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    Cultura della memoria

    e amore dell’immigrato

    XXX domenica nell’Anno A

    Luciano Manicardi



     

    In quel tempo 34i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». 37Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38Questo è il grande e primo comandamento. 39Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. 40Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
    Mt 22,34-40 (Es 22,20-26)

    La prima lettura (Es 22,20-26) presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torah (il codice dell’alleanza); nel vangelo (Mt 22,34-40) Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torah, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (cf. Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi, come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (cf. Lv 19,18; Mt 22,39). La Torah, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è Vangelo.
    Le leggi presenti nell’AT, spesso ignorate o conosciute male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come “perenne” è il valore dell’AT per i cristiani: Dei verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero “al tramonto del sole” il mantello preso in pegno è motivata con un’affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle, come potrebbe coprirsi dormendo?” (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo pone dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui.
    La legge che proibisce di opprimere e sfruttare l’immigrato (gher, in ebraico) è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: “perché voi siete stati immigrati nel paese di Egitto” (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subite dai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese. Alla base di questa legislazione c’è la memoria dell’esperienza egiziana, che arriva a determinare come ‘normante’ l’atteggiamento di protezione e di accoglienza verso l’immigrato. Coloro a cui sono rivolte queste leggi sono infatti i lontanissimi discendenti di coloro che avevano vissuto in prima persona l’esperienza dell’oppressione in Egitto. In questo modo la memoria dell’evento storico diventa legge e la legge sociale si configura come il memoriale della storia passata: al cuore di questo circolo ermeneutico c’è la figura del gher, l’immigrato. Figura che rimanda tanto al non israelita quanto al figlio d’Israele. Queste leggi nascono dunque da una cultura della memoria: ieri come oggi la memoria storica sta alla base di una cultura dell’ospitalità e dell’accoglienza. Il testo di Es 22,20 (ma anche Es 23,9: “Non opprimere l’immigrato: voi infatti conoscete il respiro dell’immigrato, perché siete stati anche voi immigrati in terra d’Egitto”, dove il “respiro” indica il fiatone dovuto al fatto che agli immigrati erano riservati i lavori più pesanti) sgorga dalla coscienza che la memoria, particolarmente la memoria della sofferenza, può liberare dalla “coazione a ripetere”, dalla tentazione di ripercuotere su altri la violenza una volta subita. Da parte dell’ospitante occorrerebbe poi la coscienza che colui che arriva proviene da una storia di dolore e porta con sé il pesante fardello di una lacerante sofferenza. Egli sta fuggendo da condizioni di vita inumana: povertà e miseria, fame e condizioni sociali insostenibili, guerra e persecuzione, pulizie etniche e lotte tribali, violenze e discriminazioni di ogni tipo. La memoria della sofferenza potrebbe agire come “terzo” fra l’ospitante e lo straniero per liberare il loro rapporto dal rischio della violenza e aprirlo all’empatia. Sul piano della comune esperienza della sofferenza si può arrivare ad avere una percezione dell’altro non come nemico, non come minaccia, non come colui che prende per sé ciò che spetta a ‘noi’, che ci sottrae il lavoro e minaccia le ‘nostre’ donne (quasi che, in una visione decisamente maschilista, solo perché italiane, le donne fossero di diritto “nostre”, cioè destinate a maschi italiani), ma come vittima, come bisognoso, come indigente. Occorrerebbe dare spazio a una “cultura della memoria”. E sarebbe non solo possibile, ma anche eticamente doveroso in un paese come il nostro, in cui molti hanno vissuto l’emigrazione, sia interna che verso l’estero, e conosciuto i disagi e le discriminazioni di chi vive da immigrato in paese straniero, in paesi ospitanti, ma non sempre ospitali. La storia dell’emigrazione italiana all’estero è piena di vicende dolorose e tragiche che annoverano violenze e linciaggi, accuse e disprezzo, emarginazione e discriminazione. Luoghi comuni (e per questo pericolosissimi) che