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    Sull'educare,

    sull'evangelizzare

    Carlo Nanni

     

    Da sempre, ma soprattutto dall’età moderna in poi, la Chiesa ha congiunto l’evangelizzazione con la cura educativa della generazione in crescita, nella prospettiva di un umanesimo integrale, di una vita buona ed integra, della formazione di personalità capaci di “essere onesti cittadini e buoni cristiani”, con una cura speciale per i ragazzi più poveri, bisognosi, abbandonati. Questa grande preoccupazione “cura per l’uomo” (R. Guardini) aveva ed ha il suo fondamento teologico nel mistero della incarnazione del Signore e il suo orizzonte ultimo nella prospettiva del Regno di Dio. Ancora oggi, laddove ci sia il bisogno, il “beneficare” e il “sanare” accompagna o precede la stessa predicazione evangelica, coniugando la fedeltà a Dio “amante della vita” con l’amore all’uomo (e al ragazzo/za vivente), “gloria di Dio” in ogni terra e in ogni luogo del mondo.
    L’urgenza di portare l’annuncio del Signore Risorto oggi spinge a confrontarsi con situazioni nuove: i popoli non ancora evangelizzati, il secolarismo che minaccia terre di antica tradizione cristiana, il fenomeno delle migrazioni, le nuove drammatiche forme di povertà e di violenza, la diffusione di movimenti e sette. Ci sentiamo interpellati anche da alcune opportunità, quali il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la nuova sensibilità per la pace, per la tutela dei diritti umani e per la salvaguardia del creato, le tante espressioni di solidarietà e di volontariato che sempre più si diffondono nel mondo. Questi elementi impegnano i cristiani a trovare nuove vie per comunicare il Vangelo di Gesù Cristo nel rispetto e nella valorizzazione delle culture locali e soprattutto della vita delle persone nella loro concreta vicenda esistenziale. In questo senso è diventato uno slogan il detto: educare evangelizzando ed evangelizzare educando

    Il rapporto evangelizzazione e educazione

    Pensando al rapporto tra evangelizzazione e educazione viene spontaneo, mettendo l’accento sull’evangelizzazione, riferirsi alla centralità dell’annuncio del mistero di Gesù e del suo Vangelo, che dà senso alla vita, rispondendo al “desiderium videndi Deum”, che c’ è nel cuore di ognuno; ma vi colleghiamo anche il problema dell’accoglienza del Vangelo che cambia la vita; e l’esigenza di vivere tutto ciò nel mistero del tempo e della storia, e, all’interno di esso, nel mistero della Chiesa sacramento di salvezza per il mondo.
    Ciò vale per tutte le età della vita, ma, tradizionalmente e specificamente, il rapporto evangelizzazione e educazione si gioca soprattutto nei confronti delle nuove generazioni, cioè avendo lo sguardo soprattutto a quella che in termini generali indichiamo come “ condizione giovanile”. E quindi viene ad essere oggetto specifico di quella che in ambito ecclesiale si denomina “pastorale giovanile”.
    A sua pensando all’educazione, indichiamo propriamente l’aiuto che alcune istituzioni sociali, considerate appunto come agenzie o istituzioni educative (famiglie, scuole, centri di formazione professionale, associazioni, movimenti, gruppi formativi parrocchie), e la società nel suo insieme (attraverso politiche apposite e attraverso il sistema della comunicazione sociale, dello sport e del divertimento), individualmente e comunitariamente, offrono per la promozione, la strutturazione e il consolidamento delle capacità personali fon­damentali: al fine di riuscire a vivere la vita in modo cosciente, libero, responsabile e solidale, nel mondo e con gli altri, nel fluire del tempo e delle età, nell'intrec­cio delle relazioni interpersonali e nella vi­ta sociale storicamente organizzata, tra interiorità personale e trascendenza vitale.
    In alcune parti, oggi, si nota un certa tensione tra educazione e evangelizzazione, tra trasmissione della fede e sostegno all’identità personale. Forse tale tensione è in gran parte collegabile alla rinnovata attenzione ad un annuncio chiaro e preciso del “kerigma” cristiano, cioè dell’ “essenziale” e del “fondamentale cristiano”, che si crede sminuito o disperso nelle concrete e “troppo umane” iniziative pastorali (soprattutto con i giovani) o nello star dietro alle mode culturali o del contesto sociale. E c’è forse anche una certa preoccupazione per l’identità cristiana, minacciata dall’attuale secolarismo, multiculturalismo, soggettivismo e relativismo culturale.
    Avendo presente questa tensione, mi sembra che per il rapporto tra evangelizzazione e educazione si possa utilmente pensare a due fuochi all’interno di una elisse: un fuoco è costituito dalla evangelizzazione e l’altro dall’educazione; l’orbita disegnata dall’elisse sta ad indicare l’azione pastorale che in certi momenti è più vicina ad un fuoco e in altri momenti all’altro. Quando lo sguardo è più rivolto al fuoco dell’evangelizzazione, si accentua l’attenzione all’integralità del messaggio. Quando lo sguardo è maggiormente rivolto all’educazione, si accentua l’attenzione alla gradualità della proposta. Al centro va posta la vita, che per un verso si specifica come vita dei giovani e per altro verso si specifica come vita di Gesù. Attraverso l’azione pastorale Gesù si dona ai giovani e la vita di giovani si apre alla sua forma più grande, più buona, più bella possibile e trova la sua unità e il suo senso.

