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    Se il vangelo si riduce

    a solo umanesimo

    Enzo Bianchi

    In questa rubrica, intitolata fin qui “Dove va la chiesa?”, per tre anni abbiamo cercato di fare opera di discernimento per poter leggere insieme alcuni nodi ecclesiali, dopo un’attenta riflessione e un confronto con altre voci teologiche. Questo avendo ben salda la convinzione che fosse e sia diventato urgente per la chiesa decentrarsi, per mettere al centro il Vangelo che è Gesù Cristo, il camminare insieme di tutti i battezzati con i pastori vivendo nel quotidiano la sinodalità e infine la scelta, sempre da rinnovarsi, di vivere nel mondo con la povertà che Cristo stesso ha vissuto.
    Dobbiamo anche confessare che “si sono dette tante parole”, soprattutto da parte dei pastori, ma che veri passi, convinti e visibili, in queste direzioni non sono stati fatti. Quella che dovrebbe essere la riforma della chiesa ancora una volta viene a mancare, quasi fosse una legge che là dove si abbozza un risveglio, una primavera, una profezia da parte della chiesa, subito giunge repentina una gelata che arresta tutto. L’immagine più volte usata, non solo da me, è quella della cenere che copre il fuoco divampato in precedenza.
    È noto il brano del vangelo secondo Luca in cui Gesù pone all’uditorio dei discepoli una domanda: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). A volte mi viene da rispondere che sicuramente troverà le chiese ma sarà più difficile che trovi la fede. Perché questi dubbi? Lo affermo con umiltà e semplicità: perché mi sembra che la chiesa, benché animata dall’intenzione pura di seguire Cristo, tuttavia “parla, discorre e predica pressappoco su tutto, dalla pace nel mondo alla transizione ecologica, dai migranti all’economia, ma è sempre meno parlante per quanto attiene alla sfida decisiva per ciascuno: che ne è di me? Che cosa mi attende ed è veramente salvezza?” (Dominique Collin).
    In questi ultimi decenni ci siamo risvegliati da un torpore che ci faceva evadere dalla storia e dava alle nostre parole solo un significato spiritualista. È stata una grazia che la chiesa si sia scoperta nella sua vera identità di chiesa di poveri; che la fede professata in modo a-cosmico abbia assunto la dimensione della consapevolezza della co-creaturalità tra noi umani e tutte le creature, su questa terra; che la chiesa abbia saputo denunciare il peccato sociale dell’ingiustizia che regna sul mondo. È una grazia che ci rende più fedeli al Vangelo. Ma se il Vangelo si riduce soltanto a umanesimo, se non appare più la “differenza cristiana”, allora il cristianesimo non ha più una parola viva, un messaggio, un ev-angelo, cioè una buona notizia da trasmettere agli umani.
    C’è troppo sforzo da parte della chiesa per “essere nel mondo” a ogni costo. Lo si vede dal compiacimento che si cerca nei mass media, dall’audience che si vuole ricevere con tutti i mezzi. Queste continue messe in scena di eventi e iniziative in realtà lasciano il mondo indifferente. L’ho detto e scritto più volte: solo la differenza cristiana riesce a scalfire l’indifferenza del mondo, solo una presenza “altra”, non per distinguersi, non contro e senza gli altri, ma una presenza profetica che non si identifica con la maggioranza mondana, può essere eloquente.
    Nella crisi in cui siamo precipitati da decenni, ora accentuata dalla pandemia che sembra un evento capace di “svelare i pensieri di molti cuori” (cf. Lc 2,35), dobbiamo renderci conto che è diventata urgente una vera conversione, senza la quale la fede cristiana rischia di scomparire o di ridursi a sfilacciati movimenti diffusi nel nostro occidente europeo. Ma dove sono le sentinelle poste sulle mura di Gerusalemme? Che cosa sanno gridare (cf. Is 62,6)? Sanno annunciare il mattino che viene o sanno solo confermare la notte (cf. Is 21,11-12)? Perché sempre di più la predicazione cristiana si nutre di antropologia, di psicologia, e non più della parola di Dio, del Vangelo?
    Il risultato è un nuovo moralismo non ossessivo e scrupoloso come quello che la mia generazione ha conosciuto nella sua giovinezza, ma sempre un moralismo che ricerca – come dice papa Francesco – “lo stare bene con sé stessi”, “l’armonia con l’altro”: “la fede è ridotta a un moralismo, a un titanico e fallimentare sforzo di volontà”, dunque a un neopelagianesimo. Diviene purtroppo un teismo (nel quale vi è ancora un certo riferimento a Dio), che lascia posto solo a un’ammonizione morale che mortifica la buona notizia di Gesù Cristo e in cui domina una preoccupazione terapeutica priva di qualsiasi riferimento alla grazia.
    Se il campo è occupato da questo linguaggio dominante, tanto consolatorio e gratificante, non resta certo spazio per ciò che nel cristianesimo è veramente Vangelo, buona notizia. Oggi dobbiamo riscoprire nella fede cristiana ciò che è davvero vita: vita (zoé) più vivente del semplice esistere biologico (bíos). Quella vita che si è manifestata, scrive l’apostolo Giovanni, nel Verbo-Parola Gesù Cristo (cf. 1Gv 1,1-2). La conversione che ci occorre non è a una dottrina, a delle formule teologiche, ma, appunto, alla vita, come testimoniano i cristiani di Gerusalemme nel constatare la conversione dei pagani (metánoia eis zoèn: At 11,18).
    Si tratta di rimettere al centro della fede anzitutto Gesù Cristo, colui che ci ha narrato il Dio invisibile, vivente e vero (cf. Gv 1,18). Solo Cristo è il fondamento della differenza cristiana, il Cristo del Vangelo, nato da Maria, vissuto in Palestina, morto e risorto. Senza la morte e la resurrezione, Gesù Cristo non può essere il destinatario della nostra adesione-fede, colui nel quale abbiamo speranza perché è la nostra speranza. Noi cristiani non abbiamo molto di specifico da dare agli altri, ma questa buona notizia della resurrezione di Gesù, quindi anche nostra, sì! Senza questa postura e questo coraggio, siamo sale che ha perso il suo sapore (cf. Mt 5,13). Proprio per questo il cristianesimo non può attestarsi in modo definitivo, ma può sempre e solo rinascere, ricominciare.

    (Vita pastorale 22 gennaio 2021)


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