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    «L'inferno a gran dispitto»

    Camus tra la rivolta di Capaneo e di Vanni Fucci

    Fabiano Bellina


     

    Alla luce della filosofia della rivolta e della rivoluzione, sviluppata da Albert Camus, possono risuonare in tutta la loro originalità i personaggi tratteggiati da Dante, quali simboli della presunzione e della sfida contro la divinità.

    La sfida a Dio

    È curioso notare come, all'interno della Commedia, per rappresentare gli atteggiamenti di sfida più espressivi nei confronti della divinità, Dante abbia scelto non i titani per eccellenza che la tradizione giudaico-cristiana poteva offrirgli, Giobbe e Lucifero, bensì degli uomini: Farinata, Capaneo, Vanni Fucci e Ulisse, sebbene non tutti poggino sullo stesso piano. Farinata e Ulisse condividono una nobiltà che gli altri due non possono vantare, e tuttavia è sull'eroe staziano e il ladro pistoiese che vorrei concentrare la mia attenzione. Certamente anche queste due figure infernali sono già state studiate ampiamente dalla critica, ma il quadro critico-filosofico nel quale vorrei inserirle è leggermente diverso rispetto alla contestualizzazione che dí solito si dà di loro. A mio parere, infatti, proprio attraverso questi due personaggi e la loro espressività, Dante raggiunge nella letteratura occidentale l'apice di un'antica concettualizzazione della hybris.
    Il poeta, sebbene con alcune differenze, rimane sostanzialmente all'interno di un atteggiamento di riprovazione nei confronti dei vizi dei dannati ribelli: la prepotenza, la violenza, l'ira, il furor e soprattutto la praesumptio nei confronti della divinità sono intese quali colpe dell'uomo oltrepassanti i limiti nei quali è posto; riprovazione che la cultura classica condivide nei confronti di quelle figure mitologiche, come i Titani e i Giganti, ma anche eroi (Diomede), che non seppero mantenere il senso della misura e del limite e osarono sfidare gli dèi. Tuttavia, la comunanza forse ancora più profonda tra i titani della classicità e i personaggi danteschi si situa nella previa consapevolezza dell'ineluttabilità del proprio fallimento: sanno di essere destinati alla sconfitta; sono consapevoli che non c'è speranza di vittoria e ciononostante si ribellano al divino, che sotto quest'ottica diviene Necessità. Il motivo della riprovazione – sia dantesca che degli antichi – è dovuto a due cause fondamentalmente legate: una di carattere filosofico-sapienziale, l'altra di ordine estetico. Dal punto di vista filosofico, è irrazionale far violenza alla divinità: è un peccato dell'intelletto umano ritenersi al di sopra di essa, in quanto si produce una confusione dei diversi piani dell'essere nei quali sono posti l'uomo e Dio (o gli dèi). E per questo motivo che i principali personaggi titanici della Commedia (Farinata, Capaneo, Vanni Fucci, Ulisse e lo stesso Lucifero) – al di là della nobiltà di alcuni e della bestialità di altri – sono ritenuti da Dante degli sciocchi, che non seppero o vollero comprendere la verità della struttura dell'Universo. Di conseguenza, sul piano estetico, una piena ammirazione per il loro atteggiamento non può aver luogo, malgrado la grandezza eroica che Dante non disconosce, e tuttavia non c'è nessun tipo di godimento estetico da parte del poeta per le blasfemie di Capaneo e di Fucci o, come nel caso di Farinata e Ulisse, per i loro atti di orgoglio e sfida, causa stessa, in quanto peccati, del loro confinamento infernale. In poche parole, per Dante come in genere per gli antichi, la ribellione non produce bellezza, poiché vuota di razionalità.
