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    Un’unica vite,

    un’unica linfa di vita

    V domenica di Pasqua - B


    Enzo Bianchi

    ¹«Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. ²Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. ³Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. ⁴Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. ⁵Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. ⁶Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. ⁷Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. ⁸In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
    Gv 15,1-8

    Nel vangelo secondo Giovanni ci sono parole di Gesù alle quali purtroppo siamo abituati e che dunque ascoltiamo o leggiamo in modo superficiale. In verità confesso che queste parole mi sembrano folli, mi sembrano pretese assurde, che un uomo equilibrato non può avanzare. Solo quando le leggo o le ascolto quali parole del Risorto vivente, del Kýrios, del Signore in mezzo alla sua chiesa (cf. Gv 20,19.26), mi sento di accoglierle come parole di verità e di vita. Ma allora mi danno quasi le vertigini e mi fanno sentire inadeguato di fronte alla rivelazione del mistero… I brani giovannei che ascoltiamo nel tempo pasquale e che innanzitutto testimoniano – come si vedeva domenica scorsa – le affermazioni di Gesù “Io sono…”, possono urtarci, possono sembrare incomprensibili… eppure sono parole del Signore!
    La pagina odierna è tratta dai cosiddetti “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), parole che il Risorto glorioso e vivente rivolge alla sua chiesa. Gesù afferma: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore, il vignaiolo”. Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15); è la pianta coltivata da sempre nella terra di Palestina, simbolo di una vita sedentaria e di una cultura attestata, simbolo della vita abbondante e gioiosa. Proprio la vite era stata assunta dai profeti come immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata nella terra promessa da Dio stesso (cf. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cf. Is 5,4). Gesù, rivelando di essere lui la vite vera (alethiné) – come Geremia proclama di Israele: “Ti ho piantato quale vite vera (alethiné)” (Ger 2,21 LXX) – si definisce l’Israele autentico, piantato da Dio, dunque pretende di rappresentare in sé tutto il suo popolo, proprietà del Signore. Egli è la vite vera e Dio – chiamato da Gesù con audacia “Padre” – è il vignaiolo, colui che la coltiva.
    Nella loro predicazione i profeti si erano più volte serviti di questa immagine per parlare dei credenti: Dio è il vignaiolo che ama la sua vigna ma da essa è frustrato (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 8,13); Dio è il vignaiolo che piange la sua vigna, un tempo rigogliosa ma ora bruciata e desolata (cf. Os 10,1; Ez 15,1-8); Dio è il vignaiolo invocato in soccorso della sua vigna devastata e recisa (cf. Sal 80,13-17). Sì, Gesù, il Messia di Israele, è la vigna che ricapitola in sé tutta la storia del popolo di Dio, assumendo i suoi fallimenti, le sue cadute e le sue sofferenze. Egli è nel contempo il testimone dell’amore fedele di Dio che, nella sua misericordia inesauribile, rinnova l’alleanza con il suo popolo.
    Gesù è anche la vigna che è la sua comunità, la chiesa, e – come dice Paolo servendosi della metafora del corpo che, seppur formato dal capo e dalle membra, è uno solo (cf. Rm 12,4-8; 1Cor 12,12-27) – egli è la pianta e i credenti in lui sono i tralci: ma la pianta della vite è sempre una e una sola linfa la fa vivere! Il Padre vignaiolo, avendo cura di questa vite e desiderando che faccia frutti abbondanti, interviene non solo lavorando la terra e coltivando la ma anche con la potatura, operazione che il contadino fa d’inverno, quando la vite non ha foglie e sembra morta. Conosciamo bene la potatura necessaria affinché la vite possa non disperdere la linfa e così produrre non fogliame, non tralci frondosi ma senza frutto: una vite deve dare grappoli formati e grandi, nutriti fino alla maturazione. Quando il contadino pota, allora la vite “piange” dove è tagliata, fino a quando la ferita guarisce e si cicatrizza. La potatura tanto necessaria è pur sempre un’operazione dolorosa per la vite, e molti tralci sono tagliati e gettati fuori della vigna, si seccano e sono destinati al fuoco…