    Evangelizzazione e educazione in azione

    Resta, in ogni caso, che la credibilità dell’evangelizzazione oggi, più che ieri, si gioca in gran parte sulla capacità o meno che essa ha di proporre un modello di umanità pienamente riuscita. A sua volta un’educazione cristianamente ispirata, riuscirà a farsi valere se sarà capace di toccare il cuore dei giovani, sviluppare il senso umano e religioso della vita, e in tal senso favorire e accompagnare il processo di evangelizzazione.
    Nella sua Lettera ai Salesiani Capitolari del 1 marzo 2008, Papa Benedetto XVI, ha affermato: «Senza educazione, in effetti, non c’è evangelizzazione duratura e profonda, non c’è crescita e maturazione, non si dà cambio di mentalità e di cultura». Peraltro, lo stesso papa, nella più nota Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione” del 21 gennaio 2008, avverte che «sarebbe una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita».
    Del resto, già nel suo discorso al quarto Convegno ecclesiale italiano di Verona, la mattina del 19 ottobre 2006, il Papa ammonì l’assemblea ricordando che «una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quella della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali».
    A loro volta i Vescovi italiani nella Nota pastorale, scritta a seguito del Convegno di Verona, al n.17, dichiarano che il Convegno di Verona: «ci spinge a un rinnovato protagonismo nel campo dell’educazione». La Nota invita a «rinnovare gli itinerari formativi, per renderli più adatti al tempo presente e significativi per la vita delle persone». Si afferma che l’azione educativa «a partire dalla famiglia», deve essere in grado: 1) «di dare significato alle esperienze quotidiane, interpretando la domanda di senso che alberga nella coscienza di molti»; 2) di aiutare le persone «a leggere la loro esistenza alla luce del Vangelo»; 3) di «accompagnare a vivere la fede come cammino di sequela del Signore Gesù, segnato da una relazione creativa tra la Parola di Dio e la vita di ogni giorno».
    Il Convegno, di Verona, incentrato più sulle persone che sulle istituzioni, può essere molto indicativo anche per gli ambiti da percorrere in questo stretto rapporto tra evangelizzazione e educazione: l’attenzione all’affettività e alle relazioni; l’attenzione all’impegno “lavorativo” e al saper vivere la festa; l’attenzione alla comunicazione e all’acquisizione del patrimonio sociale della cultura e del “patrimonium fidei”; la “cura” delle fragilità e delle disabilità, formando alla “fortezza” e ad uno sviluppo integrale dei talenti personali; ed infine l’educazione alla cittadinanza, ai diritti umani, al dialogo interculturale e interreligioso, ad uno sviluppo sostenibile per tutti e ciascuno, alla pace.
    L’intervento del Papa a Verona resta fondamentale perché aiuta a comprendere che l’istruzione e la trasmissione dei contenuti va previamente e contemporaneamente sostenuta da una formazione delle persone e dal cambio della mentalità individuale e comunitaria: quel cambio di mentalità e di cultura che il Papa, nella sua ultima enciclica Caritas in veritate, invoca come passo obbligato per uscire dalla crisi socio-economica attuale e per dar impulso ad una riforma che attui uno sviluppo storicamente sostenibile ed integrale, umanamente degno, per tutti e per ciascuno.
    Come è noto, al tema-problema dell’educazione la Chiesa Italiana dedicherà la sua attenzione pastorale nel prossimo decennio. Il Comitato per il Progetto culturale cristianamente orientato, voluto dal card Ruini al Convegno di Palermo del 1995, ha pubblicato di recente un interessante e stimolante volume dal significativo titolo La sfida educativa, edito dall’editrice Laterza.

