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    Speranza, la virtù

    preferita di Dio

    Enzo Bianchi


    A
    bbiamo attraversato il tempo dell’Avvento, tempo di esercizio alla speranza, e ora celebriamo le venute epifaniche del Signore tra di noi, l’Immanu-El, il “Dio-con-noi”, fatto carne fragile e riconosciuto come dono che solo Dio poteva darci, da parte di pastori e sapienti pagani a Betlemme e dai figli di Israele al Giordano.

    La speranza è ciò che può dare senso all’attesa, la rende efficace e ne accelera il compimento, e noi umani portiamo nella nostra interiorità il seme della speranza, di cui siamo dotati fin dalla nostra nascita. È vero che all’origine di ogni nostra virtù c’è la fiducia (fede), ma la speranza la accompagna sempre e resta la più necessaria nei tempi di incertezza e di dubbio, quando la nostra fede si fa debole.
    Oggi la speranza sembra essere la virtù più difficile e molti non arrivano neppure a formulare la domanda fondamentale: «Cosa posso sperare?». Non essendoci capacità di ascoltare una promessa, non riuscendo più a intravedere un orientamento, la speranza resta confinata a un sentimento di sopravvivenza.
    E i cristiani? Più volte mi sento spinto a ripetere l’interrogativo di Ilario di Poitiers, vescovo e padre della Chiesa del IV secolo: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Eppure Cristo nostra speranza è la forza della nostra vita.
    Se Cristo è la nostra speranza, allora «noi attendiamo cieli nuovi e terra nuova» (2Pt 3,13), non nel senso che attendiamo il paradiso, ma che sperando operiamo, ci impegniamo in questa nuova creazione che è già iniziata con la risurrezione di Gesù Cristo.
    La speranza è per oggi, per questo è una virtù! La nostra speranza partecipa a quella di tutta l’umanità, è quella della creazione che geme e soffre, nutrendo la speranza della liberazione (cf. Rm 8,20-22).
    La speranza – dobbiamo avere il coraggio di dircelo – è speranza che la morte non abbia più l’ultima parola.
    Questo è il proprium della nostra fede cristiana: speranza nella risurrezione, nella vita piena, nel risarcimento donato a quanti su questa terra hanno sofferto e conosciuto ingiustizia e oppressione, malattia e povertà.
    Quando l’apostolo Pietro, indirizzandosi ai cristiani in diaspora in mezzo ai pagani, li invita alla missione, non chiede loro particolari azioni o strategie, ma solo di essere «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).
    Sperare è vivere da cristiani, sperare è già evangelizzazione. Non sarà forse che oggi la nostra evangelizzazione è sterile proprio perché negli evangelizzatori manca la speranza?
    Certo, occorre esercitarsi alla speranza: deposta come un seme nella vita di ciascuno di noi, deve essere confermata, esercitata impegnando anche la propria volontà. Bisogna decidere di sperare, come Abramo che «ebbe fede sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18).
    Esercitare la speranza rende visionari, nel senso che si scruta l’oggi e si intravede il domani, si contemplano le cose visibili ma si vedono quelle invisibili.
    La speranza è la virtù dei poveri, dei viandanti e dei pellegrini, è la virtù che chiede di essere vissuta insieme agli altri: solo “insieme”, infatti, si può sperare, e allora si è capaci di sperare per tutti.
    Pensiamoci bene: preferiamo sempre lamentarci, ci rifugiamo nelle valli dell’indifferenza e del sonnambulismo spirituale, ci accontentiamo di sopravvivere senza attendere più nulla, e così la nostra vita rimpicciolisce, si fa misera, senza più slanci né passioni.
    Aveva dunque ragione Charles Péguy quando scriveva in forma poetica: «La virtù che preferisco, dice Dio, è la speranza. La fede non mi stupisce… la carità neppure. Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce: è proprio la più grande meraviglia della mia grazia». Questo è davvero un tempo per impegnarci tutti insieme a sperare.

    (Jesus - Bisaccia del mendicante - Gennaio 2021)


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