede, non crede di non credere. Non può affermare nemmeno il nulla: allora, come scrive Sandro Modeo, si salverebbe. Dice: «da me non è uscita che la negazione»: ma corregge con perfetta verità: «anzi non è nemmeno uscita la negazione». Ciò che finisce di distruggerlo è il fatto che conosce la sua condizione con lucidità assoluta; e la ausculta e la registra come un termometro.
    Prima di apparire nel romanzo, Stavrogin era affascinato dal male: consumate tutte le esperienze, aspirava al Male Assoluto - l'esperienza insondabile, dalla quale non si ritorna. Viola una bambina: poi attende che si impicchi in uno sgabuzzino: durante questa attesa, che dura più di mezz'ora, pregusta la visione, e poi si alza in punta di piedi, e attraverso la fessura della porta contempla a lungo, a lungo, completamente assorbito e inghiottito da ciò che vede il piccolo corpo appeso... E una pagina terribile, che si legge con malessere e angoscia, tanto Dostoevskij varca ogni limite, e. ci sembra di abitare dentro il Male. Eppure, anche in questo momento, Stavrogin resta straniero. Anche il Male gli rimane estraneo: con la coscienza distaccata e divisa, osserva e ascolta le cose più indifferenti: il fragore di un carro, la canzone di un sarto, un ragno rosso sulla foglia di un geranio, il lento percorso della lancetta _dell'orologio, tutte cose indifferenti come quel piccolo corpò impiccato. Nemmeno il Male As- soluto lo ha liberato dal suo profondissimo vuoto. Forse per questo, non raggiunge la grandezza tragica del Satana di Milton. O, forse, per Dostoevskij non esistono i Grandi Malvagi: Stavrogin crede di essere uno di loro, ma è soltanto un piccolo demone abbietto; e nella sua anima si nasconde un «turpe sguattero da cucina», che accompagna come un'ombra scurrile i gesti del nobilissimo principe.
    Tutto precipita. Divorata dal senso di colpa e dall'ossessione, Stavrogin vorrebbe espiare, cercare la croce, punirsi o venire punito. Il suo orgoglio non gli permette né pentimento né espiazione. Egli è già morto. Lo comprendiamo una sera, penetrando inosservati nella sua stanza. Dorme seduto su un divano: rigido, immobile, quasi senza respiro, con le sopracciglia contratte e aggrottate, come se il gioco con la vita e gli uomini l'avesse completamente dissanguato. Al suo posto c'è una stanca e fredda spoglia di cera. Poiché Stavrogin è morto, i personaggi dei Demoni, nei quali egli ha insufflato il suo respiro, debbono morire attorno a lui, e per sua colpa. Ecco Lebjàdkin e la sorella sgozzati nella notte: Liza uccisa dalla folla: ecco il corpo di Satov gettato nell'acqua «con un tonfo sordo e lungo»: Kirillov urlare con gli occhi fissi, puntando la pistola con-coli cranio; la moglie di «Satov morire dopo tre giorni di delirio, insieme al figlio generato da Stavrogin. Così egli deve seguire il destino di coloro che lo hanno amato e imitato. Sale la scala che conduce nella-soffitta, «una scala di legno longa, molto stretta e terribilmente ripida»; e dietro la porta, quasi sotto il tetto, si impicca a un cordone di seta. Il suo suicidio non è un gesto di grandezza, come quello di Kirillov: o di espiazione, o di riscatto: rivela soltanto la debolezza, lo sfinimento e il dissanguamento mortali di una esistenza mancata.
    Malgrado il suicidio di Stavrogin, I Demoni si chiude con una specie di lieto fine: un incantevole lieto fine. Quante volte, librandosi dal regno atroce dello scorpione, della tarantola e del ragno, Dostoevskij aveva cercato di aprire nelle pagine del libro un balzo o uno scorcio utopico, come duello che aveva salvato Raskol'nikov alla fine di Delitto e castigo. Il doloroso mito terrestre e mariano di Mar'ja Lebjàdkina: Kirillov che sogna gli angeli; Stavrogin, che sogna l'età dell'oro. Ma tutte e tre queste fughe utopiche finiscono nel sangue, nella disperazione e nel trionfo del Ragno.
    La salvezza viene affidata a un personaggio inatteso: il più leggero e frivolo del romanzo. Come un decaduto e puerile Don Chisciotte, Stepàn Trofimovie lascia la casa, vestito come egli immagina debba essere vestito un viaggiatore. E vano e ridicolo come sempre: parla il suo bel francese vaporoso; e sino alla fine Dostoevskij si prende gioco di lui. Il racconto è un lieve, aereo, commovente allegretto, dove Dostoevskij fa un lontano omaggio a Guerra e Pace e a Platon Karataev. Quale grazia, quale ironia, quale dolcezza. Proprio sulle labbra di un personaggio così lontano da lui, Dostoevskij pone le parole più amate, annunciando la liberazione dai demoni che si sono impadroniti della Russia-un futuro ancora remoto, una pura speranza -, e un luogo di incontaminata perfezione. Eppure anche qui tutto, persino la morte di Stepàn Trofimoviò, odora della sua biancheria di batista ricamata e del suo profumo. Il romanzo finisce in minore: come era cominciato.