    La difficoltà di evangelizzare ed educare oggi

    Nel concreto ciò non è semplice. Non solo evangelizzare, ma anche educare, non è stato mai facile. Oggi, lo è ancora di più: a tal punto da far dire a qualcuno (G. Angelini): “Educare si deve ma si può?”. Altrettanto si può dire per l’evangelizzare.
    Noi tutti viviamo nel contesto vitale, storico e culturale, che è stato segnato dallo “stacco storico” voluto alla fine della seconda guerra mondiale rispetto al passato.
    La grande politica internazionale, che ha dato luogo all’ONU, ha “imposto” solidarmente la democrazia come stile di vita individuale e collettiva; e ha prospettato la cultura dei diritti umani come orizzonte delle dinamiche qualitative soggettive e collettive dell’umanità intera. Ciò è stato voluto e inteso attuare a tutti i livelli, dal macro al micro, cioè dai rapporti politici internazionali e nazionali, dalla vita sociale di ogni paese alla vita scolastica, alla vita familiare, ai rapporti quotidiani tra i cittadini, e perfino ai rapporti di coppia, alle relazioni tra uomini e donne, alle relazioni interpersonali tra persone, piccole e grandi che siano.
    Questa svolta storica si è andata via via concretizzando nel corso della vicenda storica del mondo attuale: non senza momenti di crisi e di involuzioni.
    Oggi è l’idea stessa di democrazia a risultare piuttosto problematica e altrettanto la concezione dei diritti umani: con conseguenze non solo a livello di economia o di politica ma appunto di cultura, di comportamenti, di vita.
    Ciò è dovuto a quelle che potremmo chiamare “quattro grandi ondate”, che hanno investito la vicenda umana storica contemporanea e che hanno provocato mutamenti e dato luogo ad innovazioni sia a livello di strutture che di modi di vita.
    Alla contestazione “sessantottesca” contro l’autoritarismo sociale e familiare e il conservatorismo dell’assetto sociale esistente, ha fatto seguito – a cominciare dai “difficili anni settanta” – una sorta di “rivoluzione silenziosa” (R. Inglehart) che ha innescato vasti e profondi processi di mutamento, di crisi e di innovazione delle tradizioni culturali e valoriali, dei vincoli interpersonali e sociali, delle strutture e delle procedure istituzionali e soprattutto è andata a rifluire negli ethos individuali e comunitari: scombinandoli, mutandoli o innovandoli con una rapidità impressionante e spesso sconvolgente. Essa ha enfatizzato i diritti soggettivi e l’autorealizzazione individuale. Ma in tal modo l’istituzionale, l’oggettivo, il noi, il bene comune, il vero sono diventati veramente valori difficili da concepire, e ancor prima che da realizzare. La famiglia, la vita e le relazioni familiari – e in particolare il crescere in essa – sono diventate per tutti (coppia, genitori e figli, e ciascun membro per suo conto), altamente difficili.
    Si è parlato per questo di fine della modernità, di post-modernità.
    Si è, invece, preso a parlare di società “liquida” (Z. Bauman), con il sopravvenire della prepotente innovazione tecnologica del digitale, dopo la metà degli anni novanta. Con essa sono mutati i modi e le forme della comunicazione interpersonale e sociale. I telefonini, internet, le reti telematiche hanno dilatato e velocizzato le possibilità della comunicazione, fin quasi a rompere il muro del tempo e dello spazio, ma hanno anche messo in circolo orizzonti “simulativi” e mondi virtuali che rischiano di far perdere il senso della realtà e del tempo a giovani e non giovani. Se ne riparlerà.
    A loro volta, gli inizi del secolo XXI ci hanno resi tutti coscienti di vivere nella complessità di un mondo globalizzato con le sue gravi ambivalenze. Non sono cambiate solo le strutture socio-economiche (imprenditoria internazionale e mercato mondializzato), ma anche i valori sociali di riferimento (efficienza, funzionalità, utilità, produttività, benessere soggettivo). La vita e la cultura vengono sempre più dominate e sbilanciate sull’economico, sul pubblico, sulla sicurezza sociale e sul benestare individuale o di parte, fino all’ossessione. L’universalizzazione della vita e della cultura, indotta dalla globalizzazione può azzerare le differenze culturali e le prospettive di verità e di valore umano (provocando la frammentazione personale, il relativismo culturale, o l’assolutizzazione fondamentalistico-culturale). Lo si può osservare anche a livello etico religioso dove, all’etica della tolleranza o ad una religiosità molto soggettivistica e poco confessionale, possono fare da contro-canto forme estremizzate di intolleranza etnica o religiosa o di disincanto e di scetticismo vicino all’amoralità o a forme di vita – concretamente più che giustificativamente – secolarizzata, a-religiosa (in cui Dio non è neppure pensato come ipotesi possibile o da rigettare).
    Gli sviluppi e le possibilità delle biotecnologie e le ricerche sul “bios” umano” delle neuroscienze prospettano non solo interventi tecnico-genetici migliorativi, ma anche possibilità antropologiche “post-umane” o “oltreumane” (facendo balenare l’idea di essere capaci di “produrre” o “clonare” l’uomo).
    La persona è scossa profondamente nella sua consistenza “ontologica”. Il “nichilismo”, prima ancora che una affermazione filosofica, si sperimenta come senso profondo e interiore del vuoto e del nulla di sé e del mondo. Come è stato detto, esso diventa “l’ospite inquietante” dei giovani (così si intitola il libro di U. Galimberti, edito presso la Feltrinelli nel 2007), ma anche di tanti adulti, di tante coppie, di tante relazioni familiari producendo solo “passioni tristi” (come insinua, riprendendo un modo di dire di B. Spinoza, il libro dei due psichiatri operanti in Francia, M. Benasayag e G. Schmit, edito dalla Feltrinelli nel 2005).
    Alla fin fine, si re-impone l’antica e radicale “domanda”: chi è l’uomo, cosa significa “umanamente degno”? Ritornano con tremenda attualità le famose tre domande di I. Kant: “cosa possiamo conoscere, cosa possiamo fare, cosa c’è dato sperare?
    Diventa quindi indispensabile ripensare e vorrei dire rifondare i concetti e i valori antropologici di base. Avverte il Papa, nella sua ultima enciclica Caritas in Veritate: «senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi» (CIV, 9). E senza un etica della tecnologia che non riduca il poter agire al poter fare tecnicamente, il rischio che la stessa innovazione imploda tra le mani, come inesperti “apprendisti stregoni”, è tutt’altro che ipotetica.