    Gesù non ha paura di dire che anche suo Padre, Dio, deve compiere tale potatura, che la vita che egli è deve essere mondata e che dunque deve sentire nel suo stesso corpo le ferite per i tralci tagliati e staccati da lui. È la stessa parola di Dio che compie questa potatura, perché essa è anche giudizio che separa; del resto, non era stata proprio la parola di Dio a mondare la comunità di Gesù, con l’uscita dal cenacolo di Giuda il traditore, la sera precedente la passione (cf. Gv 13,30)? Per i discepoli di Gesù c’è la necessità di rimanere tralci della vite che egli è, di rimanere (verbo méno) in Gesù (facendo rimanere in loro le sue parole) come lui rimane in loro.
    Rimanere non è solo restare, dimorare, ma significa essere comunicanti in e con Gesù a tal punto da poter vivere, per la stessa linfa, di una stessa vita. Rimanere non è semplicemente permanere ciò che si è, in una passività paralizzante, ma è una dinamica attraverso la quale il legame con Gesù nell’adesione a lui (la fede) e nell’amore per lui (la carità) cresce e si sviluppa come comunione perseverante e fedele. Nel rimanere in Gesù c’è la sequela come dimensione interiorizzata, come condivisione di vita con lui, il vivere insieme! Proprio questo rimanere in Gesù è condizione necessaria e assoluta per essere in comunione con il Padre, con Dio. Come Gesù aveva dichiarato: “Il Figlio non può fare nulla da se stesso, se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19; cf. anche 5,30), così anche il suo discepolo non può fare nulla senza di lui: “Senza di me non potete fare nulla”. Ma come tralcio che riceve da lui la vita, può produrre molto frutto. Ognuno di noi discepoli di Gesù è un tralcio che, se non porta frutto, viene separato dalla vite e può solo seccare ed essere gettato nel fuoco; ma se resta un tralcio della vite, se si nutre della sua linfa vitale, allora dà frutto e, per la potatura ricevuta dal Padre, darà frutto buono e abbondante!
    In questa parola di Gesù ci viene inoltre ricordato che non spetta a nessuno potare, e dunque separare, staccare i tralci, se non a Dio, perché solo lui lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci. E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto. Per questo è assolutamente necessario che nella vita dei credenti sia presente la parola di Dio con tutta la sua potenza e la sua signoria: la Parola che monda, purifica (verbo kathaíro) chiesa e comunità; la Parola che, come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12), taglia il tralcio sterile, pota il tralcio rigoglioso e prepara una vendemmia abbondante e buona; la Parola che è la linfa della vite.
    Assistiamo sovente a potature nella comunità del Signore, conosciamo queste ore dolorose nelle quali possiamo dire che avviene una separazione e alcuni tralci non permangono più attaccati alla vite ma, staccati da essa, finiscono per seccare e non far più parte della vigna feconda e viva. Quando ciò avviene? Quando dei credenti in Cristo, innestati nella vite tramite il battesimo, non credono più all’amore (cf. 1Gv 4,16) e scelgono di vivere non nell’amore ma nell’inimicizia, nella philautía, nell’idolatria di se stessi. Questo succede quando ci si separa dalla comunità dei credenti, non riconoscendo più chi appartiene al corpo di Cristo; succede quando non si coglie più il dono dell’ospitalità eucaristica di Gesù che ci offre il suo corpo e il suo sangue affinché la sua vita sia in noi. Gesù, del resto, lo aveva detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56).
    Al termine della lettura di questa auto-proclamazione di Gesù – “Io sono la vite vera” – non resta che confermare la nostra fede in lui, vivendo insieme a lui un’unica vita e accettando per grazia, senza volontarismo, di dare in lui frutti abbondanti. La linfa della vite che siamo con Cristo è lo Spirito santo e il corpo e il sangue di Cristo nell’eucaristia ci donano questa linfa per la vita eterna.


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