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    Teologia

    della solidarietà

    Armido Rizzi

    Tutto il volume presente è dedicato alla teologia della solidarietà. Perché allora concluderlo con un contributo che rivendica più strettamente questo titolo? Per quanto coordinate, le parti del volume si riferiscono agli aspetti diversi della solidarietà, senza metterne a tema l'unità; ed è invece proprio quest'istanza di unità che guida il saggio presente. Ancora: come ogni grande problematica antropologica, anche l'idea di solidarietà risente di quella crisi che investe oggi il pensiero occidentale, e ha dunque bisogno dì un esplicito ripensamento critico. Ecco: unitarietà e istanza critica sono le due esigenze che sollecitano e accompagnano la riflessione che tentiamo ora di svolgere; non senza qualche difficoltà di formulazione, che richiederà al lettore un po' di solidarietà – cioè di pazienza e di condivisione della fatica di pensare – nei confronti dell'autore.

    1. Il Dio di Israele:
    dalla solidarietà organica alla solidarietà personale

    1. Sono lontani i tempi in cui, da parte cristiana, si contrapponeva il Dio del Nuovo Testamento al Dio dell'Antico come Dio di amore rispetto a un Dio che incuteva ed esigeva soprattutto timore. Malgrado alcune zone d'ombra che ancora velano l'immagine di Dio nelle scritture ebraiche, non c'è dubbio che esse costituiscano una decisa innovazione nella concezione del divino, se le si mette a confronto con l'esperienza e le rappresentazioni religiose dei popoli vicini [1]. In questi, si tratti dell'Egitto, delle tribù di Canaan o dell'area mesopotamica, il divino è organicamente legato a una terra, a un popolo, a un complesso di istituzioni di cui costituisce il fondamento e la garanzia. Questo vale di Marduk a Babilonia come dei baalim in Canann come di Amon in Egitto: a ogni popolo il suo dio, a ogni dio il suo popolo. C'è come un cordone ombelicale che lega una divinità a una terra e ai suoi abitanti. A prima vista può sembrare che questo valga anche per Israele: non è qui che troviamo ripetute più volte affermazioni del tipo: «Voi siete il mio popolo e io sono il vostro Dio?». Non è qui che troviamo un popolo che si considera eletto, cioè legato a Dio da un vincolo speciale?
    In realtà, proprio nell'idea di elezione si profila una differenza di qualità del divino e della sua relazione con gli uomini, rispetto alle culture che circondano Israele. Elezione significa scelta, e include perciò una dimensione di libertà: il Dio di Israele ha scelto questo popolo tra tutti gli altri, non è il suo dio per definizione, per disposizione congenita; e lo ha scelto senza che particolari qualità – genetiche o etiche – di questo popolo lo movessero [2], dunque in assoluta libertà, se è vero che l'essenza della libertà è l'automotivazione.
    Quest'ultimo aspetto è scritto in lettere maiuscole nel racconto delle origini di Israele. Prima di essere popolo, dotato di una sua identità, esso è stato un gruppo di individui sottomessi; a definire la sua esistenza durante la permanenza in Egitto è una duplice condizione: di straniero e di schiavo. Straniero significa senza cittadinanza, senza appartenenza; perciò senza identità, secondo la logica di culture dove l'identità dell'individuo è data dall'appartenenza al gruppo. Schiavo significa subordinato a fini e progetti altrui, così da non potere disporre della propria vita. Potremmo dire: in quanto stranieri, gli ebrei in Egitto sono nessuno; in quanto schivi, sono cose.
    Allora, che Dio abbia scelto loro vuol dire che egli opera non soltanto con libertà assoluta ma con libertà d'amore, con gratuità, in forza della quale il Dio signore di tutta la realtà si lega in alleanza con un pugno di uomini e donne, e questi, da gente senza identità e libertà, diventano suo popolo.
    Con questo evento cambia la manifestazione del divino tra gli uomini; ma cambia anche, di conseguenza, il profilo della solidarietà. In ogni cultura premoderna la solidarietà è il tessuto ontologico che lega tra loro tutti gli esseri – dèi, uomini e cose – antecedentemente a ogni decisione umana, a ogni patto sociale. È la natura stessa a tessere questa trama di solidarietà; il che vuol dire, nel sentimento e linguaggio religioso di tutte quelle culture, che essa è sacra e che la divinità ne è l'espressione suprema.
    Ma altre ancora sono le caratteristiche salienti di questa solidarietà. Anzitutto, essa appartiene all'ordine della necessità, alla forza delle cose, alla legge costitutiva del mondo: una legge cui anche gli dèi sono sottomessi. E poi, questa solidarietà ha carattere locale: quello che noi chiamiamo, con categoria filosofica generale, cosmo o natura, è sempre un determinato habitat naturale e un ben localizzato raggruppamento sociale: è una città o un'anfizionia o un impero. Nell'ambito umano questa solidarietà ha anche un carattere di norma, perché gli uomini possono sbagliare e adottare comportamenti che mettano a rischio l'unità dell'insieme; ma la norma si coestende all'area di solidarietà già naturalmente data: sii solidale con coloro che sono dello stesso tuo gruppo, piccolo o grande che sia.
    Do a questa figura di solidarietà il qualificativo di organica, perché le varie componenti vi sono e vi si sentono unificate come le membra di un organismo, e ognuna di esse – non esclusa la divinità – è se stessa soltanto in quanto è parte di quest'organismo, vivo e articolato.
    La rivoluzione spirituale e storica che YHWH (è questo il suo nome) inaugura con l'elezione di Israele consiste nell'apparire di una solidarietà inaudita (così singolare che ancor oggi stentiamo a coglierne la novità e finiamo per ricondurla e ridurla ad altro): una solidarietà sotto il segno della libertà invece che della necessità, nello spazio universale della famiglia umana invece che nel perimetro di una collettività e di una cultura.
    Libertà: farsi solidale di stranieri e di schiavi non risponde a un bisogno di Dio, a un impulso della sua «natura» o a una legge dell'essere; è un atto di dilezione con cui egli si china sulla sofferenza di piccoli umani con nessun'altra ragione che la volontà di lenire quella loro sofferenza. Soltanto in seguito a questa decisione divina la solidarietà diventa la legge delle relazioni tra gli uomini; a differenza degli dèi extrabiblici, YHWH non obbedisce a un principio generale e impersonale di solidarietà ma pone il principio come conseguenza della propria scelta originaria e personalissima: perciò ancora, il principio-solidarietà che egli instaura mantiene lo stesso carattere personale di quel suo gesto inaugurale.
    Secondo una suggestiva tradizione rabbinica, YHWH ha stipulato con gli ebrei nel deserto non una sola alleanza ma tante quante essi erano: una con ognuno di loro. Anzi, il loro numero al quadrato, perché essa era l'alleanza di ognuno con ognuno. La solidarietà biblica non fa sistema, non è una rete dentro la quale ognuno sia una maglia, ma una possibile rete di cui ognuno tesse un possibile filo. In quanto solidarietà personale, e a differenza di quella organica, la solidarietà biblica non è l'espressione hic et nunc di una logica scritta nei rapporti sociali, ma la riproduzione puntuale della logica con cui il Dio di Israele ha accolto chi non era nessuno perché era al margine di quei rapporti.
    Ma proprio perché liberamente donata, la solidarietà personale è qualitativamente universale. Si può dire, con un'espressione che una certa moda sta logorando, che essa si rivolge all'«altro» nel senso radicale del termine: a colui al quale nulla mi lega in precedenza, allo sconosciuto, a chi mi è «straniero». Bisogna essere ancor più precisi: la solidarietà personale si rivolge a qualunque individuo, noto o ignoto, vicino o lontano, ma in quanto non appartiene al mio mondo, in quanto è se stesso, in cerca di una identità sua, aldilà di ogni rapporto o sistema di rapporti già istituito. Perciò dicevo che si tratta di solidarietà universale: se la localizzazione è dovuta al riconoscimento della comune appartenenza, l'universalità nasce dal trascendere l'appartenenza, dall'aderire all'altro in quanto altro. Alla prossimità come relazione già esistente, su cui misurare il comandamento dell'amore, («ama il prossimo tuo») subentra il «farsi prossimo», la prossimità attiva, creatrice di una nuova relazione, di cui il comandamento d'amore è il ponte («fatti prossimo all'altro, ama lo straniero») [3].