    Sarà l'estetica romantica a rovesciare questo paradigma. Beneficiando del contraccolpo della Rivoluzione francese, il concetto stesso di rivolta muta radicalmente e ha inizio una lenta ma inesorabile rivalutazione dell'atteggiamento titanico di sfida, in primis nei confronti dell'assolutismo monarchico e illuminato. L'attribuzione di ragione si sposta dal piano della Necessità al piano dell'uomo; oggetto di riprovazione è Dio, non più l'uomo. Ha inizio quella che Odo Marquard definì, in Apologia del caso, «tribunalizzazione della realtà della vita moderna»: adesso sono Dio e il Monarca a essere messi alla sbarra e a rendere conto del loro operato agli occhi dell'uomo. Sul piano letterario, questa radicale trasformazione filosofico-estetica perdura anche durante la parentesi della Restaurazione, e i poeti romantici e post-romantici si fanno carico della rivalutazione di quegli eroi condannati moralmente dalla classicità. Soprattutto il Prometeo eschileo viene rivalutato alla luce di questo mutamento di paradigma. Pochi valori mantenuti in vita per centinaia di anni dalla cultura occidentale hanno subìto un cambiamento così radicale come quello della rivolta.
    Sul piano strettamente letterario si ritiene che fosse stato il Satana del Paradise lost di Milton (1667) a dar inizio alla rivalutazione estetica dell'atteggiamento titanico, sebbene sia probabile che Milton non ne avesse esplicita intenzione. Il Satana miltoniano, oltre a essere il vero protagonista del poema, è radicalmente diverso dal Lucifero dantesco, che nemmeno proferisce parola dalle sue orrende bocche, intente a masticare i tre traditori. Il lettore ricorderà il celebre monologo dell'angelo ribelle miltoniano, appena scaraventato nel baratro: «"È questa la regione, è questo il suolo e il clima" /, disse allora l'Arcangelo perduto, "è questa sede che / abbiamo guadagnato contro il cielo, questo dolente buio / contro la luce celestiale? Ebbene, sia pure così / se ora colui che è sovrano può dire e decidere / che cosa sia il giusto; e più lontani siamo / da lui e meglio è, da lui che ci uguagliava per ragione / e che la forza ha ormai reso supremo / sopra i suoi uguali. Addio, campi felici, / dove la gioia regna eternamente! E a voi salute, orrori, / mondo infernale; e tu, profondissimo inferno, ricevi / il nuovo possidente: uno che tempi o luoghi / mai potranno mutare la sua mente. La mente è il proprio luogo, / e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo. / Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro / dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto / a lui che il tuono ha reso più potente? Qui almeno / saremo liberi; poiché l'Altissimo non ha edificato / questo luogo per poi dovercelo anche invidiare, / non ne saremo cacciati: vi regneremo sicuri, e a mio giudizio / regnare è una degna ambizione, anche sopra l'inferno: / meglio regnare all'inferno che servire in cielo» (J. Milton, Paradiso perduto, a cura di R. Sanesi, introduzione di Kermode, con un saggio di T.S. Eliot, Mondadori, Milano 2013, Libro I, vv. 242-263, p. 23).
    Il Satana di Milton non è repellente, non produce bruttezza, come quello dantesco, ma al contrario splende nella complessità psicologica con cui è costruito. Camus, nel suo celebre saggio L'uomo in rivolta del 1951, ha precisato molto bene il mutamento della concezione della rivolta che ha inizio con l'avvento del cristianesimo, ed è proprio con il cristianesimo e la Commedia che gli scrittori romantici del circolo di Jena ponevano le basi dell'inizio stesso della poesia moderna: «La rivolta metafisica presuppone infatti una visione semplificata della creazione, che i greci non potevano avere. Non c'erano per loro da una parte gli dèi, e dall'altra gli uomini, ma diversi gradi che conducevano dagli ultimi ai primi. L'idea di un'innocenza opposta alla colpevolezza, la visione di una storia riassumentesi tutta nella lotta tra il bene e il male, erano loro estranei. [...] La rivolta, dopo tutto, non s'immagina se non sia contro qualcuno. Solo il concetto di un dio personale, creatore e dunque responsabile di ogni cosa, dà senso alla protesta umana. Possiamo dirlo: come possiamo dire, senza paradosso, che la storia della rivolta nel mondo occidentale è inseparabile da quella del cristianesimo» (A. Camus, L'uomo in rivolta, prefazione di C. Rosso, Bompiani, Milano 2009, p. 37).
