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    Questo «venire», però, non abbraccia soltanto il passato, ma si slancia verso il futuro, verso un «avvenire» che non è solo il futuro dell’uomo, ma del cosmo intero, tanto che anche il creato si associa in questa attesa, accogliendo la visita del Signore, che inaugurerà un tempo e uno spazio nuovi, nella gioia e nella dolcezza: «Quel giorno le montagne stilleranno vino nuovo, latte e miele scorrerà per le colline, alleluia» ( Liturgia delle Ore, I domenica di Avvento, Lodi mattutine, I antifona.), perché «Colui che deve venire, il Veniente verrà e non tarderà» (Ab 2,3 Vlg).
    Entrare nell’Avvento significa dunque mettersi in accordo con questo «venire» di Dio. Celebrare l’Avvento significa celebrare il Dio che viene, sapendo che «Dio non è riducibile a un Dio sempre uguale, sempre presente, senza colore e senza volto, sottratto a noi dalla infinita distanza. Egli è il Dio che irrompe in noi, che nasce proprio dai nostri orizzonti, il Dio del nostro avvenire umano» (J. B. Metz).
    Con un’immagine architettonica, potremmo dire che l’Avvento costituisce quasi l’abside dell’architettura del tempo liturgico, lo spazio di gloria, quasi il punto omega verso il quale il popolo di Dio è incamminato. Nel contempo, però, quest’apertura “absidale” del tempo coincide con il punto alfa, l’Orientale Lumen, cioè il punto dal quale sorge il Sole. In un certo senso, l’inizio e la fine si ricongiungono.
    Vivere l’avvento significa allora abitare un frattempo, tra la memoria del Signore già venuto nella carne e l’attesa del suo ritorno glorioso: fra il già e il non ancora si estende lo spazio del nostro «oggi», spazio in cui siamo chiamati a leggere le tracce della Sua presenza, dell’incessante venire del Signore incontro ai nostri passi.
    Quella del Signore che viene è «una “presenza nascosta” nelle sere, nelle notti, all’aurora, nelle mattine… dei giorni dell’uomo… una presenza che può diventare incontro… “venuta”… appunto Avvento! Perché “ora – ci dice la liturgia dell’Avvento – egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo… perché lo accogliamo!”. Nelle nostre sere egli viene… viene quando la luce cala e tutto sembra finire. Viene, lì dove noi cominciamo a non riconoscere i tratti dei nostri volti. Qui, proprio, qui… egli viene! Viene nel cuore delle nostre notti… viene quando tutto sembra senza via d’uscita, quando si vede solo buio intorno a noi… quando gli incontri sono “sospettosi” e pieni di paura. Viene, lì dove non riconosco il volto di chi mi viene incontro. Qui, proprio, qui… egli viene! Viene al nostro canto del gallo… viene quando ci scopriamo traditori di tutto ciò in cui avevamo sperato… e creduto, quando la luce è ancora troppo poca per reagire. Viene, lì dove noi incontriamo gli sguardi di coloro che abbiamo deluso. Qui, proprio, qui… egli viene! Viene nelle nostre mattine… viene quando di fronte ad un nuovo giorno siamo tentati di pensare che non ci sarà nulla di nuovo… e ci sconvolge, nelle nostre mattine, allo spuntare della luce… come le donne che “presto al mattino” (Mc 16,2) della risurrezione vanno al sepolcro per porre l’ultimo sigillo e scoprono che l’“ultima parola” non è la morte, ma la vita…» (M. Ferrari).
    Così l’Avvento diviene scuola dell’attesa, della preparazione, del desiderio, della gioia, della speranza, secondo una grammatica che è sempre da riscoprire.
    «Attendere» indica il movimento, la tensione verso…, quel dinamismo volto a colmare la distanza che ci separa da chi e da ciò che desideriamo.
    «Aspettare» è questione di sguardo: implica il guardare verso…, nell’attesa di qualcosa che non dipende da noi, ma che sta davanti ai nostri occhi, che vediamo venire a noi (o che ci aspettiamo che venga a noi e compaia sotto i nostri occhi). «Fissate là in alto i vostri pensieri e la vostra attesa sia sospesa verso Dio!», esortava Guerrico d’Igny.
    E questa attesa di un volto, di una parola, di una presenza che tarda a venire, di un segno che consoli, di una compagnia che illumini opera in noi una dilatazione dell’intimo, come insegnava Agostino: la nostra vita è tutta attraversata dal nostro desiderare, tanto da poter dire che vivere è desiderare. Noi siamo simili a un sacco nel quale dobbiamo far entrare un dono voluminoso; dobbiamo allora allargare la bocca del nostro sacco per accrescerne la capienza. «Allo stesso modo Dio – scriveva il vescovo di Ippona – con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace. Viviamo dunque, fratelli, di desiderio, poiché dobbiamo essere colmati» dal dono del Dio che viene.
    Questa pienezza promessa che viene a colmare il nostro vuoto ci rivela che l’Avvento è anche il tempo della consolazione. Nella liturgia risuona l’esortazione del profeta Isaia: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio» (Is 40,1). Gli occhi dei profeti già scorgono una consolazione che non si limita a una dimensione spirituale dell’uomo, ma pervade anche il suo corpo: «Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti» (Is 35,3); e come un’onda che si propaga, questa consolazione diviene addirittura sinonimo di ricostruzione materiale e spirituale della città degli uomini, nella misura in cui i luoghi rappresentano anche la concrezione silenziosa del cuore, dell’intimo. Il giorno del Signore veniente sarà il giorno in cui la misericordia di Dio rialzerà la capanna di Davide, che è cadente; ne riparerà le brecce, ne rialzerà le rovine, la ricostruirà come ai tempi antichi (cf. Am 9,11). Ricostruire le mura o la città significa allora, simbolicamente, far risorgere quanto era caduto nella polvere, ridare vita e infondere coraggio, secondo la parola del Signore che ha detto: «Io dico a Gerusalemme: “Sarai abitata”, e alle città di Giuda: “Sarete riedificate”, e ne restaurerò le rovine» (Is 44,26).
    «Se noi ci affidiamo a Lui con cuore umile e pentito, Egli abbatterà i muri del male, riempirà le buche delle nostre omissioni, spianerà i dossi della superbia e della vanità e aprirà la strada dell'incontro con Lui. È curioso, ma tante volte abbiamo paura della consolazione, di essere consolati. Anzi, ci sentiamo più sicuri nella tristezza e nella desolazione. Sapete perché? Perché nella tristezza ci sentiamo quasi protagonisti. Invece nella consolazione è lo Spirito Santo il protagonista! È Lui che ci consola, è Lui che ci dà il coraggio di uscire da noi stessi. È Lui è che ci porta alla fonte di ogni vera consolazione, cioè il Padre. E questa è la conversione. Per favore, lasciatevi consolare dal Signore!» (papa Francesco).
    L’Avvento è il tempo in cui, ancora una volta, la Chiesa contempla l’umanità di Colui che «voleva consolare la nostra fragilità» (Agostino); è questo il senso della vita del Figlio, il volto di un Dio vicino, entrato nelle pieghe della storia per portarvi questa consolazione come «uomo che è con noi nel tempo», con la sua compagnia che è con noi e per noi.

     


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