    * * *

    Quando abbiamo finito di leggere I Demoni, abbiamo l'impressione che la nostra esperienza non sia ancora compiuta: ci pare che non comprenderemo mai questo libro; e un lungo strascico di inquietudine ci avvolge nella sua rete. Dostoevskij abita in ogni luogo del romanzo, come un animale insidioso. Pochissimi scrittori condividono questa onnipresenza. Tutti i personaggi, anche i più infimi e abbietti, possono rivelare le idee e le intuizioni del loro creatore: anche un brigante, un buffone, un nichilista o un frivolo liberale. Come diceva uno dei suoi amici, egli si sdoppiava, diventando qualsiasi persona o cosa: eccolo , completamente diverso da sé,lì e noi Io guardiamo trasformato. Poi si allontanava, e faceva apparire le proprie idee più care in una luce grottesca e parodistica. Così, abbiamo sempre l'impressione che Dostoevskij non sia in nessun luogo, non si riveli in nessun episodio e in nessun personaggio. Egli è insieme onnipresente ed assente: abita dappertutto e chissà dove. Immagino che egli si sia riflesso in Stavrogin, che, come lui, ha estratto dal suo cuore tutti i personaggi dei Demoni, e non vive in nessuno di loro, simile a un dio assente. Dostoevskij si rispecchiatoin Stavrogin; e forse, scorgendo questo riflesso, ha avuto paura delle profondità inattingibili del proprio cuore.
    L'occhio di Dostoevskij ci inquieta, come inquietava la giovane moglie, quando stenografò Il giocatore. Egli guarda. Condivide le sensazioni e gli oggetti: sobriamente, rapidamente; e li porta ad un grado estremo di intensità allucinatoria, attirandoci in una specie di delirio. Ma, al tempo stesso, come è gelido quest'occhio: come è distante e immobile questa pupilla: lucida, estranea, senza rapporto con le cose, si insinua nel delirio e lo osserva, come Stavrogin quando segue il suicidio della bambina orologio alla mano, cronometrando la sua morte. Dostoevskij, il veggente, ha sempre un orologio nella mano. Era quella che egli chiamava la sua «visione riflessa». Così nascono i suoi oggetti allucinatorii: il coltello, il ragno rosso. Essi hanno qualcosa di gratuito: ci domandiamo perché Dostoevskij li abbia scelti; e poi ci accorgiamo che portano con sé una strana carica metafisica, come se gli occhi di altri mondi guardassero il nostro mondo.

    La Repubblica, 20 marzo 1996


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