    Non è azzardato ritenere che con i personaggi ribelli di Dante la poesia occidentale riprenda quel dialogo ininterrotto con la classicità, ma il diverso contesto teologico e filosofico per forza di cose non poteva che produrre alcuni cambiamenti - soprattutto il concetto di un Dio «responsabile e giudice dell'essere», del tutto estraneo ai greci - che poggiano ancora una volta su una fondamentale distinzione camusiana, ovvero rivolta e rivoluzione: «In teoria, la parola rivoluzione serba il senso che ha in astronomia. È un movimento che chiude l'orbita, che passa da un governo all'altro dopo una traslazione completa. [...] Il movimento di rivolta, all'origine, è di breve respiro. Non è che un'attestazione senza coerenza. La rivoluzione invece prende principio dall'idea. Precisamente, è l'inserzione dell'idea nell'esperienza storica mentre la rivolta è soltanto il moto che porta dall'esperienza individuale all'idea» (ivi, p. 122).
    Secondo Camus, dunque, la rivoluzione si pone come movimento più complesso, anzi, come compimento stesso della rivolta, e proprio su questi due concetti vorrei basarmi per cogliere la differenza fondamentale tra Capaneo e Fucci, i titani che, ancor più di Farinata e Ulisse, rivelano nel modo più sprezzante il loro odio verso Dio: un uomo in rivolta e un uomo rivoluzionario.

    «Bestemmiavan quivi la virtù divina»

    Nel V canto dell'Inferno, superato l'incontro con Minosse, Dante osserva le pene dei lussuriosi, e narra: «La bufera infernal, che mai non resta, / mena li spirti con la sua rapina; / voltando e percotendo li molesta. / Quando giungon davanti a la ruina, / quivi le strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la virtù divina», (Inferno V,31-36: D. Alighieri, La Divina Commedia, testo critico stabilito da G. Petrocchi; con una sua nota introduttiva sul testo della Commedia, Einaudi, Torino 1975, p. 22. Tutte le citazioni seguenti dalla Commedia si intendono tratte da questa edizione critica). Lo stesso «doloroso regno» è frutto della primigenia bestemmia: «Non è sanza cagion l'andare al cupo: / vuolsi ne l'alto, là dove Michele / fé la vendetta del superbo strupo» (Inferno VII,10-12). Dunque la base da cui partire è proprio la bestemmia. Il termine deriva dal greco blasphemein, a sua volta derivato dall'unione di blaptein («ingiuriare») e pheme («reputazione»). Dante illustra la posizione infernale dei bestemmiatori esplicando la suddivisione del terzo girone del settimo cerchio per bocca di Virgilio: «Di violenti il primo cerchio è tutto; / ma perché si fa forza a tre persone, / in tre gironi è distinto e costrutto. [...] Puossi far forza nella deitade, / col cor negando e bestemmiando quella, / e spregiando natura e sua bontade; / e però lo minor giron suggella / del segno suo e Soddoma e Caorsa / e chi, spregiando Dio col cor, favella» (Inferno XI,28-30.46-51).
