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    Sei gesti profondi

    nel chinarsi

    sulla vita fragile

    Educare ed educarsi a contatto
    con situazioni di debolezza irriducibile

    Ivo Lizzola *


    Il contatto con situazioni di fragilità e sofferenza irriducibile spesso porta a ritenere che il loro alleggerimento possa venire dall'esterno, da qualcuno che per scelta volontaria o per professione ne sciolga i nodi. Così facendo, in realtà, si finisce per svuotare e confermare il non senso delle vite fragili, non riconoscendone la generatività anche dentro condizioni di vita pesanti e aggrovigliate storie personali.
    La vita, infatti, può sempre «fiorire», anzi rifiorire a livello soggettivo e gruppale. Con quali atteggiamenti allora gli educatori e gli operatori possono chinarsi sulle vite fragili per accoglierle e accompagnarne la fecondità?

    Sempre più frequentemente, in questi nostri anni, gli educatori sociali entrano in contatto con situazioni di debolezza irriducibile, con condizioni o passaggi nella fragilità, con gli esiti di fratture esistenziali o relazionali, con la fatica di far fronte al limite e di ridisegnare le storie personali nell'evidenza della vulnerabilità. Spesso le storie di vita che incontrano sono segnate dall'abbandono, dalla trascuratezza, dal mancato incontro con l'attesa, con la speranza, con l'accompagnamento.
    Le pagine che seguono offrono sei brevi frammenti che delineano altrettanti atteggiamenti per un quotidiano esserci a contatto con la fragilità, là dove diventa essenziale muoversi nelle pieghe dell'esistenza per ritrovare e ritrovarsi in vita.

    L'ESPOSIZIONE ALLA DEBOLEZZA

    Tra le pieghe di un'esistenza lacerata, il gesto educativo è, anzitutto, un gesto di cura, di accoglienza della debolezza, a volte del disorientamento o della prostrazione di chi è affidato. Che a volte grida, resistendo, facendosi lontano e chiuso. In questo gli operatori apprendono dalla loro stessa vulnerabilità, pure esposta e scoperta di fronte a storie, sguardi, corpi che chiedono presenza e senso, speranza e dedizione.
    Educatori, operatori sociali e insegnanti che osano lasciarsi guardare da chi porta sfinimento e tensione, durezza e ferite, nelle scuole, nelle comunità, nelle case dell'ADM, negli appartamenti protetti, nei CDD, nelle realtà della riabilitazione e del reinserimento; sono riportati a ciò che resta dei loro saperi esperti, delle loro tecniche e delle didattiche, delle loro metodologie, dei saperi d'esperienza sedimentati nel tempo e nella riflessione.
    Ciò che resta è qualcosa di vicino a quel che origina e muove, a ciò che fa nascere la relazione educativa. Questa si dà sempre nel riconoscersi nella cura: là dove fragilità e possibilità di nascere, ancora e di nuovo, vengono affidate consegnate ad altri.
    La relazione educativa è sempre una relazione segnata da una reciprocità asimmetrica, come la relazione di cura. In chi cerca nuova capacità e nuovo sapere, in chi ricerca percorsi di competenza e di senso, in chi sonda linguaggi nuovi e sguardi complessi sulla realtà, si gioca sempre un confronto con il senso, con il limite, con il potere e il timore. Nell'educazione che incontra le dimensioni della fatica e della resistenza, dell'incertezza e dell'incapacità, delle responsabilità e dell'esercizio di saperi e possibilità, non è difficile cogliere come sia presente una dimensione di cura.
    In realtà, l'orientamento dominante della riflessione delle scienze dell'educazione pare essersi concentrato prevalentemente sull'abilitare, sull'apprendere, sul rendere competenti, sulla formazione delle eccellenze, sul raggiungimento di prestazioni. Questo lascia le dimensioni della cura nell'ombra. Educare è, in fondo, curare tra corpi e biografie esposti, offerti e consegnati. Educare, anche nei luoghi nei quali ciò avviene in modo organizzato, è ricomporre pensieri e rappresentazioni di sé, relazioni con altri e con il mondo. È scoprire e praticare il confine tra possibilità e limite, tra capacità e vulnerabilità, avendo cura della vita della mente e curando l'«ordine del cuore» (1), le forme e le direzioni della propria intenzionalità.

    L'ATTESA DI UN FUTURO DENTRO LE FRATTURE

    L'esposizione e l'accoglienza della debolezza trovano la loro ragione profonda nell'apertura a una diversa verità del vivere e, dunque, a una nuova attesa di futuro.
    A volte, di fronte alla disabilità come davanti a ogni fragilità o debolezza irriducibile, si pensa che la vita non abbia mantenuto la sua promessa. Si prova rabbia, ci si sente in colpa: una colpa strana poiché non è legata a qualcosa d'imputabile. E ci si sente davanti a un'ingiustizia, anche qui un'ingiustizia particolare perché non ci potrà essere riequilibrio o risarcimento.
    Quando, però, le vite si dispiegano nel tempo – nelle relazioni, negli affetti e nei legami –, allora viene in chiaro una diversa verità. Quella verità che s'incontra, e che prende forma nei giorni, quando ci viene incontro un'attesa figura di vita buona.
    La promessa, appunto, la incontri quando la curi, quando la attendi, quando lasci che venga ad essere nei modi unici e imprevisti generati dall'incontro (quello, sì, buono e giusto) tra donne e uomini fragili e capaci, deboli e attenti. Donne e uomini fraterni.