    A fronte dei nuovi modi di apprendere, di socializzare e di essere delle nuove generazioni

    Queste “quattro grandi ondate” hanno inciso e incidono sull’apprendimento di tutti, ma certo in particolare su quello dei giovani. Più che il cambiamento (come è stato ed è per la generazione adulta o anziana), la generazione nata dopo gli anni ’90 ha avuto ed ha a che fare piuttosto con l’innovazione e la sua forte accelerazione. Essa non è più solo la generazione “media-socializzata” dalla Televisione, dalla cui massiccia fruizione ne viene ad avere maggiori informazioni e orizzonti di visione, ma anche un notevole abbassamento delle capacità riflessive e di quelle razionali-astrattive, concettuali: per tal motivo qualcuno (G. Sartori) ha avanzato l’ipotesi di una trasmutazione antropologica dall’ “homo sapiens” all’ “homo videns”.
    È anche la generazione della “cultura digitale”. Con il diffondersi generalizzato dei micro-chip elettronici e della tecnica digitale, che permette di “simulare” e non semplicemente di “rappresentare”, si può arrivare allo scambio o il mescolamento di “virtuale”- “reale”, producendo delle “second Life” o degli “avatar” o delle “community” virtuali, che danno la sensazione di costruire altri mondi ma rischiano di far prendere il congedo dalla vita concreta, materiale, storica.
    È, ancora, la generazione della razionalità tecnologica, funzionalistica. I “teen-ager” sono sempre più “tecno-ager”.
    Ma è anche la generazione della multicultura (fisica, virtuale, generazionale, tra habitat metropolitani o provinciali/ “paesani”), con movimenti vitali non sempre coordinati di dialogo culturale, di difesa dell’identità, di omologazione, di fondamentalismo o all’opposto di scetticismo teorico e valoriale.
    Questa generazione sembra apprendere più nell’informale (vale a dire per vissuti ed esperienze) che nel non-formale (vale a dire tramite la tradizione familiare) o nel formale (vale a dire grazie all’istruzione scolastica); più nei “non luoghi” (cioè nel gruppo dei pari, “sfangando la vita” con amici, negli incontri, negli happening, in piazza, al muretto, al pub, nella balera, allo stadio, con la navigazione su internet, chattando, con gli SMS…), che nei “luoghi” (cioè nelle istituzioni basiche di vita: la famiglia, la scuola, la parrocchia, la vita sociale civile-pubblica); più secondo logiche informatiche che razionali; più per immagini che per concetti; selezionando più ciò che appare utile e funzionale piuttosto che ciò che è vero e il bello in sé e per sé;…più emotivamente che logicamente; … più per frammenti che per quadri.
    Allo stesso tempo sembra che si possa parlare anche di nuovi modi di socializzare . Con il Web 2.0 (con i “blog”, “face book” o “you tube”) e con i telefonini si hanno indubbiamente più possibilità di comunicare, di incontrarsi “virtualmente”, di interagire, di formarsi idee (politiche), di “costruire” la conoscenza e la realtà: di confrontarsi, di dire la propria in materia sociale e politica…ma stando chiusi in camera (avendo un contatto virtuale, non reale), innescando in tal modo la formazione di una “identità solitaria” e una socializzazione realizzata nell’apertura solo a quelli che la pensano “come me” (da “socialità ristretta”), senza confronto con il mondo reale istituzionalizzato: con il rischio di manipolazione da parte dei “guru del web”, o con un agire senza assunzione di responsabilità concrete. Sembra venire su una nuova leva di cittadini più formati con e sui blog, forum, messenger, chattando o via SMS, face book che con l’ideologia partitica e la pratica politica.

    Uscire dal soggettivismo, dalle paure... e dall’ideologia dell’eterna adolescenza