    Non è mia intenzione focalizzarmi sui peccati quali matrici originarie delle blasfemíe dei due personaggi, quanto condurre invece un'analisi un po' più sottile e che si situa post rem, dopo il peccato: perché, per quale ragione (quare) la rivolta? Se Dante giudica un errore dell'intelletto la presunzione di Capaneo e di Fucci nei confronti di Dio, quali sono invece l'obiettivo e l'opinione degli stessi dannati? Non bisogna infatti dimenticare che sia Capaneo che Fucci sono uomini, non titani o giganti, per quanto il primo sia dotato di forza erculea: entrambi potrebbero in teoria essere classificati, secondo la categoria di Camus, come hommes révoltés: «La rivolta nasce dallo spettacolo dell'irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta e incomprensibile. Ma il suo cieco slancio rivendica l'ordine in mezzo al caos e l'unità al cuore stesso di ciò che fugge e scompare. Essa grida, esige, vuole che lo scandalo cessi e che si fissi finalmente quanto finora si scriveva senza posa sull'acqua» (A. Camus, L'uomo in rivolta, cit., p. 12). Camus individua una particolare categoria di rivolta: la rivolta metafisica, nella quale il no è espresso contro il cielo, oltre le cose fisiche: «La rivolta metafisica è il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione e contro l'intera creazione. È metafisica perché contesta i fini dell'uomo e della creazione. Lo schiavo protesta contro la condizione che gli viene fatta all'interno del suo stato: l'insorto metafisico contro la condizione che gli viene fatta in quanto uomo. Lo schiavo ribelle afferma che c'è qualche cosa in lui che non accetta il modo in cui lo tratta il suo signore; l'insorto metafisico si dichiara frustrato dalla creazione» (ivi, p. 31). Capaneo e Fucci, pur nella loro differenza, sono in rivolta metafisica.

    Capaneo

    incontro con Capaneo è uno dei più famosi episodi dell'Inferno. Dopo aver descritto la pioggia di fuoco incessante che flagella i bestemmiatori, Dante, appena intravede Capaneo, si rivolge a Virgilio per chiedere lumi: «Maestro [...] chi è quel grande che non par che curi / lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, / sì che la pioggia non par che 'l marturi?» (Inferno XIV,43-48).
    Capaneo non dà il tempo a Virgilio di rispondere che immediatamente si intromette nella discussione: «E quel medesmo, che si fu accorto / ch'io domandava il mio duca di lui, / gridò: "Qual io fui vivo, tal son morto"» (Inferno XIV,49-51). Segue poi il famoso iperbato attraverso cui il re si vanta della propria irremovibilità di fronte a Dio, il quale, anche se «saetti con tutta sua forza, / non ne potrebbe aver vendetta allegra» (Inferno XIV,59-60). Infine, il rimprovero di Virgilio, che chiarisce al dannato – usando un'espressione inversamente proporzionale – come la causa della sua punizione sia la sua stessa superbia: «O Capaneo, in ciò che non s'ammorza / la tua superbia, se' tu più punito: / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito» (Inferno XIV,63-66). È necessario notare come Dante adoperi il termine furor, rabbia folle, per indicare la passione del re.
    La fonte dell'episodio proviene dalla Tebaide di Stazio (X, 827 e sgg). Stazio definisce furor la passione che anima il re, e tra le sue cause ipotizza una virtus egressa modum, un coraggio fuori misura.
    Non c'è dubbio che Dante abbia tratto dal poema latino il termine furor, condividendone il significato: «Fin qui le armi, le trombe, il ferro e le ferite: ma ora è Capaneo che devo innalzare, a lottare contro la volta stellata. Non più mi basta il solito canto dei poeti: ispirazione più robusta devo chiedere ai boschi d'Aonia. Osate con me, dee tutte! Sia che questa follia [furor] fosse opera del regno delle tenebre e le sorelle stigie, seguendo le insegne di Capaneo, prendessero le armi contro Giove, sia che nascesse da valore senza misura o da brama temeraria di gloria o fosse sorte concessa a morte eroica, o successo che precede sventure e ira degli dèi che blandisce i mortali» (P.P. Stazio, Tebaide, X,827-836, in Opere di Publio Papinio Stazio, a cura di A. Traglia e G. Aricò, Utet, Torino 1998, pp. 609-610, traduzione ín prosa).
