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    Quale futuro

    per il cristianesimo?

    Enzo Bianchi

    Sempre di nuovo è attuale la domanda posta da Gesù: «Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). In particolare, tale interrogativo deve inquietarci in questo nostro tempo di crisi del cristianesimo, di diminutio della sua presenza, della sua "esculturazione" dal nostro Occidente. Da circa trent'anni si è spento l'entusiasmo post-conciliare e si è preso atto — come osservava Michel De Certeau — che anche il tentativo di riforma della liturgia e della fede della Chiesa non solo non aveva sortito i frutti sperati ma aveva addirittura allontanato dalla vita cristiana porzioni di credenti tradizionali. Il grande teologo francese e amico carissimo JeanMarie Tillard, quale testamento di una vita spesa nel dialogo teologico ecumenico tra le Chiese, alla fine del secolo scorso lasciava uno scritto appassionato dal titolo significativo: Siamo gli ultimi cristiani?
    Ma già il teologo Joseph Ratzinger nel 1969 e, più recentemente in qualità di pontefice, aveva cercato di rispondere alla domanda circa il futuro della fede e con profetica capacità visionaria indicava come ipotesi feconda quella di una Chiesa di minoranza; una Chiesa piccola comunità di fedeli, povera e spogliata di tanti privilegi accumulati nella storia ma libera perché creativa; una Chiesa non settaria, capace di essere lievito fino a orientare la società. Benedetto XVI ha sempre creduto nelle minorités agissantes, nelle minoranze creative, e sperava che l'evolversi della crisi conducesse a questa nuova forma del vivere la Chiesa.
    Altri ancora, soprattutto nell'area culturale francese e mitteleuropea, hanno cercato risposte e formulato ipotesi diverse in merito. Molto conosciute e riprese le quattro ipotesi di Maurice Bellet (2001). La prima prevede la scomparsa del cristianesimo senza troppi sussulti né lamenti: una sorta di arretramento indolore nel quale il cristianesimo rimarrà nella memoria per i suoi monumenti, le opere d'arte e alcuni testi di sapienza antica. La seconda ipotesi, non molto dissimile dalla precedente, intravede il cristianesimo morto come fede, ma presente nella società con i suoi valori. La terza ipotesi non vede vicina la fine della fede cristiana e delle Chiese, ma pensa a un loro trascinarsi nella storia senza profezia: una presenza che soddisfa il bisogno religioso e, dunque, mantiene i riti e le modalità della religione. L'ultima, infine, quella che l'autore si augura per il cristianesimo, è una sua ripresa da capo, una sua rinascita grazie all'unica Parola di vita, il Vangelo. Solo da un nuovo inizio, infatti, la fede cristiana potrà di nuovo divampare come fuoco e dare una nuova forma al vivere la Chiesa.
    Non dovremmo neppure dimenticare le letture della crisi fatte da storici come Jean Delumeau o da sociologi come Danièle Hervieu-Léger, più esigenti e critici nei confronti dell'istituzione ecclesiale, con l'emissione di un verdetto di morte, in mancanza di un rapido mutamento e di una vera conversione. O si pensi ad analisi di teologi come Ghislain Lafont, che immagina un cattolicesimo diverso, o di Christoph Theobald, che chiede il mutamento, la riforma continua e l'attestarsi di una Chiesa ecumenica fondata sul sensus fidei del popolo di Dio, impegnato in un cammino sinodale. In un mio contributo del 2004 avevo tentato di rispondere con urgenza alla domanda: Quale futuro per il cristianesimo? Là avanzavo analisi che oggi mi sento di confermare, anche se l'accelerazione della crisi in questi ultimi quindici anni ha ulteriormente mutato lo status ecclesiae, soprattutto nel nostro Occidente. Che cosa esplicitare oggi? Con il ministero petrino di Francesco sono stati messi in moto alcuni processi, che vanno riconosciuti: la vita della Chiesa ha ripreso una dinamica che, se non si fermerà e giungerà ad alcune realizzazioni di riforma, aiuterà i cristiani ad attraversare la crisi e a vivere nella storia come minoranza profetica eloquente. Se, però, questi processi rimarranno solo abbozzi o, peggio, parole, credo che la delusione sarà tale che la vita della Chiesa ne resterà debilitata in modo grave e la diaspora già esistente diventerà addirittura non leggibile, non più sentita come presenza.
    Anche perché la novità di questi ultimi anni è proprio l'esculturazione del cristianesimo e della Chiesa, non possiamo ignorarlo. Basta conoscere i mass media per rendersi conto che in essi ormai non appaiono più "notizie" riguardanti la fede e la Chiesa, se non quelle che provocano scandalo, mentre le correnti culturali non tengono più conto delle voci e degli eventi cristiani. Mi permetto solo di far notare che tra i consigli di cento libri da leggere apparsi in occasione del Natale su un noto inserto culturale italiano, non appariva nessun testo di autori cristiani. Ormai "il mondo cristiano", che nel mondo non c'è più, è ignorato senza ostilità ma nella forma dell'indifferenza.
    Ecco qual è, a mio avviso, il problema della nostra presenza tra gli umani: l'indifferenza. Se non sapremo più evidenziare la differenza cristiana allora, come sale che ha perso il suo sapore, come fuoco sepolto dalla cenere, non saremo più in grado di dire qualcosa di significativo nella compagnia degli uomini. La differenza cristiana richiede anzitutto la fede in Gesù Cristo vivente perché Risorto, una fede nel Regno che viene. Ma oltre a questo primato della fede, nutrita alla fonte del Vangelo, occorrerà l'edificazione di comunità che siano davvero tali: veri luoghi di amore reciproco e di servizio degli ultimi; comunità che vivano la sinodalità, il camminare insieme in una comunione plurale; comunità che non si isolano, non diventano settarie, ma stanno con simpatia e spirito di fraternità in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Solo in questo modo si potrà dare una risposta credibile alle più svariate forme di populismo che «riducono i simboli religiosi a marcatori culturali identitari che non sono associati a una pratica religiosa», come osserva Olivier Roy nel recente saggio L'Europa è ancora cristiana?
    Se il Vangelo fornirà l'ispirazione profonda alla vita cristiana, sarà manifesto a tutti che i credenti sono uomini e donne riuniti in una nuova comunione: è in questa semplice e radicale differenza che consiste la dimensione pubblica e comunitaria della prassi evangelica. Dunque una comunità cristiana che nel mondo non "sta contro" il mondo, animata da una logica di concorrenza e contrapposizione. Scriveva provocatoriamente Friedrich Nietzsche alla fine del XIX secolo: «Già la parola "cristianesimo" è un equivoco: in fondo è esistito un solo cristiano e questi mori sulla croce. L'"Evangelo" morì sulla croce. [...] Soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla croce, soltanto questo è cristiano. Ancora oggi una tale vita è possibile, per certi uomini è persino necessaria: l'autentico, originario cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi. Non una credenza, bensì un fare, soprattutto un nonfare-molte-cose, un diverso essere».
    Il cristianesimo è nato da una grande crisi: quella di Gesù e dei suoi discepoli la sera dell'ultima cena, con il tradimento da parte di uno di loro. Dobbiamo esserne certi: il Signore Gesù ci ha preceduti nella crisi, dunque in essa non ci abbandona.

    (Vita Pastorale - Febbraio 2021)


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