    2. Si è detto che la solidarietà organica caratterizza le società premoderne. Con l'avvento della modernità si fa strada una nuova condizione antropologica, dove il punto di partenza non è più il collettivo, il corpo sociale, ma l'individuo. Tra le cause che determinano questa mutazione possiamo ricordare almeno lo spirito di iniziativa della nascente borghesia mercantile e l'accentuazione della coscienza individuale nelle chiese scaturite dalla Riforma.
    Per la modernità, la solidarietà è un problema. Se al principio è l'individuo, come si forma la società? Quale tipo di relazione lega tra loro individui inizialmente irrelati?
    La prima risposta è il contratto (o patto) sociale. Il legame interindividuale, invece che frutto della natura stessa degli uomini, è un prodotto della loro volontà. Gli individui hanno bisogno l'uno dell'altro ma insieme si temono; è necessario allora fissare delle regole di convivenza: patti chiari amici cari. Invece di una illusoria solidarietà spontanea, la forza della legge di fronte alla quale tutti sono uguali e che tutti sono ugualmente tenuti a rispettare; invece dell'amore come vincolo naturale, il diritto come regolamentazione artificiale ma necessaria.
    La coscienza moderna è però troppo avvertita per non accorgersi che le leggi prodotte dagli uomini, invece di tutelare la loro iniziale uguaglianza di individui, esprimono e difendono gli interessi dei più forti o dei più abili. La società frutto di un patto non può che essere figlia dell'arbitrio. A meno che il patto stesso non sia l'espressione di una realtà più profonda, di una vocazione che inerisce alla natura stessa degli individui. Ed ecco il grande sogno della modernità matura: l'individuo sociale, non più perché parte di un organismo societario già esistente ma perché portatore di una vocazione universale che si realizzerà attraverso le sue decisioni. Salvare la conquista moderna del primato dell'individuo coniugandola con la fede premoderna nella socialità della natura umana: è questo il programma dell'illuminismo e poi, soprattutto, del marxismo. Detto in altri termini: realizzare una socialità che non significhi più gerarchizzazione, istituzione di livelli e di ruoli naturali (com'era nella società organica, in analogia con le membra nel corpo) ma uguaglianza dei componenti.
    E poiché tale programma non è un optional ma esprime il movimento profondo di tutta la storia umana, si carica di una nota di necessità e diventa profezia, racconto al futuro: il «grande racconto» di un'umanità dove tutti gli uomini saranno insieme liberi, uguali e solidali (libertà, uguaglianza e fraternità).
    Quando ci si chiede che cosa non ha funzionato nel tentativo di dar vita a questi racconti, si possono facilmente trovare errori di per( orso, di per sé correggibili; ma si può anche individuare un equivoco di fondo, che tocca la definizione stessa dell'individuo umano, ed è un residuo di naturalismo antropologico. Malgrado l'esaltazione della libertà, illuminismo e soprattutto marxismo si muovono ancora sotto il segno della necessità; solo che, invece della necessità della natura e degli dèi che la popolano, si ha qui la necessità della storia, con la prassi umana (rivoluzione) come sua mediatrice («levatrice»). L'uomo solidale non è ancora realtà, è possibilità; non appartiene alla storia delle culture e civiltà passate (che ne erano soltanto l'involontaria parodia) ma al futuro. Ma quel futuro, una volta raggiunto, avrà lo stesso tratto di fondo di quei passati, anzi lo avrà in forma assoluta: nella società compiutamente realizzata l'individuo sarà diventato spontaneamente solidale, perché nella solidarietà si dispiega la vera natura dell'uomo finalmente a misura di se stessa.
    Se confrontiamo questo racconto della modernità con il racconto biblico, ci appare subito che la differenza sostanziale ricalca, in versione aggiornata, quella che corre tra solidarietà organica e solidarietà personalistica. L'utopia moderna è l'idea premoderna di ordine liberata dalla dimensione gerarchica, sottoposta al principio dell'evoluzione e proiettata alla fine della storia; la libertà vi è vista come un cammino di liberazione dalle necessità materiali, dalle subordinazioni politiche e dalle oscurità mentali; cammino il cui soggetto è l'intera umanità (con l'Europa come sua punta avanzata) e il cui esito è la socialità diventata disposizione naturale, diffusa, invincibile.
    Nel racconto biblico la libertà è destinata a restare sempre in gioco, perché essa è prima di tutto l'individuo che, illuminato dalla parola-legge di Dio, si trova di fronte al bivio tra bene e male, tra giustizia e colpa, tra solidarietà ed egoismo.
    Nel racconto moderno l'individuo solidale sarà frutto dei nuovi rapporti sociali, nel racconto biblico i rapporti sociali sono sempre il frutto delle scelte individuali. Nessuna società sarà mai così buona da produrre individui buoni [4].
    Non manca, è vero, nella Bibbia la visione utopica di un'umanità tutt'intera illuminata dalla legge di Dio e, sembrerebbe, ormai definitivamente insediata nella città del bene e del giusto [5]. Ma tale condizione viene attesa e invocata come puro dono di Dio, a cui l'uomo si può preparare con le sue piccole quotidiane pratiche di giustizia e di solidarietà. Nella storia - vale a dire nello spazio affidato alla responsabilità dell'uomo - libertà è sempre scelta, è un cammino dall'esito sempre aperto; così che libertà e natura sono termini alternativi, e la solidarietà si connette sempre al primo dei due.
    Un'identificazione tra libertà e natura, cioè una bontà che sia connaturale e tuttavia libera, è per la nostra mente un concetto-limite, che possiamo applicare soltanto a Dio. Il segreto della modernità, almeno nella sua corrente centrale, è di essersi appropriata degli attributi divini rendendoli predicati dell'uomo, del «genere umano». Il primo passo di quella che viene chiamata la «secolarizzazione» non è l'eclissi di Dio dal mondo umano ma la sua assimilazione dentro di esso, la sua immanentizzazione dentro la storia come legge di sviluppo emancipativo, il cui traguardo è l'umanità giusta e felice: piena manifestazione dell'essenza umana e epifania del divino.
    Per questa ragione mi sembrano inaccettabili anche le due attuali «teodicee secolarizzate», cioè i due tentativi di giustificare il dio-fallito, rispettivamente sul piano dell'illuminismo (democrazia) e del marxismo (comunismo). Nel primo caso si distingue tra il progetto illuminista e la sua esecuzione, rivelando lo scarto enorme tra i due (la «modernità incompiuta») e proponendo una ripresa autentica del progetto nella forma di democrazia compiuta. Nel secondo, si distingue tra comunismo ideale e regimi comunisti, intendendo salvare e rilanciare il primo aldilà della fragorosa caduta di questi.
    Chi scrive si rifiuta sia si dedurre le incompiutezze (da una parte) e il fallimento (dall'altra) dai rispettivi principi, come se la storia fosse lo svolgimento coerente e rigoroso di idee invece del viluppo pressoché inestricabile di mozioni individuali e collettive; sia di mettere i rispettivi scarti tra principi e realizzazioni unicamente sul conto di circostanze fortuite o di stravolgimenti operativi di idee in sé giuste. Tra principi e realizzazioni della modernità c'è un nesso reale anche se non quantificabile. In ogni caso, c'è un'illusione antropologica che avvelena già i principi, ed è l'ottimismo teorico sia della modernità illuminista che dell'utopia comunista. La visione biblica non è né ottimista né pessimista, perché queste due qualifiche appartengono all'uomo come natura, mentre nel racconto biblico l'uomo è, dentro ma aldilà del suo apparato naturale, libertà di decisione. E la caratura divina della solidarietà è proprio nel suo essere sempre «davanti» alla libertà, come sua posta in gioco positiva ma sempre fallibile.