    Capaneo compie stragi su stragi, e arriva a insultare gli dèi e lo stesso Giove, sfidandolo a duello. Ovviamente non c'è partita, e Giove stesso ride di tanta tracotanza, mentre invece gli dèi più timorosi dubitano del suo fulmine, che però non fallisce e incenerisce in un attimo il re, la cui morte sulle mura di Tebe è comunque gloriosa: «Un fulmine l'investì in pieno, scagliato da Giove con tutta la sua forza. Prima il cimiero volò verso il cielo, poi l'umbone dello scudo cade bruciato, e già avvampano tutte le sue membra. Indietreggiano i due eserciti, guardano con terrore dove vada a cadere, quali schiere colpisca col corpo ardente. [Egli sente il fuoco che gli brucia il petto, l'elmo, i capelli; con la mano cerca di strapparsi la corazza ardente, ma non trova, sotto il petto, che la cenere del ferro]. Tuttavia sta in piedi; esala verso il cielo l'ultimo respiro e appoggia, per non cadere, il petto fumante alle odiate mura; ma le membra mortali abbandonano l'eroe, l'anima resta spoglia. Se il corpo avesse ancora un po' resistito, avrebbe potuto sperare in un secondo fulmine» (ivi, vv. 927-939, pp. 614-615).
    Il Capaneo staziano è un bestione che sfida Giove in una prova di forza, ma il suo no non è una negazione filosofica della divinità, ovvero che oppone alla Necessità un altro ordine dell'essere: non è una volontà di assoluto che rende conto a un'altra volontà di assoluto sullo stato di cose esistente; Capaneo è un rozzo agitatore, un uomo in rivolta, ma non ha nessun tipo di profondità speculativa e Dante non può fare altro che eternizzarlo nel suo atteggiamento di sconfitto rabbioso. La rabbia del Capaneo dantesco non è legata al fatto che si trovi all'inferno a causa di un Dio che legifera come vuole e punisce dall'alto secondo i Suoi arbitrari calcoli, bensì il suo è il risentimento di un guerriero sconfitto, che non si dà pace di esserlo stato sulle mura di Tebe e di esserlo tuttora all'inferno; tuttavia è qui, paradossalmente, la sua grandezza eroica, non filosofica certo, che però lo fa rientrare nell'atteggiamento titanico: non si piega come Francesca in un dolore senza fine, ma, anzi, la sua rabbia colma il dolore e sembra perfino non fargli avvertire la sofferenza fisica, tanto grande è l'astio che nutre contro Dio. Questa è la caratteristica di Capaneo: testimone della potenza e superiorità di Dio resiste nella sua cieca unilateralità; «Quella di Capaneo è l'iracondia non del forte, [...] ma dell'egolatra e dell'egoarca (una specie di Uebermensch [sic] ancora allo stato di natura) il quale non riconosce altro Dío che se stesso e perciò sordo ad ogni sollecitazione che giunge da un mondo fraterno, inaccessibile ad ogni sentimento di un solidale e compartecipe destino. [...] Egli è il vero recluso dell'Inferno, il vero solitario dell'abisso infernale» (F. Matarrese, Capaneo, in Id., Interpretazioni dantesche (Saggi, note e discussioni), Due Stelle, Bari 1957, pp. 285 -286).
    Se Stazio all'inizio del Libro XI definisce magnanimus Capaneo, Dante non poteva condividere l'uso di un tale aggettivo, come precisa Bosco, compilatore della voce omonima: «La sua non era "magnanimitas" ma "praesumptio", come a Dante insegnava la Summa theologica di san Tommaso; e il suo Brunetto gli aveva detto [Tesoro, secondo il volgarizzamento attribuito a Bono Giamboni, Bologna 1878-1893] (VI XXXIV 343) che la parola 'magnanimitas' "vale altrettanto a dire come grande coraggio, ardimento e prodezza, ch'ella ne fa per nostro grado ragionevolmente pigliare le grandi cose"» (Voce Capaneo, Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1970, p. 814).