    Di fronte alle novità e i cambiamenti radicali dell’esistenza il personale occorre ripensare il modo di essere educatori. La credibilità e l’autorevolezza educativa, chiede un’attenzione autoformativa particolare da parte degli educatori. Secondo il vecchio detto: “medice cura te ipsum”, prima e se vuoi prenderti cura degli altri, nel caso specifico degli educandi.
    In particolare c’è da approfondire, superare o perlomeno bilanciare anche alcuni aspetti della mentalità prevalente a livello culturale oggi e di cui in vario modo partecipiamo quando educhiamo oa evangelizziamo.
    1) C’è anzitutto da superare il soggettivismo ideale e valoriale: vale a dire l’io visto come centro di tutto e regola di verità e di valore (che spesso si riduce a scambiare la verità con quel che uno pensa, e il bene con ciò che a uno piace). La realtà e la sua verità, così come la trascendenza degli altri, del mondo e di Dio, viene messa a rischio. L’autorealizzazione diventa senza limite e freno, quasi una religione dell’io, che rischia di far cadere nella malattia mortale del “narcisismo” di un io senza mondo, senza tempo, senza altri, senza vita; o che va a finire in altre forme depressive o aggressive. Le stesse persone dei ragazzi sono viste solo come “espressione di sé” e l’educare come costruzione di personalità “a nostra immagine e somiglianza”.
    Occorrerà bilanciare questa tendenza con il “senso del fine” educativo, vale a dire la conquista laboriosa ma grande di una vita personale, individuale e comunitaria, piena, buona, bella, grande, aperta, partecipativa, solidale; che ha il senso del bene comune, per cui impegnarsi e la volontà intenzionale della partecipazione collaborativi e solidale alla costruzione di una città dal volto umano e di una chiesa effettivamente “Lumen Gentium”.
    2) È anche da superare una certa pratica superficiale della relazione che quasi dimentica il mistero dell’incontro e delle relazioni personali e il loro essere immerse nel mistero” della vita e della complessità delle reti relazionali personali (intra-personali, inter-personali, plurali, comunitarie, istituzionali, cosmiche, trascendentali...).
    3) In modo simile è da andare oltre e non restare irretiti nell’enfasi sull’ agire e sull’operare rispetto all’essere, tipiche di questa nostra società della prestazione e dell’efficienza, che porta a pensare e dare valore all’agire, al fare, all'avere, più che all'essere; al comportamentale più che all'ontologico; ai ruoli più che alle persone; ai processi più che ai contenuti; al mutamento e all'innovazione più che al continuo e al perdurante; più all'omologazione che all'identità originale; all'apparire più che all'essere; al presente più che al futuro; alla facciata più che alla personalità profonda dell'io e dell'altro; alla funzionalità più che al senso della relazione.
    Il condividere, la gratuità, la contemplatività, l’inattualità di certe realtà, pure belle e preziose, l’essere profondo personale e comunitario e umano, ne possono venire vengono facilmente oscurati o dimenticati nell’educare.
    4) È, infine, da superare e vincere e non lasciarsi irretire dall’ideologia della adolescenza e della “giovinezza perenne” (che si lascia andare alla spontaneità senza limite, all’avventura, al “come viene”, e che fa di molti adulti degli eterni bambini e dei Peter Pan incalliti che non crescono). Tale ideologia è deleteria per sé (perché impedisce di vivere e godere il bello di ogni età della vita) e perniciosa per la crescita dei giovani (che non vengono ad avere modelli di vita adulta significativa nei genitori, negli educatori, nelle persone con cui sono in rapporto: con il rischio di fughe nel “virtuale” o di identificazione con le “star” della comunicazione sociale o di permanere in una vita “bambinesca”... come quella che gli adulti ricercano a ogni costo).