    2. Gesù Cristo: un Dio di pace

    1. Nel racconto ebraico-cristiano, che cosa aggiunge il secondo aggettivo al primo per quanto attiene alla solidarietà? Un Dio che si rivela come pura gratuità, come solidarietà offerta in libertà personalissima, e che su di essa impianta il coesistere umano facendone dono e compito per ogni individuo, non ha con questo esaurito - in ampiezza e in altezza - le possibilità di relazione? Amare l'altro nella sua ricerca di identità (o - che è tutt'uno - nella sua identità) non è instaurare una qualità d'amore che non può essere superata né ha bisogno di esserlo?
    A questa domanda di taglio teorico ha risposto abbondantemente la storia degli uomini: l'altro può farsi nemico, può rifiutare il dono d'amore e contrastarlo, negando non soltanto la relazione con te ma, in essa, lo stesso principio di solidarietà.
    Il racconto biblico dice che questo gesto di negazione è avvenuto e, addirittura, che esso ha coinvolto l'intera storia umana; poi, facendosi racconto evangelico, dice che Dio vi ha risposto in Gesù Cristo opponendo al rifiuto quella nuova figura d'amore che è il perdono, quella nuova forma di solidarietà che è la riconciliazione. Ma procediamo con ordine.
    «Avete inteso che vi fu detto: "Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico"; ma io vi dico: "Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 43-45).
    Questo detto del discorso della montagna può essere interpretato in due modi, adiacenti ma differenti. L'opposizione prossimo-nemico può far perno sul primo dei due termini, così che «nemico» è semplicemente una variante di «altro»: colui che è fuori dello spazio della prossimità, e nei cui confronti non vale perciò il comandamento dell'amore. In tal caso, odiare il nemico significa non amarlo, alzare nei suoi confronti il muro dell'indifferenza, escludendolo da quella relazione di solidarietà che riguarda, appunto, i prossimi. Secondo questa lettura, l'intervento di Gesù riporta la legge alla sua ampiezza originaria, che dall'amore non esclude nessuno riproducendo l'universalità dell'amore divino.
    Ma nell'antitesi prossimo-nemico l'accento può anche cadere su «nemico», sottolineando una condizione che non è soltanto di lontananza ma di ostilità, non tanto di esteriorità alla relazione quanto di rottura della relazione. Allora il problema non è più di dilatare la relazione quanto di ricostituirla: come il nemico non è una variante dell'«altro» ma una positiva forza di negazione, così l'amore al nemico non è una variante della gratuità ma una nuova potenza d'amore: è la riconciliazione.
    Quando, nello stesso discorso della montagna, Gesù dice di essere venuto non per abolire la legge ma per portarla a compimento, queste parole possono essere interpretate in ambedue le direzioni indicate: come estensione dell'amore dal prossimo all'altro e come innovazione dell'amore al nemico. I due motivi sono fittamente intrecciati, perché la lettura che Israele ha fatto della propria elezione in chiave esclusiva non soltanto lascia fuori i pagani ma li connota della negatività di nemici: nemici suoi perché nemici di Dio. E poi ancora: perfino al proprio interno i gruppi emarginati – i pubblicani, le prostitute, gli ignoranti, ecc. – sono, prima ancora che declassati socialmente, marchiati religiosamente (il che vale in certo senso anche delle donne e dei bambini). Perciò la reazione di Gesù in nome dell'amore del Padre investe insieme i due aspetti: si muove a un tempo sul piano dell'integrazione sociale e della reintegrazione religiosa, della solidarietà come giustizia (fraternità, uguaglianza ecc.) e della solidarietà come riconciliazione.
    Ma l'elemento che tutto sottende, nella predicazione di Gesù e nella sua prassi, è quest'ultimo: ristabilire la comunione di Dio con i peccatori è l'atto fondatore anche della nuova società. Le esaltazioni di Gesù nemico del perbenismo e sovvertitore dei codici sociali dominanti rischiano di passare a fianco dell'«Evangelo», anzi addirittura di snaturarlo quando alla base del comportamento di Gesù pongono un improbabile trasgressivismo, una naturale simpatia per i devianti: per la prostituta, per il figliol prodigo, per il ladrone, e una detestazione per le persone perbene: il fariseo, il fratello maggiore, il giovane ricco.
    L'Evangelo non è la scelta tra le due umane possibilità del perbenismo e della trasgressione, ma l'annuncio di una terza, umanamente impensabile: il perdono divino come miracolo: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15, 32). Gesù non siede a tavola con i peccatori per dire che essi sono i veri innocenti ma per notificare che Dio li accoglie nel suo abbraccio. E l'errore dei farisei che mormorano, del figlio maggiore che protesta, non è di credersi più giusti dei pubblicani e del fratello libertino; è di rifiutare il miracolo della nuova creazione che chiama anche i peccatori alla giustizia e li accoglie nella casa del Padre [6].