    Nel Convivio, IV,17,1-8, rifacendosi all'elenco delle virtù dell'Etica nichomachea, 11,7, Dante definisce appunto la "magnanimitade" «moderatrice e acquístatrice de' grandi onori e fama» (D. Alighieri, Il Convivio, in Opere minori di Dante Alighieri, a cura di E Chiappelli ed E. Fenzi, UTET, Torino 1986, vol. II, p. 273). Quella di Capaneo non è magnanimitas ma praesumptio, ovvero una grandezza d'animo non moderata, né ragionata; furore smodato, appunto. Dante appella Farinata «magnanimo» (Inferno X,73), ma non Capaneo. In realtà, anche l'ammirazione estetica di Dante è parziale; non è l'ammirazione totale con la quale i romantici guardavano Satana, il primo che aveva osato ribellarsi, e razionalmente, a Dio. È necessario cogliere questa fondamentale differenza tra l'ammirazione dantesca per la ribellione e quella romantico-moderna: Camus la esplica molto bene, quando scrive a proposito del culto romantico del personaggio: «Il romanticismo con la sua rivolta luciferina non gioverà veramente che alle avventure dell'immaginazione. Come Sade, lo separerà dalla rivolta classica la preferenza accordata al male e all'individuo. Ponendo l'accento sulla propria forza di sfida e di rifiuto, la rivolta, a questo stadio, scorda il proprio contenuto positivo. Poiché Dio rivendica quanto c'è di bene nell'uomo, bisogna volgere a scherno questo bene e scegliere il male. [. .1 L'eroe romantico opera innanzitutto la confusione profonda, e per così dire religiosa, del bene e del male. [.. .] il romanticismo inaugura il culto del personaggio. In questo, esso è logico. Non sperando più regola né unità da Dio, ostinato a raccogliersi tutto contro un destino nemico, impaziente di mantenere quanto ancora può essere mantenuto in un mondo destinato alla morte, il romantico, nella sua rivolta, cerca così una soluzione nell'atteggiarsi. L'atteggiamento infatti ricompone in unità estetica l'uomo lasciato in balia del caso e distrutto dalle violenze divine. L'essere che deve morire splende almeno prima di dissolversi, e questo splendore costituisce la sua giustificazione» (A. Camus, L'uomo in rivolta, cit., pp. 57 e 61). «Questo splendore costituisce la sua giustificazione»: qui è il punto decisivo. Il romantico ammira la ribellione per la ribellione o, meglio, non gli interessa che il titano verrà sconfitto, se la sconfitta almeno lo libererà dallo stato di servitù: allora il bagliore prima della fine aumenta di significato, dato che la sconfitta è inevitabile. Si insinua cioè il fondamento stesso dell'intero romanticismo: l'Assoluto. O il titano diviene anch'egli un Assoluto, diviene anch'egli Dio, o niente. Ecco il punto estetico della svolta dove la ratio passa in secondo piano, sovrastata dall'Io, ma per il poeta fiorentino tutto ciò non può che essere follia. La sua ammirazione estetica per la grandezza titanica va circoscritta all'interno della magnanimitas e non oltre i confini dopo i quali si entra nella praesumptio irrazionale; è come se il fascino della rivolta fosse solo una fase dialettica di un movimento che si conclude alla fine nella condanna dell'atto stesso: Dante passa attraverso l'ammirazione ma non si ferma (come i romantici) e prosegue nella negazione di quest'ultima nell'idea più grande (e razionale) di realizzazione dell'uomo non al di fuori di Dio, ma ín Dio. Chimenz su questo ha scritto pagine importanti: «Tutta la saggezza e tutto l'eroismo di questo mondo per Dante sono insufficienti se non mirano all'ultima perfezione, che è in Dio. [...] il fatto di non aver visto chiaramente l'unità del sentimento titanico-religioso di Dante ha condotto la critica a mettere in contrasto nel racconto di Ulisse l'ammirazione del poeta per l'eroismo dell'impresa, ulissea, e la sua riverenza alla volontà di Dio, che sommerge l'audace legno nei flutti dell'oceano» (S. A. Chimenz, Il titanismo religioso di Dante, pp. 541-552 in «Humanitas», II (1947), p. 548).