permangono nel tempo e di cui tutti possono essere di volta in volta oggetto e soggetto. Purtroppo oggi siamo immersi in una cultura dell’amnesia, della dimenticanza, e questo rende fragili le nostre identità e ingigantisce le nostre paure: invece, il ricordo e soprattutto la memoria del male conosciuto da noi e dagli altri, potrebbe consentirci di elaborare il male subito e di produrre una cultura di accoglienza e di solidarietà, di ospitalità e di condivisione. Non ricordare significa fuggire la storia, rifiutarsi all’umiltà e alla compassione, aprire la strada alla volgarità e alla barbarie, all’arroganza e all’intolleranza. Forse, l’insegnamento che spinge a ricordare è l’eredità più preziosa che ci lascia la testimonianza biblica: infatti, “la Bibbia insiste sul dovere del ricordo piuttosto che sul rispetto di principi. Il ricordo ferisce l’interiorità umana e la vota a servire la debolezza dello straniero senza cercare di approfittarne, di dominarla o semplicemente di passare oltre il suo appello volgendo lo sguardo altrove” (Catherine Chalier). Dimenticare lo straniero equivale a dimenticare la propria umanità. E, di conseguenza, significa astenersi dai gesti umani, umanissimi, dell’accoglienza. Per esempio, non dovremmo, noi italiani, ricordare che agli inizi del ventesimo secolo in quel tratto di mare - il canale di Sicilia - dove oggi muoiono (e purtroppo non solo lì) centinaia di persone provenienti dalla sponda meridionale del Mediterraneo, sono stati degli italiani a trovare la morte? Italiani che erano andati soprattutto in Tunisia, quando era protettorato francese e che erano stati rimpatriati, così come negli anni sessanta sono stati i magrebini a venire verso l’Italia.
    Tornando al nostro testo biblico, l’immigrato, accostato alla vedova, all’orfano e al povero (Es 22,21.24), rientra fra quelle personaemiserae che vivono in condizioni di povertà e dipendenza, esposti ad angherie, soprusi e sopraffazioni perché socialmente deboli e indifesi. In più, l’immigrato, essendo straniero, appartenente a un altro popolo e ad un’altra religione, senza legami parentali con la popolazione locale, è facilmente equiparabile a un nemico: se viene oppresso o anche ucciso, non c’è da temere la vendetta di nessuno. Uno può farlo impunemente. Per questo il Signore stesso interviene in sua difesa: ‘Se egli grida verso di me, io ascolterò il suo grido’ (Es 22,22). La condizione di marginalità, di assenza di protezione e di diritti, pone l’immigrato sotto la diretta tutela del Signore. Dunque: il divieto di opprimere una minoranza etnica presente all’interno dei propri confini, è motivata dal rimando alla situazione vissuta da Israele stesso quando era minoranza senza diritti in Egitto. Questo rimando ha una precisa portata teologica: il Signore, il Dio d’Israele, è il Dio degli emigranti in terra straniera, dei marginali, dei senza diritti. Egli si è rivelato tale a Israele quando questi era lui uno straniero in Egitto. Proteggere lo straniero residente all’interno dei propri confini significa allora per Israele confessare la fede in Adonaj, il liberatore, il go’el. Al contrario, sfruttare gli immigrati, per Israele significherebbe adorare un altro dio, significherebbe cadere nell’idolatria.
    La lunga digressione sul testo veterotestamentario, testo che presenta una drammatica attualità, ci fornisce anche un esempio di quell’amore che la pagina evangelica chiede al credente. Se il cuore della Torah è amare Dio con tutto se stesso e il prossimo come se stesso, anche l’immigrato è prossimo da amare. Il comando presente nelle leggi veterotestamentarie “amerai l’immigrato come te stesso” (Lv 19,34; cf. Dt 10,19), non sostanzia forse il comando “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18) che Gesù pone al centro della Torah (Mt 22,39)? Certo, si tratta di un amore effettivo più che affettivo, di un amore certamente fatto di carità e di calore umano, ma soprattutto di concreti provvedimenti legislativi e interventi sociali, di giustizia e di diritti, nella coscienza che noi umani siamo dei simili ancora più e prima che degli altri. Se la chiesa, “ospedale da campo”, non può che riconoscere nell’immigrato un fratello, una sorella, la società civile è chiamata a mostrare il grado della propria civiltà nel prodigare ogni sforzo di intelligenza e di umanità in quell’opera di accoglienza e ospitalità che, per quanto problematico e faticoso, può porre le basi per un futuro di convivenza pacifica. Si tratta della traduzione in termini politici e sociali della parola amore.


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