    Volare alto

    La Lettera di Benedetto XVI sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008, trae origine dal suo intervento al Convegno della Diocesi di Roma sul tema: "Gesù è il Signore. Educare alla fede, alla sequela, alla testimonianza", dell’11 giugno 2007, nella Basilica di San Giovanni in Laterano. In quella circostanza il Papa, oltre ad evidenziare la grande «emergenza educativa» e la crescente difficoltà che incontra sia la scuola sia la famiglia e ogni altro organismo che si prefigga scopi educativi, fece risaltare che «l’educazione tende ampiamente a ridursi alla trasmissione di determinate abilità, o capacità di fare, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni colmandole di oggetti di consumo e di gratificazioni effimere». In tal modo – continuò il Papa – si viene oscurare quello che è «lo scopo essenziale dell’educazione”, vale a dire «la formazione della persona per renderla capace di vivere in pienezza e di dare il proprio contributo al bene della comunità».
    Don Lorenzo Milani dichiarava che «il maestro deve essere per quanto può un profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi oggi vediamo solo in confuso» (Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici)
    Baden Powell, da quell’educatore inglese pratico e pragmatico che era, nel suo Testamento invitò ogni scout a «lasciare il mondo un po’ meglio di come lo si è trovato».
    A scuola e in famiglia, ma anche nelle parrocchie e nei gruppi, e in genere nella formazione, iniziale e permanente, è tempo di “volare alto”. Occorre porsi nella prospettiva di: 1) una pedagogia della risposta ai bisogni di crescita dei ragazzi, ma anche della proposta valida e significativa; 2) una pedagogia dello sviluppo personale, ma meglio di una pedagogia del fine da raggiungere vale a dire essere persone coscienti, libere, responsabili, solidali; 3) una pedagogia del servizio degli educatori per l’apprendimento dei ragazzi/studenti e studentesse, ma anche una pedagogia per il servizio: vale a dire pedagogia del suscitamento, della vocazione/missione, che stimola a conoscere i talenti propri e comuni e le risorse dei contesti di riferimento, ma che spinge alla partecipazione e al servizio, all’aiuto reciproco, alla cooperazione per una società dal volto umano, per uno sviluppo storicamente sostenibile per tutti e ognuno (evangelicamente: per la salvezza del mondo, camminando verso il Regno di Dio, in cui abiterà definitivamente e completamente giustizia e verità!).
    Peraltro, come educatori, come animatori, come pastori, come famiglie, come comunità educative, ecclesiali e civili, non ci si può accontentare di essere dei trasmettitori, animatori, esperti, ma inderogabilmente anche, e in primo luogo, dei testimoni, cioè capaci di quell’insegnamento per diretta esemplarità e provocazione di una vita buona, onesta, fedele, responsabile, aperta e fiduciosa. Sempre nella sua Lettera sul compito urgente dell’educazione, rifacendosi alla Enciclica “Spe salvi”, il Papa ricorda che «anima dell'educazione, come dell'intera vita, può essere solo una speranza affidabile […] Alla radice della crisi dell'educazione – afferma il Papa – c'è infatti una crisi di fiducia nella vita».
    Si comprende qui tutta l’importanza, anche educativa e non solo civile, di una vita che “profuma di Vangelo” e che crede e realizza concretamente le Beatitudini evangeliche.