    Se Capaneo sembrerebbe rientrare dunque nella camusiana «rivolta metafisica» (si badi però, il Capaneo dantesco, non quello staziano, in quanto sfidante Dio quale «responsabile e giudice dell'essere») tuttavia il suo è un atto di rivolta, non di rivoluzione; Capaneo non vuole il Male; non desidera che la Verità sia il Male, ma solamente sfidare e vincere Dio a duello, per dimostrare di essere più forte. Fucci, invece, è davvero un rivoluzionario.

    Vanni Fucci

    Vanni Fucci patisce nella settima bolgia delle Malebolge; in questo caso, è Virgilio a chiedergli di presentarsi, dopo che i due pellegrini hanno assistito alla sua orrenda rinascita dalle ceneri: «"Io piovvi di Toscana, / poco tempo è, in questa gola fiera. / Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fuccí / bestia, e Pistoia mi fu degna tana". / E io al duca: "Dilli che non mucci, / e domanda che colpa qua giù 'l pinse; / ch'io 1' vidi uomo di sangue e di crucci". / E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, / ma drizzò verso me l'animo e 'l volto, / e di trista vergogna si dipinse; / poi disse: "Più mi duol che tu m'hai colto / ne la miseria dove tu mi vedi, / che quando fui de l'altra vita tolto"» (Inferno XXIV,122-135).
    Dante insiste sulla bestialità di Fucci, e nel Convivio scrive: «Onde, quando si dice l'uomo vivere, si dee intendere l'uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia; sì come dice quello eccellentissimo Boezio: "asino vive". Dirittamente dico, però che lo pensiero è propio atto de la ragione, perché le bestie non pensano, che non l'hanno; e non dico pur de le minori bestie, ma di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora o d'altra bestia abominevole» (D. Alighieri, Convivio, cit., 11,7,3-4, pp. 122-123. Cfr. anche IV,10-14). È interessante notare come la vergogna che il peccatore avverte non è legata al suo essere dannato; non si vergogna di essere un peccatore, quanto di apparire al poeta in questo stato e non in quello precedente, quando, in vita, era tronfio di gloria delle sue malefatte. Tralasciando la profezia, e passando direttamente all'incipit delcanto seguente, Dante descrive l'evento titanico iconografico più espressivo e al tempo stesso radicale dell'intera Commedia, superiore persino a quello stupendo movimento delle ciglia di Lucifero inginocchiato dinanzi a Dio agli inizi stessi del Tempo: «S'el fu sì bel com'elli è ora brutto, / e con-tra 'l suo fattore alzò le ciglia / ben dee da lui proceder ogne lutto» (Inferno XXXIV,34-36). Fucci compie l'atto estremo: fa le fiche e pronuncia il nome di Dio all'inferno, un unicum che gli costa l'imbavagliamento al silenzio da parte di Dio stesso: «Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, / gridando: "Togli, Dio, ch'a te le squadro!". / Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, / perch'una li s'avvolse allora al collo, / come dicesse "Non vo' che più diche"; / e un'altra a le braccia, e rilegollo, / ribadendo sé stessa sì dinanzi, / che non potea con esse dare un crollo. [...] Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri / non vidi spirto in Dio tanto superbo, / non quel che cadde a Tebe giù da' muri» (Inferno XXV,1 -9.13 -15 ).
    Notare che né Capaneo né Lucifero sono rappresentati negli atti (svolgentesi in contemporanea) di ribellione e punizione; nei loro confronti Dio si è già espresso e, per così dire, li lascia stare, facendoli ribollire nella loro rabbia, ma Fucci, bestia, va troppo oltre e Dante, in narrazione diretta, offre una splendida mise en abime del fenomeno del titanismo propriamente detto. Ecco perché questo episodio si pone su un gradino più alto rispetto all'incontro con Capaneo, e non solo perché Fucci è più bestiale di Capaneo – punto si cui si concentra il maggior numero dei critici – ma perché Fucci è un titano più completo di Capaneo sul piano filosofico-speculativo. Fucci è un rivoluzionario, mentre Capaneo è un uomo in rivolta. Quella del re staziano è «un'attestazione senza coerenza». Se Capaneo è un rozzo duellante che però non propone nessuna alternativa metafisica all'Onnipotenza, Fucci invece esprime tutto il rammarico di essere punito perché abitante un mondo governato dal Bene e non dal Male: Fucci si vergogna di essere partecipe di un sistema in cui il peccatore è punito in eterno e il santo è premiato in eterno. Non è rivolta ma rivoluzione perché alla base c'è un'idea: «la rivoluzione invece prende principio dall'idea», ovvero l'idea che il ladro (e con lui il Male) non debba essere punito: ciò è vergognoso per Fucci; è scandalo.