    2. Ma il racconto cristiano non si ferma a parole e azioni di Gesù di Nazareth. Esso dice che il gesto di sedere a tavola con i peccatori, aldilà degli episodi del breve ministero pubblico di Gesù, si è universalizzato nella sua morte: qui il Padre ha accolto l'umanità peccatrice, ha abbattuto il muro di separazione che gli uomini avevano innalzato tra lui e loro all'interno della stessa comunità umana (Ef 2), facendo ormai della riconciliazione il gesto inaugurale di ogni rapporto umano positivo [7]. Se il Dio dell'Esodo aveva disegnato come orizzonte della storia umana la solidarietà con l'altro, aldilà di ogni appartenenza di gruppo, il Dio di Gesù Cristo la ridisegna come solidarietà con il nemico, aldilà di ogni opposizione e di ogni offesa. E come la prima solidarietà rappresenta una tra-svalutazione di ogni ordine di rapporti introducendoli nello spazio della gratuità divina, così la solidarietà con il nemico è possibile soltanto come partecipazione all'atto di riconciliazione universale avvenuto nella croce di Gesù. La distanza che la solidarietà verso l'altro deve superare è l'indifferenza; la distanza che si spalanca nei confronti del nemico è l'odio. Perché il nemico è cosa divesa dall'antagonista, dall'avversario: queste sono categorie profane, che esprimono conflitti di interesse nell'ordine mondano, mentre il nemico è – magari in forma subliminale – una categoria sacra: è colui che ha violato un valore superiore: l'onore, la patria, la religione, la causa (rivoluzione o altro).
    Sono sempre più convinto che non ci sia violenza che venga perpetrata con lucida e distaccata considerazione puramente strumentale: perché mi fa comodo, perché ne traggo vantaggio. C'è sempre un'aureola che circonda la nostra violenza, una tremenda aureola giustizialista. C'è sempre un «gliela faccio pagare» che presuppone un'ordine leso e reintegrabile appunto attraverso la violenza. Esemplare è, da questo punto di vista, la vicenda dell'Europa moderna: inventato lo stato laico per metter fine ai conflitti religiosi, la violenza si disloca nella guerra tra gli stati, una guerra inizialmente tutta profana, che sente però il bisogno di risacralizzarsi attraverso l'idea di patria («morire per la patria»); e se l'utopia comunista vuol superare stato e patria verso una società universale e dunque pacifica, lo strumento necessario per la sua realizzazione è ancora la violenza in forma di rivoluzione; per non dire, più tardi, dell'olocausto offerto sull'altare della sacralità della razza. Più vicini a noi, i corporativismi, la xenofobia, la difesa del benessere acquisito sono fenomeni che, pur appartenendo all'ordine degli interessi, vengono investiti di un senso ulteriore, che penetra nell'ordine dei valori: sono interessi «giusti», cioè diritti, anzi «sacrosanti diritti». La vera mina vagante nella storia è la sacralizzazione della violenza. Non la si può disinnescare una volta per tutte, ma solo nella storia di ogni cuore, perché «è dal cuore degli uomini che escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose vengono dal di dentro e contaminano l'uomo» (Mc 7, 21-23).
    Certo, secondo il racconto cristiano, la riconciliazione avvenuta nella morte di Gesù è una e irripetibile. Ma essa non ha bandito dalla storia la violenza; ha gettato nel cuore dell'uomo, di ogni uomo, il seme attivo della pace, il principio militante della riconciliazione puntuale e sempre rinnovabile.

    3. Solidarietà e laicità

    Collegare la solidarietà al racconto biblico dell'Esodo e al racconto evangelico di e su Gesù equivale a radicarla nella storia di Dio con gli uomini, e a vedere in essa la condizione di possibilità di una storia umana solidale. Sembrerebbe allora che solo il riferimento al racconto biblico possa dare solidarietà interumana un'intenzionalità autentica, e che, sganciata da tale riferimento, ogni volontà di costruire rapporti solidali sia destinata a finire nella sfera delle velleità, generose ma impotenti.
    Pensare così sarebbe, però, trarre una conclusione indebita da quanto abbiamo detto sinora. Collegare la solidarietà al racconto biblico non è sinonimo di affermare la confessionalità come suo requisito necessario, negando dunque verità a una sua possibile figura laica. L'opposizione tra confessionalità dei valori etici e loro laicità appartiene all'autocomprensione della modernità, che, per reazione, anche la teologia cristiana ha fatto propria; ma la crisi della modernità comporta anche una crisi di quell'opposizione e un ripensamento da capo di tutto il problema. E proprio il tema della solidarietà è il più idoneo a proporre e ispirare tale ripensamento.