    “La partita educativa” e “la rete”

    Negli ambienti educativi di ispirazione cristiana, si parla spesso di “centralità del ragazzo” con le migliori intenzioni di questo mondo. Ma con ciò c’è il rischio di fare diventare il ragazzo l’“oggetto” delle “cure educative” di noi adulti, ossessivamente preoccupati di non far mancare a lui niente che non sia in ordine al suo “successo formativo”.
    Al centro, invece, c’è (e va posta) piuttosto “la crescita e la valorizzazione della vita della persona”, alla cui realizzazione il ragazzo ha da essere co-protagonista cor-responsabile. L’educazione, infatti, non è tanto azione degli educatori “sugli” e “per” gli educandi. È piuttosto funzione della relazione educativa “tra” educatori e educandi, in vista della personalizzazione “competente” e della buona qualità della vita propria, altrui e comune, di tutti e di ognuno (incluso quella degli educatori!). Gli educandi non sono né oggetti, né utenti, né destinatari, ma soggetti attivi e protagonisti responsabili della crescita. E hanno da esserlo sempre più, man mano che crescono. In ogni luogo e situazione educativa.
    Di più. La relazione educativa non si chiude in una relazione dualistica e intimistica di io-tu, pur essendo fondamentale tale aspetto; e non si chiude neppure nel gruppo-squadra “auto-gasato” o “in fusione”. La relazione educativa ha le dimensioni e l’ampiezza della vita nella sua globalità. Il suo riferimento supremo è all’umanità in tutte le modalità, personali storiche e culturali, passate presenti e future.
    L’educazione, per dirla in termini sportivi, assomiglia a una “partita pedagogica”, che trova nella comunità educativa non solo l’ambiente e lo strumento, il “campo”, ma anche il soggetto di referenza ultimo e il fulcro promotore primo. Nell’orizzonte di tale suprema “partita” le diverse “squadre”, i diversi soggetti individuali e sociali, ognuno per quanto loro compete, interagiscono e agiscono “insieme” (come squadra, come giocatori con diversi ruoli, come arbitri, come segnalinee, come tifosi, ecc.) in vista del conseguimento del fine educativo che li accomuna.
    Agli educatori e animatori compete attivare, stimolare e promuovere, far fare pratica di libertà e di valori, sostenere e accompagnare affettivamente, orientare responsabilmente, far interagire proficuamente tutte le componenti e i soggetti della comunità educativa in collegamento con le altre comunità educative, con le famiglie e con il territorio, con la comunità ecclesiale, operando – come si dice – in rete. Peraltro ciò presuppone di pensare la rete, di pensare in rete, di pensarsi in rete; di affrontare i problemi non in astratto ma nello loro concreta emergenza o istanza e di gestire e ricercare insieme come risolvere o comunque come ridurre la problematicità; di badare non solo all’efficacia dei progetti e dei percorsi ma anche e in primo luogo ai significati che si intendono promuovere, avendo coscienza e curando il limite proprio e comune, e tenendo presenti i rischi e le difficoltà oggettuali (o le variabili di attuazione), relazionali e soggettive (dei singoli e di gruppo).

