La passione di Gesù,
uomo libero
e amante fino alla fine
Ludwig Monti
Si legge nella Lettera agli Ebrei: “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo ne è divenuto partecipe”, cioè si è fatto uomo, “per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per paura della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15). Tra le tante verità contenute in queste parole che non si finiscono mai di meditare, ce n’è una che riguarda il giorno che stiamo vivendo, il grande e santo venerdì: per liberare gli esseri umani dalla paura della morte, “il re delle paure” (Gb 18,14), Gesù ha vissuto in prima persona la passione fino alla morte, forma estrema e decisiva di libertà, che nasceva dalla sua capacità di amore.
Gesù è stato condannato e ucciso a Gerusalemme mediante la pena della crocifissione, morte del maledetto da Dio, la vigilia del sabato di Pasqua, il 7 aprile dell’anno 30 della nostra era. Questa fine vergognosa è subito apparsa uno scandalo (cf. 1Cor 1,23), un inciampo per la fede nel Messia Gesù, Inviato di Dio. Eppure per l’autentica fede cristiana è proprio il crocifisso colui che “ha raccontato Dio” (cf. Gv 1,18): anche e soprattutto sulla croce, Gesù ha mostrato il vero volto di Dio, trasformando uno strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria. Ma chiediamoci, almeno oggi: com’è stato possibile che un uomo crocifisso venisse adorato quale Salvatore e Signore?
Per rispondere, occorre innanzitutto guardarsi dalla tentazione “doloristica” di leggere Gesù a partire dalla croce; al contrario, occorre leggere anche la croce a partire da Gesù, colui che vi è stato ingiustamente appeso, colui che con la sua libertà di amare ha reso pure il patibolo un trono di gloria, come mostra l’iconografia orientale del Cristo crocifisso con gli occhi aperti, in grado di dominare gli eventi.
Operato questo decisivo ribaltamento (senza il quale è inutile proseguire ogni tipo di discorso sulla croce!), ci si può interrogare su come Gesù ha affrontato la prospettiva della sua morte violenta. I vangeli ci dicono che Gesù è andato verso la morte non per caso né per necessità, ossia a motivo di un destino incombente su di lui. Gesù non è stato arrestato casualmente: egli stesso aveva preannunciato la propria fine, la fine toccata a tutti i profeti, la fine fatta dal suo maestro Giovanni il Battezzatore pochi anni prima, esito dell’opposizione nei suoi confronti da parte del potere religioso. Ma il suo non era neanche un destino ineluttabile: di fronte al precipitare degli eventi, Gesù restava libero di tornare in Galilea, oppure di arrendersi, concludendo nel tempio il suo ministero iniziato lungo il mare, nelle piazze dei villaggi, nelle case e nelle sinagoghe.
No, Gesù è andato verso la morte nella libertà e per amore: “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1), come ascoltiamo la sera del giovedì santo. Ecco l’unicità di Gesù: proprio nel momento in cui il vortice che è stata la sua vita umana ricade nel caos, si afferma trionfalmente un altro vortice, quello della libertà dell’amore gratuito… Ce lo ricordano anche le parole contenute al cuore della liturgia eucaristica, se solo le ascoltassimo: “Nell’ora in cui andava liberamente alla sua passione, prese il pane…” (Preghiera eucaristica II); “Per attuare il tuo disegno di salvezza si consegnò volontariamente alla morte, e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita … Egli, venuta l’ora d’essere glorificato da te, Padre santo, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine, e mentre cenava con loro, prese il pane…” (Preghiera eucaristica IV).
Ora, Gesù ha più volte annunciato che la sua passione “era necessaria”. Lo era però di una “necessità” precisa, innanzitutto umana, sulla quale avevano già meditato i sapienti di Israele: in un mondo ingiusto, il giusto può solo essere perseguitato e, se possibile, ucciso, come si legge nei primi due capitoli del libro della Sapienza. Gesù avrebbe potuto tacere o smentire tutta la sua vita, passando dalla parte degli ingiusti. Restando invece fedele alla volontà di Dio, con tenacia e libertà, continuando a fare il bene in modo unilaterale, poteva solo preparare il suo rifiuto: da parte del potere romano, che lo riteneva una minaccia alle pretese totalitarie dell’imperatore; da parte del potere religioso giudaico, che non sopportava il volto di Dio da lui narrato, non sopportava “il suo annuncio del Vangelo”, che “invitava a liberarsi dalle chiusure della religione, quando essa si oppone alla ricerca del regno di Dio, regno della libertà dei figli di Dio” (Joseph Moingt). Così la necessità umana diventa anche necessità divina, nel senso (e solo in questo senso!) che la libera obbedienza da parte di Gesù alla volontà del Padre, cioè all’amore gratuito e perseverante fino alla fine, esige una vita di giustizia e di amore anche a costo della morte violenta: “la necessità della condanna di Gesù è dunque dentro la libera scelta di vita che egli ha fatto, quella appunto di dire, costi quello che costi, la verità di Dio. Una scelta di vita che porta con sé il rischio della condanna” (Bruno Maggioni).
Rischio a cui Gesù non si è sottratto, insegnando così una cosa semplicissima, che forse non abbiamo ancora capito fino in fondo: quando si vivono l’amore e la libertà, cosa temere? Nemmeno la morte, in profondità, può farci paura, perché l’amore (dato e ricevuto) e la libertà sono più forti di ogni forma di morte, compresa la morte fisica che sperimenteremo nel nostro ultimo giorno… Non dimentichiamolo! Di più, in questa luce ci è dato di comprendere con maggiore intelligenza le vertiginose parole dell’Apostolo Paolo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35.37-39).
Sappiamo che il Padre ha risposto all’amore vissuto liberamente da Gesù richiamandolo dai morti alla vita senza fine, ma questo è un discorso che aprirebbe altri sentieri di riflessione. Qui mi limito a segnalare una suggestiva affermazione del Salmo 87 (88), la supplica più tenebrosa dell’intero Salterio, narrazione ante litteram del sabato santo: secondo la versione latina l’orante, pur immerso nella condizione di massima derelizione, ardisce presentare se stesso come “inter mortuos liber”, “libero tra i morti” (v. 6). Con intelligenza spirituale, i padri hanno applicato queste parole alla discesa di Gesù tra i morti e alla sua resurrezione: anche tra i morti Gesù è rimasto libero, perché neppure la morte ha potuto imprigionare la sua libertà e il suo amore (cf. At 2,24). E così può essere anche per noi.
Oggi seguiamo Gesù Cristo fino alla fine, osserviamo con attenzione e meraviglia il suo comportamento anche e soprattutto durante la passione, frutto di un’intera esistenza vissuta con quello stile. Così potremo tendere, giorno dopo giorno, a incarnare nella nostra esistenza il suo Vangelo, Vangelo che è la libertà di amare (cf. Gal 5,13), in vita e dunque oltre la morte. Con la stessa passione di Gesù per la libertà e l’amore.