    1. Possiamo partire da un testo evangelico che, esemplare sotto molti punti di vista, lo è anche a proposito del rapporto tra fede e laicità: si tratta del dibattito tra Gesù e un rabbino, nel corso del quale Gesù racconta la parabola detta solitamente del buon samaritano: Lc 10, 25-37 [8]. L'episodio può essere letto a tre livelli, che chiamerò rispettivamente laico, biblico, cristologico.
    Se leggiamo il testo della parabola, notiamo senza difficoltà che esso non contiene alcuna indicazione religiosa. Né lo svolgimento dell'intervento solidale («vide... si avvicinò...») né il suo motivo («ebbe compassione») né il suo soggetto (il samaritano) presentano elementi che possano far pensare all'influsso di una fede o di una credenza. Semmai, l'elemento religioso ne riceve una connotazione negativa, sia attraverso la presenza dei due addetti al culto – il sacerdote e il levita – che tirano dritto per la loro strada abbandonando il ferito alla sua sorte, sia attraverso la scelta narrativa di un samaritano – figura religiosamente spuria – in funzione di modello positivo. Comunque, questo aspetto di critica alla religione fa soltanto da sfondo al messaggio sostanziale della parabola che è il comportamento solidale del samaritano nella sua intrinseca consistenza «laica». In tale comportamento si disegna esemplarmente quella che abbiamo chiamata solidarietà personalistica in antitesi alla solidarietà organica: invece di «amare il prossimo» (amore di coappartenenza) il samaritano «si fa prossimo» allo sconosciuto, a quell'anonimo («un tale») che è per lui semplicemente l'«altro».
    Ma questo racconto così compiutamente laico è inserito nel contesto di una discusione che ne fa emergere la valenza decisamente religiosa. Si tratta infatti del problema della salvezza («ereditare la vita eterna») e del «che fare» per ottenerla. «Maestro, che devo fare...?» (v. 25) - «Va' e fa' anche tu lo stesso» (v. 37): queste due brevi proposizioni scandiscono, a modo di domanda e di risposta, l'inizio e la fine del racconto evangelico. Ma c'è di più: alla domanda viene data una prima risposta, classica, che suona: Amare Dio con tutto il cuore e con tutte le forze; e poi la risposta originale di Gesù, che consiste nella narrazione della parabola [9]. Dunque, il «fare» del samaritano, che si ferma e raccoglie il ferito e lo fa curare fino alla completa guarigione, è la realizzazione dell'osservanza della legge, cioè dell'amare Dio con tutto il cuore e con tutte le forze, che a sua volta è la condizione per ottenere la salvezza. Sebbene quest'interpretazione della legge differisca da quella del rabbino, Gesù non fa che riportare la legge stessa al suo tenore originario: a quell'identità tra amore-obbedienza a Dio e amore-solidarietà verso l'altro che è il segreto della religione e dell'etica biblica.
    Se articoliamo i due livelli di lettura, vediamo come l'atto di solidarietà, intrinsecamente laico, sia al tempo stesso atto eminentemente religioso, in quanto amore a Dio super omnia e condizione di salvezza.
    Possiamo aggiungere una terza lettura. Quando Luca scrive il suo vangelo, egli crea alla parabola un nuovo contesto, più ampio della discussione tra Gesù e il rabbino: un contesto che è il Vangelo stesso nella sua totalità, dove gli interlocutori sono l'evangelista e i suoi lettori, e dove Gesù non è più soltanto il Maestro che insegna ma il Signore che opera in nome di Dio. Alla luce di questa totalità, la «compassione» che muove il samaritano a farsi solidale si connette a quella che muove il Padre di un'altra parabola ad andare
    incontro al figlio perduto e ad accoglierlo nell'abbraccio del perdono («si commosse...»: Lc 15, 20); e poi ancora, a quella di Gesù che, «mosso da compassione» alla vista di una vedova cui la morte ha strappato il figlio adolescente, lo risuscita e glielo restituisce (Lc 7, 12-15). Luca sembra qui insinuare che nella motivazione, così sobriamente indicata, del samaritano dell'agire si annida la stessa qualità d'amore che Dio ha manifestato in Gesù Cristo, sigillando il gesto dell'originaria solidarietà nel gesto dell'irreversibile riconciliazione.

    2. Ma come è possibile che un atto squisitamente laico sia anche religioso o addirittura cristologico? Dicevo che si tratta di pensare da capo il problema del rapporto tra laicità e religione. Più esattamente, si tratta di ripensare al laicità oltre la stretta in cui l'ha conquistata (e questo è il suo merito) e chiusa (e questo è il suo limite) la coscienza moderna.
    Abbiamo già visto come la modernità sia stata il grande tentativo di realizzare una società giusta e felice, e come questo tentativo sia abortito per il difetto che la minava alla base: quello di concepire l'uomo come natura (cioè necessità) invece che come libertà di decisione; se vogliamo: come processo necessario verso la libertà. Ora possiamo aggiungere: un processo necessario può essere guidato in proporzione alla conoscenza che se ne ha: e l'uomo moderno, rivendicando la «ragione» come principio dell'agire, credeva di aver acquisito un sapere-potere virtualmente esaustivo del processo storico di emancipazione: sia per quanto riguarda i mezzi (il sapere-potere di scienza e tecnologia) che nell'ordine dei fini (il sapere-potere del progetto etico-politico). Alla sapienza divina conosciuta per rivelazione subentrava il sapere razionale: era l'avvento della laicità.
    Così anche - e soprattutto - la solidarietà diventava laica in quanto si affidava alla guida della ragione, che la inscriveva dentro il processo storico universale di emergenza dell'umano, di necessaria evoluzione dal regno della necessità (= della dipendenza) al regno della libertà (= dell'autonomia); oppure dentro il quadro generale delle leggi di natura. In un caso come nell'altro, la solidarietà acquistava validità «scientifica».
    E scientifica voleva dire dotata di valore oggettivo perché fondata nell'ordine delle cose (della natura e/o della storia), di cui la ragione era indagatrice e testimone e custode. Di conseguenza, soltanto questa solidarietà aveva diritto a un riconoscimento pubblico perché intrinsecamente dotata di vigenza normativa; viceversa una solidarietà, e in generale un'etica, a base religiosa non poteva che essere un comportamento privato, così come la religione stessa -qualunque religione - è un'opinione privata. L'etica laica, in quanto razionale, era l'etica umana tout-court, cioè vera e universale; l'etica religiosa, in quanto confessionale, era soggettiva e particolare.
    La crisi della ragione è anche crisi dell'etica laica, crisi della solidarietà su base razionale. Molti non se ne accorgono, o fingono di non accorgersene; altri cercano di sfruttare la crisi per un ritorno all'egemonia dell'etica religiosa [11].
    A me sembra che la crisi della ragione sia il kairos per radicalizzare l'idea di laicità su quella linea di cui la parabola del samaritano è espressione metaforica.
    Quella che abbiamo chiamato la lettura laica della parabola ha il suo perno in una motivazione che è sì aconfessionale ma è, altrettanto, pre-razionale: la compassione. Se all'atto del samaritano manca un esplicito riferimento religioso, ancor più gli manca un riferimento teorico, un quadro razionale-scientifico entro cui inserire il proprio intervento per riceverne la validazione.
    C'è un'accezione di laicità che è questo nodo di luce esperienziale, questa mozione che, anteriormente a ogni discorso e a ogni spiegazione, mi fa cogliere nell'altro che ha bisogno di me una presenza assoluta. Vedo formulata questa stessa esperienza in un profilo autobiografico recente: «Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi» [12]. L'espressione «non c'è cosa più importante» è un giudizio di valore tanto perentorio quanto esente da inscrizioni dentro visioni del mondo: è come la soglia stessa dell'eticità.
    Che senso hanno, allora, le visioni del mondo, sia religiose che secolari? Esse sono i grandi racconti che interpretano l'evento etico, che cercano di annunciarne ed evidenziarne l'essenza, l'origine, la destinazione. Che sono poi la rivelazione della stessa essenza, origìne, destinazione dell'uomo, la risposta alle domande: chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? Queste domande non trovano risposta nelle analisi dell'essere umano sotto il profilo fisico, biologico o storico-progettuale; soltanto la luce presente nell'etica, nell'appello alla solidarietà, offre un dono di senso da interpretare oltre l'enigmatica (attualità dell'esistere.
    Ma proprio perché interpretazioni, le visioni del mondo non sono parole fondanti: esse dicono il fondamento, non lo costituiscono. Questo vale anche della visione cristiana: il racconto su Israele e su Gesù Cristo dice la storia reale di Dio come atto fondativo e rifondativo, ma non è questo atto. La narrazione della storia non è la storia. E perciò, essa lascia spazio anche ad altre narrazioni: non perché rinunci alla verità ma perché sa che tra verità e interpretazione c'è un'identità che non può eliminare lo scarto tra le due.
    L'etica solidale è dunque il luogo ecumenico per eccellenza [13]; è il luogo in cui l'individuo umano diventa uomo planetario non per autoespansione ma per autodonazione [14].

