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    Il vangelo secondo Luca testimonia una storia iniziata con l’annuncio dell’angelo a Zaccaria, sacerdote nel tempio di Gerusalemme (cf. Lc 1,5-25). La parola di Dio indirizzata a Zaccaria gli rivela non solo la nascita per lui di un figlio, ma anche la nascita di colui attraverso il quale Dio “visiterà e porterà la redenzione al suo popolo”: così, infatti, Zaccaria benedice il Signore (cf. Lc 1,68). Poi la rivelazione da parte di Dio raggiunge anche Maria di Nazaret: questa giovane vergine sarà la madre del Messia, e lo sarà per la potenza dello Spirito santo sceso su di lei per dichiarare che un Figlio così solo Dio lo poteva dare all’umanità (cf. Lc 1,26-38).
    “Si compiono” dunque “per Maria i giorni della gravidanza”, e si compiono mentre lei e Giuseppe si trovano a Betlemme, la città di David. Da Nazaret, dove abitavano, erano infatti saliti in Giudea, obbedienti al censimento imperiale ordinato da Cesare per tutta l’ecumene. Augusto, imperatore sebastós, cioè “degno di adorazione”, comanda sul mondo con tutta la sua forza e il suo potere, regna visibilmente, mentre il Figlio di Dio non solo nasce come tutti gli umani, nella fragilità e nella debolezza, ma nasce come figlio sconosciuto, fuori della sua terra, nella povertà di una stalla della campagna di Betlemme.
    Questo è lo scandalo dell’incarnazione di Dio! Le profezie che parlano di lui, lo preannunciano e lo acclamano, proprio alla sua nascita, come “bambino sulle cui spalle è il potere, il cui Nome è Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace” (cf. Is 9,5); e invece questo bambino appare debole, figlio di migranti, nato in incognito, senza che vi sia per lui un luogo degno, una casa! Il racconto di Luca, inoltre, è sobrio, essenziale, senza alcuna concessione allo straordinario. Una donna incinta partorisce un figlio in un riparo di pastori nella campagna di Betlemme. Sicché nessuno se ne accorge, nessuno di quelli che contano lo sa… Maria, la madre, lo partorisce nel dolore, come ogni donna, mentre il marito Giuseppe è là, solo, con lei; poi certamente deve averlo trattato come fanno tutte le madri con chi esce dal loro grembo, quindi lo ha avvolto in fasce e lo ha deposto in una mangiatoia per le pecore.
    Una nascita come tante e tra tante, eppure era la nascita di un uomo che solo Dio ci poteva dare, un uomo che era la forma stessa di Dio (cf. Fil 2,6), un uomo che era la Parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,14). Da quel momento Dio – possiamo dire – non solo era presente in mezzo a noi, ma era uno di noi, umanità della nostra umanità, fratello di ogni umano che è nel mondo. Ecco il grande mistero che celebriamo a Natale: l’Altissimo si è fatto bassissimo, l’Eterno si è fatto mortale, l’Onnipotente si è fatto debole, il Santo si è fatto solidale con i peccatori, l’Invisibile si è fatto visibile. In breve, Dio, cioè il non uomo, si è fatto umanità in Gesù, il figlio di Maria. Questo evento ha prodotto la crisi di ogni relazione nella quale Dio è Dio e l’uomo è un uomo, perché la trascendenza, la santità li separa. Con il Natale l’umanità è in Dio e Dio è nell’umanità, e non è più possibile dire e pensare Dio senza dire e pensare l’uomo. Proprio quel bambino dalla nascita fino alla morte racconterà Dio (cf. Gv 1,18: exeghésato) con la sua vita, le sue parole, il suo comportamento, con gli sguardi e le carezze, con le mani che abbracciano e curano, con il suo corpo offerto, dato, consegnato in mano ai violenti e ai malfattori.
    Questa è la singolarità del cristianesimo, che chiede alla fede cristiana di essere “una religione che continuamente esce dalla religione” (Marcel Gauchet), perché dopo questa nascita del Dio-uomo, prima c’è l’uomo e non il tempio,
    prima c’è l’uomo e non il sabato,
    prima c’è l’uomo e non la legge,
    prima c’è l’uomo santo e non la terra santa.
    Con questa nascita del Dio-uomo, che cosa può significare ancora l’espressione “Dio degli eserciti”, presente tante volte nei profeti e nei salmi, se Dio è un bambino disarmato? Che cosa può significare ancora l’espressione “Dio delle vendette” (Sal 94,1), se Dio è tra noi, debole a tal punto che noi umani dobbiamo avere cura di lui?
    Di questa rivelazione si fanno ministri i messaggeri di Dio, prima l’angelo che appare ai pastori, poi le schiere degli angeli che lodano Dio e riconoscono la sua gloria. Sì, proprio quei pastori, ritenuti indegni del culto al tempio e nelle sinagoghe, proprio quei pastori ritenuti ultimi nella società di Israele, sono i primi destinatari del Vangelo. A loro l’angelo del Signore, rischiarando le loro menti e i loro cuori, annuncia la buona notizia. Come già nel caso di Zaccaria (cf. Lc 1,19), si usa il verbo euanghelízomai, “portare la buona notizia del Vangelo”, ma qui in senso pieno e definitivo. È la buona e bella notizia annunciata a tutto il mondo, che da tanti secoli l’attendeva:
    Oggi a Betlemme, nella città di David,
    è nato per voi un Salvatore, che è il Messia Signore.

     


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