    Lo sguardo a Gesù Maestro

    Forse può essere molto stimolante esemplarsi su Gesù Maestro. Egli nel suo agire ha prioritario il “farsi prossimo”, il venire incontro, il voler instaurare una relazione di “salvezza”, facendosi “buon samaritano”, liberando dal male, sostenendo la sofferenza, condividendo attese e speranze dei suoi interlocutori (pur non nascondendosi, magari, le loro stesse “cattive coscienze” e i loro “pensieri perversi”). Accoglie le persone così come si incontrano e si presentano (e con le loro movenze e provocazioni). Attraverso appropriate domande e dinamiche di dialogo spinge a esplicitare questo “orizzonte di salvezza”. Quando non c’è chiusura preconcetta, verso i suoi interlocutori, mostra atteggiamenti e comportamenti di comprensione più che di condanna, senza tuttavia che ciò significhi necessariamente “giustificazione” di parole, idee, prospettive, comportamenti. Ma sempre c’è l’indicazione/proposta di “un oltre” e di “un di più” positivo e di bene, che si esprime variamente, da un minimo di vita buona ad un massimo di radicalità evangelica, a seconda delle persone con cui Egli è in rapporto e dei loro “talenti” (ad esempio in termini di “non peccare più”, di “fa anche tu lo stesso”, “fa questo e vivrai”, “venite e vedrete”, “vendi tutto, dallo ai poveri”…); ma anche in corrispondenza con le esigenze “oggettive” del Regno (“pregate il Signore della messe”, “vieni anche tu a lavorare nella mia vigna”, “vieni e seguimi”, “andate e predicate il Vangelo ad ogni creatura”, ecc.).
    Di questa prospettiva del Regno e dell’amore di Dio Padre, Egli si presenta come testimone evangelizzando e al tempo stesso beneficando e curando.

    Metterci il cuore

    Nella migliore tradizione educativa cristiana il rapporto educativo è stato contornato da accenti caldi (amorevolezza, amicizia, paternità, fiducia, affetto, accoglienza, assistenza, compagnia duratura anche oltre i tempi propriamente educativi). Ma è stato pure caratterizzato dalle intenzioni di un amore esigente, che spinge ad incarnare i valo­ri, traducendoli in impegni e “senso del dovere”; che inizia ben presto alle responsabilità; che rinforza positivamente gli impegni sulla via della crescita e del bene; che stimola ad “essere di più” insieme con gli altri. Perciò anche quando c’è da correggere, lo fa “proattivamente”, pensando e agendo in avanti: usa lo stesso errore, lo sbaglio, l’atto di indisciplinatezza, il conflitto come via “educativa”. L’intervento disciplinare non è fatto in funzione punitiva, ma come momento di presa di coscienza individuale e di gruppo, come ristabilimento di un “ragionevole ordine” per l’utilità comune e come stimolo alla riassunzione personale di responsabilità e della propria compartecipazione attiva al bene “comune”. Il tutto è pensato e voluto all’interno di una “famiglia” educativa e secondo uno “spirito di famiglia”.
    La convinzione di don Bosco (ma era comune tra i santi educatori e le sante educatrici del suo tempo) si riferiva alla idea che ultimamente «l’educazione è cosa di cuore e Dio solo ne è il padrone») (MB XVI, 447).
    Il papa nella sua Lettera sul compito urgente dell’educazione esprime la sua profonda convinzione che «ogni vero educatore sa che per educare deve donare qualcosa di se stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare gli egoismi e a diventare a loro volta capaci di autentico amore».

    * * * * *
    Permettetemi, in questa linea, di concludere con una parafrasi “educativa” del cap. 13 della prima lettera ai Corinzi, fatta da un anonimo insegnante e che ho trovato in Croazia:
    «Se io insegnassi con la cultura dei migliori insegnanti, ma non avessi l’amore, io non sarei che un oratore intelligente o una persona spiritosa e simpatica. Se conoscessi tutte le tecniche e avessi provato tutti i metodi migliori o se avessi una formazione che mi permettesse di sentirmi competente, ma non avessi compreso ciò che i miei allievi provano e come essi pensano, ciò non basterebbe per essere insegnante. E se io passassi molte ore a prepararmi per non essere né teso né nervoso, ma non provassi ad amare e a comprendere i problemi personali dei miei studenti, ciò non basterebbe ancora per essere un buon insegnante.
    Un insegnante è pieno di amore, di pazienza di bontà. Non fa mistero che altri si confidano a lui. Non spettegola. Non si lascia facilmente scoraggiare. Non si comporta in maniera sconveniente. Per i suoi allievi è un esempio vivente di buona condotta e ne fa volentieri riferimento.
    L’amore non si ferma mai.
    I programmi saranno sorpassati. I metodi passeranno di moda. Le tecniche verranno abbandonate. Il nostro sapere è limitato e noi non ne possiamo trasmettere che un piccola parte ai nostri allievi. Ma se abbiamo l’amore, allora i nostri sforzi avranno una forza creatrice e la nostra influenza resterà radicata per sempre nella vita dei nostri allievi.
    Ora, rimangono le tecniche, i metodi e l’amore. Ma la più importante delle tre è l’amore».


    T e r z a
    p a g i n A


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