    4. Dalla solidarietà naturale alla promessa di risurrezione

    Dovrebbe essere ormai chiaro che la solidarietà data all'altro nella gratuità/necessità dell'incontro etico è cosa ben diversa da quel mondo di sentimenti e di interessi che spontaneamente ci lega a determinati individui e gruppi, e che costituisce la solidarietà naturale, oggetto d'attenzione e di analisi dello psicologo, del sociologo, dello stesso filosofo sociale. Ma con altrettanta chiarezza si deve affermare che tale distinzione non vuol essere né una condanna né una svalutazione di quest'altra forma di solidarietà. Se abbiamo della libertà (= dell'autonomia); oppure dentro il quadro generale delle leggi di natura. In un caso come nell'altro, la solidarietà acquistava validità «scientifica».
    E scientifica voleva dire dotata di valore oggettivo perché fondata nell'ordine delle cose (della natura e/o della storia), di cui la ragione era indagatrice e testimone e custode. Di conseguenza, soltanto questa solidarietà aveva diritto a un riconoscimento pubblico perché intrinsecamente dotata di vigenza normativa; viceversa una solidarietà, e in generale un'etica, a base religiosa non poteva che essere un comportamento privato, così come la religione stessa -qualunque religione - è un'opinione privata. L'etica laica, in quanto razionale, era l'etica umana tout-court, cioè vera e universale; l'etica religiosa, in quanto confessionale, era soggettiva e particolare.
    La crisi della ragione è anche crisi dell'etica laica, crisi della solidarietà su base razionale. Molti non se ne accorgono, o fingono di non accorgersene; altri cercano di sfruttare la crisi per un ritorno all'egemonia dell'etica religiosa [11].
    A me sembra che la crisi della ragione sia il kairos per radicalizzare l'idea di laicità su quella linea di cui la parabola del samaritano è espressione metaforica.
    Quella che abbiamo chiamato la lettura laica della parabola ha il suo perno in una motivazione che è sì aconfessionale ma è, altrettanto, pre-razionale: la compassione. Se all'atto del samaritano manca un esplicito riferimento religioso, ancor più gli manca un riferimento teorico, un quadro razionale-scientifico entro cui inserire il proprio intervento per riceverne la validazione.
    C'è un'accezione di laicità che è questo nodo di luce esperienziale, questa mozione che, anteriormente a ogni discorso e a ogni spiegazione, mi fa cogliere nell'altro che ha bisogno di me una presenza assoluta. Vedo formulata questa stessa esperienza in un profilo autobiografico recente: «Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi» [12]. L'espressione «non c'è cosa più importante» è un giudizio di valore tanto perentorio quanto esente da inscrizioni dentro visioni del mondo: è come la soglia stessa dell'eticità.
    Che senso hanno, allora, le visioni del mondo, sia religiose che secolari? Esse sono i grandi racconti che interpretano l'evento etico, che cercano di annunciarne ed evidenziarne l'essenza, l'origine, la destinazione. Che sono poi la rivelazione della stessa essenza, origine, destinazione dell'uomo, la risposta alle domande: chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? Queste domande non trovano risposta nelle analisi dell'essere umano sotto il profilo fisico, biologico o storico-progettuale; soltanto la luce presente nell'etica, nell'appello alla solidarietà, offre un dono di senso da interpretare oltre l'enigmatica fattualità dell'esistere.
    Ma proprio perché interpretazioni, le visioni del mondo non sono parole fondanti: esse dicono il fondamento, non lo costituiscono. Questo vale anche della visione cristiana: il racconto su Israele e su Gesù Cristo dice la storia reale di Dio come atto fondativo e rifondativo, ma non è questo atto. La narrazione della storia non è la storia. E perciò, essa lascia spazio anche ad altre narrazioni: non perché rinunci alla verità ma perché sa che tra verità e interpretazione c'è un'identità che non può eliminare lo scarto tra le due.
    L'etica solidale è dunque il luogo ecumenico per eccellenza [13]; è il luogo in cui l'individuo umano diventa uomo planetario non per autoespansione ma per autodonazione [14].

    4. Dalla solidarietà naturale alla promessa di risurrezione

    Dovrebbe essere ormai chiaro che la solidarietà data all'altro nella gratuità/necessità dell'incontro etico è cosa ben diversa da quel mondo di sentimenti e di interessi che spontaneamente ci lega a determinati individui e gruppi, e che costituisce la solidarietà naturale, oggetto d'attenzione e di analisi dello psicologo, del sociologo, dello stesso filosofo sociale. Ma con altrettanta chiarezza si deve affermare che tale distinzione non vuoi essere né una condanna né una svalutazione di quest'altra forma di solidarietà. Se abbiamo detto che il comandamento dell'amore non è, propriamente, «ama il prossimo» ma «ama lo straniero», questa precisazione non voleva né negare l'esistenza di un amore ai prossimi né delegittimarla o ridurla a dato eticamente e teologicamente insignificante; voleva soltanto indicare che l'amore all'altro istituisce un orizzonte di trascendenza su ogni forma di legame connaturato all'esistere e coesistere umano. La distinzione tra i due livelli di solidarietà non intendeva degradare il primo ma evidenziare la superiore qualità del secondo.
    L'ultima parte del nostro abbozzo teologico sulla solidarietà intende lumeggiare alcuni elementi di questo confronto.

    1. Anzitutto, è possibile anche una teologia della solidarietà naturale. Non resisto alla tentazione di riportare una pagina di Erasmo di Rotterdam, dove egli vede scritta nella stessa costituzione fisica e psichica dell'uomo la vocazione di questi all'amore e alla pace.