    Dunque bisognerebbe spostare di più l'attenzione sul sottile lato speculativo che partecipa della costruzione del titano Fucci, che rientra a mio parere perfettamente nei parametri disegnati da Camus in riferimento al rivoluzionario metafisico: «Protestando contro la condizione in ciò che essa ha d'incompiuto a causa della morte, e di disperso, a causa del male, la rivolta metafisica è la rivendicazione motivata di un'unità felice, contro la sofferenza di vivere e di morire. [...] Nel tempo stesso che rifiuta la propria condizione mortale, l'uomo in rivolta rifiuta di riconoscere il potere che lo fa vivere in questa condizione. L'insorto metafisico non è dunque sicuramente ateo, come si potrebbe credere, ma necessariamente blasfemo. Semplicemente, egli bestemmia innanzi tutto in nome dell'ordine, denunciando in Dio il padre della morte e il supremo scandalo» (A. Camus, L'uomo in rivolta, cit., p. 32). Fucci sfida l'offesa di essere punito in conseguenza della sua scelta di fare quello che ama fare, cioè il male: per Fucci lo scandalo sono Dio e la Sua Giustizia. Oltre la bestialità del pistoiese, oltre la condanna morale di Dante, la tragedia di quest'episodio si situa nell'umanità del dannato posto in silenzio da Dio: Fucci non è un uomo mitologico dotato di forza fuori dal comune, come Capaneo, Giasone, Ulisse e Diomede; egli è un uomo vissuto davvero, un uomo della storia, dunque creatura di Dio, che però sceglie volontariamente il male, e di fronte alla Verità sputa: «Vanni Fuccí rinnega letteralmente l'essenza del cristianesimo» (M.A. Balducci, Vanni Fucci: la bestia, l'esule e il bestemmiatore nei canti XXIV-XXV dell'Inferno di Dante, Carla Rossi Academy, Monsummano Terme 2010, p. 15).
    Non bisogna lasciar oscurare tale complessità dalla bestialità. Anzi, forse il personaggio più vicino e, per così dire, sodale a Fucci è Lucifero. Satana porta il peso del peccato più grave dell'inferno e ne costituisce appunto il centro, ma la ribellione del demonio è la stessa di quella di Fucci: entrambi hanno scelto il Male propriamente detto, non l'orgoglio (Farinata), né la forza bruta (Capaneo) né la curiosità smodata (Ulisse); in entrambi il movimento si è compiuto verso l'alto. Fucci e Lucifero si pongono quali volontà d'assoluto; il loro proposito è interloquire con Dio da pari a pari: «Più che negare, l'uomo in rivolta sfida. Primitivamente almeno, non sopprime Dio, gli parla semplicemente da pari a pari» (A. Camus, L'uomo in rivolta, cit., p. 33). Fucci, come Lucifero, è un radicale, come radicale è il vero romanticismo: o l'Assoluto o il nulla: «L'uomo in rivolta vuole essere tutto, identificarsi totalmente con quel bene di cui a un tratto ha preso coscienza, e che vuole sia riconosciuto e salutato nella propria persona – o niente, vale a dire trovarsi definitivamente scaduto per opera della forza che lo domina. Al limite, accetta quell'estrema caduta che è la morte, se dev'essere privo di quella consacrazione esclusiva che chiamerà, per esempio, la libertà. Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio [qui Camus parafrasa chiaramente i versi finali del monologo del Satana miltoniano sopra citati]» (ivi, p. 19).

    (FONTE: Feeria 59 2021/1, pp. 45-52)


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