    Se uno prende a considerare il portamento e la figura del corpo umano, capisce subito che la natura o, meglio, Dio, ha generato questo essere animato, non per la guerra ma per l'amicizia, non per la rovina ma per la salvezza, non per offendere ma per giovare. Fornì, infatti, ognuno degli altri animali di armi proprie. All'impeto del toro dette le corna, alla rabbia del leone gli artigli... Negli animali ha istillato avversioni originarie. Soltanto l'uomo ha fatto nudo, debole, tenero, inerme, con la carne morbida e la pelle sottile, con nelle membra nulla che possa sembrare adatto alla lotta e alla violenza. Per non dire che gli altri animali quasi dalla nascita bastano a mantenersi, mentre solo l'uomo per molto tempo dipende dall'aiuto altrui. Non sa né parlare, né camminare, né cibarsi; è capace soltanto di implorare soccorso con i suoi vagiti, così che anche da questo si può capire che solo lui nasce per l'amicizia, che si fonda e si sviluppa soprattutto nel reciproco appoggio. È stata dunque la natura stessa a volere che l'uomo fosse debitore del dono della vita, non tanto a se stesso quanto alla benevolenza altrui; è stata la natura a fargli capire che egli è nato alla gentilezza e all'amore. Così gli ha dato un aspetto non tristo né ripugnante, come agli altri, ma mite e pacifico, con i segni dell'amore e della benevolenza. Gli ha assegnato occhi dolci, espressione dell'anima; braccia fatte per abbracciare e il gusto del bacio in cui le anime si incontrano e quasi si toccano. A lui soltanto ha dato il riso, segno di gioia; a lui solo le lacrime, che esprimono clemenza e misericordia. Gli ha dato una voce, non minacciosa e terribile, come quella delle fiere, ma amica e dolce.
    Non contenta, la natura a lui solo ha dato l'uso del linguaggio e della ragione, che seve innanzitutto a suscitare e alimentare l'amicizia, perché nulla fra gli uomini si faccia per forza. Nell'uomo istillò l'avversione alla solitudine e l'amore alla società. Piantò in lui i semi della benevolenza. Fece in modo che ciò che è più salutare sia anche più dolce. Che cosa infatti c'è di più dolce di un amico? E che cosa di ugualmente necessario? Per questo, se anche fosse lecito trascorrere comodamente la vita senza avere rapporti con altri, nulla tuttavia potrebbe apparire gradevole senzo un compagno, a meno che uno non si spogliasse del tutto della propria umanità scendendo al livello delle fiere... Finalmente la natura ha dato all'uomo una piccola favilla della mente divina, per cui per sé, anche senza speranza di premio, gode di ben meritare di tutti. Come spiegare altrimenti il fatto che proviamo nell'animo un piacere non volgare ogni qualvolta ci rendiamo conto di aver contribuito alla salvezza di qualcuno? Per questo l'uomo è caro all'uomo, perché egli è legato da qualche insigne beneficio. Così Dio ha posto l'uomo in questo mondo come una sorta di simulacro di se stesso, perché come una divinità terrena provvedesse alla salvezza di tutti... L'uomo è per tutti l'estremo rifugio, per tutti l'altare santissimo, per tutti sacra ancora di salvezza [15].

    Ciò che Erasmo descrive in questo stupendo ritratto dell'uomo non appartiene, di per sé, all'ordine etico, perché assomma una serie di disposizioni naturali: l'uomo è dolce e mite e benevolo per costituzione, al punto che non soltanto la guerra ma la stessa indifferenza appaiono come comportamenti innaturali, quasi pure e semplici follie. Ma l'ottica di questa lettura in apparenza naturalistica è, in realtà, teologica. «Dio ha generato questo essere animato non per la guerra ma per l'amicizia». Siamo qui in una teologia della creazione dove la stessa configurazione innata dell'uomo è anticipazione e segno –prefigurazione – della sua vocazione etica. Quella che in una lettura razionalista sarebbe una fallacia naturalistica (cioè l'indebito passaggio dall'essere al dover essere, dal «sei fatto così» al «devi fare così»), nella teologia della creazione diventa ermeneutica legittima e necessaria, di taglio non razionale ma sapienziale: nel fatto intuisco la destinazione, nell'essere scorgo il dover essere, perché fatto ed essere portano scritto come in filigrana il disegno divino, sono l'allusione e la propedeutica all'imperativo etico e spirituale.
    Ma anche, viceversa, essi sono il fine di quest'imperativo perché dicono la promessa che gli è tenuta in serbo. Al punto che tutta la terminologia dell'amore oscilla tra il tenore normativo del comandamento e la dolcezza utopica della fruizione. Amicizia, pace, socialità sono termini che dicono insieme un compito e un premio, una tensione etica aldilà della spontaneità – e a volte contro di essa – e il pieno fiorire di questa nei suoi sogni migliori.
    Così la solidarietà si distende come su tre registri: è disposizione naturale, è imperativo etico, è promessa utopica. È «natura sociale» dell'uomo, è la sua realizzazione nella convivialità, è l'etica solidale come mediazione tra le due.

    2. Quest'ultimo punto va ripreso. Se l'etica della solidarietà è mediazione tra la natura sociale dell'uomo e la sua messa in opera, sembrerebbe che sia questa natura a disegnarne l'orizzonte di senso, e che l'etica solidale sia soltanto un momento interno all'autosvolgimento della natura, il correttivo reso necessario dalla presenza della libertà fallibile. Se l'uomo non fosse libero, la natura raggiungerebbe spontaneamente la sua pienezza; di fronte a una libertà capace di deviare, le movenze naturali assumono la forma di imperativo, la legge naturale diventa legge morale. Se l'uomo non fosse libero, non vi sarebbe etica.
    Tutta la nostra teologia della solidarietà ci porta a rovesciare tale conclusione in quest'altra: se non vi fosse l'etica – l'etica solidale – l'uomo non sarebbe libero. Perché l'etica non è il correttivo interno alla natura umana ma la vocazione umana oltre la natura, nel campo della trascendenza; e perciò apre lo spazio della libertà come decisione. La concezione dell'etica come legge interna alla natura trasferisce sul piano antropologico globale l'esperienza pedagogica: poiché e finché il bambino non è ancora capace di autoregolazione, interviene la figura dell'adulto a esprimere in forma autoritativa l'esigenza dell'ordine naturale. Ma non ripeteremo mai abbastanza che la solidarietà etica è la ripetizione del gesto divino, e che il divino non è natura ma libertà.
    Allora, se l'etica è connessa alla creazione, e quindi al compimento della natura, non lo è come parte interna al dinamismo naturale ma come promozione alla dignità e libertà creatrici. L'intervento divino sulla creazione si dispiega in due modi fondamentali: direttamente, attraverso quella che possiamo chiamare la casualità divina universale, indirettamente attraverso la mediazione della libertà umana. L'intenzionalità divina non «passa» attraverso la libertà umana come fa invece con la natura delle cose, non le arriva, per così dire «da dietro» per avvolgerla e portarla, ma le si propone in un facciaa-faccia che è sospensione del flusso creatore nella sua necessità onnicondizionante, è sottomissione a una decisiva condizione: se vuoi! E il senso positivo di questa presenza è di coinvolgere la libertà umana nell'intenzionalità creatrice, di farla partecipe non solo del movimento esecutivo che investe tutte le cose ma dal principio d'amore che sta all'origine di quel movimento, non solo della causalità che governa il mondo ma della sua motivazione fontale, l'amore per l'uomo. La mediazione propriamente umana alla creazione è di rispondere all'amore divino che vi presiede, è di consentire a quest'amore di entrare nel mondo e di effondervi la benedizione, di espandervi la vita.
    Se questo è vero, solidarietà e vita (etica e felicità, detto in termini più classici) presentano insieme una proporzione e uno scarto. La solidarietà è in funzione della vita, ma è più grande di essa: la vita è la riuscita del mondo e dell'uomo in quanto essere mondano, la solidarietà è il divino presente nel mondo. C'è un plusvalore della solidarietà rispetto alla vita e alla felicità come pienezza mondana; e c'è come un deficit della vita e della felicità rispetto alla solidarietà.
    Anzi, un doppio deficit. Il primo è quello dell'impotenza della solidarietà, che contempla spesso non solo il fallimento personale del giusto ma la sconfitta del suo amore verso coloro ai quali si dedica. Il secondo è più radicale: anche la migliore realizzazione di questo mondo porterebbe comunque il segno della caducità e avrebbe come esito ultimo la morte. Ma la solidarietà, atto divino, sembra puntare oltre la morte, quasi il presentimento di un mondo dove ciò che in essa nascostamente vive diverrà manifesto.

    5. La solidarietà tra nascondimento e manifestazione

    C'è dunque un nascondersi della solidarietà nel mondo, una sua segretezza che permane anche negli atti dove più potente e pubblica è la sua efficacia. Ciò che gli occhi umani videro guardando Gesù crocifisso non fu il suo amore ma il suo fallimento. Soltanto gli occhi della fede arrivarono, dopo la pentecoste, a vedere in quel corpo esanime e in quella biografia stroncata e stravolta l'atto di una suprema libertà d'amore; soltanto allora lo «è stato consegnato alla morte» si trasfigurò in «ha amato e si è consegnato alla morte» (Gal 2, 20; Ef 5, 2. 25).
    Il nascondimento dell'amore ha però alcuni tratti o momenti manifestativi. Voglio accennare a due di essi: la bontà e la celebrazione.
    La bontà è la solidarietà fattasi così connaturale a un individuo, da aver quasi perso quella connotazione di fatica che sempre accompagna l'impegno etico, e da lasciar trasparire la gioia e la gloria della sua fonte. Perciò la bontà, epifania minima, è la originaria parola su Dio, è il grande racconto religioso e cristiano in nuce. Essa dice in maniera incontrovertibile, perché trasparenza della realtà detta, che esiste l'amore e dunque la prima parola del mondo non è il destino né l'ultima l'ingiustizia. La bontà è perciò anche la prima evangelizzazione [16].
    Accanto a questo segno esistenziale, c'è il segno celebrativo [17]. Tutta la liturgia cristiana non è che una concentrazione del grande racconto in forma dossologica, cioè di ringraziamento e di lode. Essa canta la sostanza trinitaria della solidarietà: l'amore del Padre che la genera, la grazia del Figlio che la incarna, la comunione dello Spirito che la porta a compimento (2 Cor 13, 13).


    NOTE 

    1 Ma lo stesso si potrebbe dire di aree più ampie o, forse, dell'intero quadro della storia delle religioni.
    2 Un punto, questo, su cui la coscienza di Israele è molto ferma.
    3 Per un nuovo sviluppo di questo tema nelle scritture ebraiche rimando a Esodo. Un paradigma teologico-politico, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi) 1990. Per le sue applicazioni pratiche, vedi in questo volume il saggio di P. Bovati. Chi fosse interessato a un'analisi più distesa delle due figure della solidarietà può trovarla in L'Europa e l'altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1990, cap. IV.
    4 Si veda la distinzione tra spontaneo ed etico anche nell'ultima parte del saggio di A. Bondolfi, sopra.
    5 Cfr. per esempio Is 2, 1 ss.
    6 Che la lettura «trasgressivista» del Vangelo abbia le gambe corte lo dimostra la scarsa simpatia suscitata dal padrone della vigna nella parabola degli operai dell'undecima ora (Mt 20, 1-16); parabola il cui significato è vicinissimo a quello del padre dei due figli in Luca.
    7 Per lo sviluppo del tema nel Nuovo Testamento, vedi sopra il saggio di R. Fabris.
    8 Per un'interpretazione complessiva della parabola vedi L'Europa e l'altro, cit., pp. 77-83.
    9 In apparenza, il racconto parabolico risponde soltanto alla seconda domanda del dottore («chi è il mio prossimo?», v. 29); in realtà essa reimposta tutto il discorso dei rapporti tra amore a Dio e solidarietà con l'uomo.
    10 La stessa pluralità dei livelli di lettura si presenta nel testo del giudizio universale (Mt 25, 31 ss.): la presenza del povero (affamato, carcerato, straniero...) è la presenza escatologica di Dio in forma anonima (dimensione laica) ma reale (dimensione religiosa); ma la presenza escatologica di Dio è Gesù (dimensione cristologica).
    11 Cfr. G. Kepel, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991.
    12 L. Pintor, Servabo. Memoria di fine secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 85.
    13 Cfr. il saggio di G. Cereti su ecumenismo e solidarietà.
    14 Mentre scrivo, a poca distanza dalla morte di padre Ernesto Balducci, non posso non sentire come suo testamento spirituale le righe preziose con cui egli chiude, appunto, il suo Uomo planetario: «Se noi decidiamo, spogliandoci di ogni costume di violenza..., di morire al nostro passato e di andarci incontro l'un l'altro con le mani colme delle diverse eredità, per stringere tra noi un patto che bandisca ogni arma e stabilisca i modi della comunione creaturale, allora capiremo il senso del frammento che ora ci chiude nei suoi confini. È questa la mia professione di fede, sotto le forme della speranza. Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo» (L'uomo planetario, Camunia, Brescia 1985, p. 202 s.).
    15 Erasmo, Dolce è la guerra a chi non l'ha provata, in Erasmo, Edizioni Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (Fi) 1988, pp. 60-62.
    16 Su questa linea si muove il documento della CEI: Evangelizzazione e testimonianza della carità.
    17 Vedi l'articolo di L. Della Torre, sopra.


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