    Lo sguardo attento allo svelamento dell'inedito

    Occorre vivere un cambiamento di sguardo: occorre non guardare tanto alle promesse della cura (dei supporti, del sostegno, delle tecniche speciali, degli ambienti e del lavoro assistito...), quanto rivolgere lo sguardo alla cura della promessa. Che è quella cura che costruisce rispetto e riconoscimento dell'altro e dell'altra come è nei gesti e nelle parole quotidiane. Proprio per questo resta continuamente in attesa e aperta alla sorpresa, allo svelamento dell'inedito, proprio e dell'altro. Svelamento del suo mistero, della sua possibilità. Di quell'ignoto che serba la promessa.
    La promessa può emergere anche dalle forme incerte, e a volte indistinte, della debolezza e della fragilità, quando può germinare, e poi trovare fiore e frutto, nella trama di relazioni attente, fedeli e creative. Anche pazienti: le forme della concretezza contadina che attende che la vita trovi la sua strada, la sua propria configurazione, un suo unico e particolare equilibrio.
    Dentro queste relazioni, asimmetriche e delicate, le persone apprendono, insieme, a sapere che farsene della propria impotenza. Dove persone fragilissime rischiano l'annullamento dí ogni possibilità narrativa, proprio lì si possono tessere trame di vita quotidiana, gesti corpo a corpo, posizionamenti e incontri. Lì si veglia gli uni sugli altri, si sviluppano ricerche concrete che possono portare a dire: «Credo di potere, posso provare a potere, anzi, devo provare a potere perché tu ci sei». L'emergere di possibilità nell'evidenza quasi fisica o psichica del mio non potere. Certamente ci si trova, qui, in trame di vicinanza e di prossimità che non si riducono alla funzionalità, allo scambio, alle tecniche, alla buona organizzazione: ci si trova in uno scambio di simboli e di affetti, di fiducia e di speranza, tra persone che non possono sostituirsi l'una all'altra, ma che possono «intendersi», risuonare, rinviarsi. È possibile ritrovarsi in una promessa, che è oltre la fissità del limite, e segna una figura nuova di danza. In dignità: ogni esperienza di limite, di debolezza, di malattia è anche esperienza di «bisogno di comunità», come dice Paul Ricoeur, che quando trova risposta rigenera dignità.

    L'irriducibilità della vita a progetti, ruoli, risultati

    Tutto questo può darsi in un laboratorio di montaggio, in uno spazio comune, come una serra, un filare, un giardino condivisi con altri, che possono essere luoghi comunitari dove la comunicazione può essere ospitalità dello smarrimento e dell'incertezza; che può essere offerta di una presenza fedele, sollecita, competente e «per-dono»; può essere indicazione di un sentiero condivisibile, difficile ma aperto, perché fatto insieme ad altri.
    Si può sperare di vivere, in questa vita del corpo e della mente che pure rinvia sempre debolezza. Si può credere e crescere in un'unica e propria biografia, poco standardizzata.
    Quando incontro un altro, un'altra, nella sua irriducibilità, nella sua indisponibilità a me, alle mie intenzioni, ai miei progetti, quando lei o lui mi si presenta come non protetto e non omologabile, allora incontro non solo la sua solitudine e la sua nudità. Incontro anche me stesso, incontro ciò che mi è più proprio: la mia irriducibilità a progetti, opere, ruoli, risultati miei o di altri. Siamo essenzialmente donne e uomini irriducibili e soli: solo io, sola tu, solo lui, sola lei nell'unicità irriducibile, nella propria sola generatività.
    Ma siamo anche, non protetti e non omologabili, nella possibile fraternità tra sconosciuti, nella fraterna solidarietà «dei soli» (come forse direbbe Julia Kristeva). Forse è vero che al fondo della cura, del lavoro comune, dell'organizzazione della protezione, dell'amore per il finito non si può che incontrare (anche) il fallimento. Ma vi si può incontrare anche una domanda di salvezza e di affidamento: la parte più al fondo di noi stessi e di noi stesse, con la quale possiamo un poco trafficare solo grazie e con altri e altre.
    Occorre non finire di incontrare, di interpretare e di attendere il segreto di chi incontriamo, anche a costo di approdare alle nostre angosce attraverso le sue, ritrovando così le nostre con le sue speranze, le sue attese e sospensioni. La diversità, l'indigenza, le ferite dell'anima ci possono rendere estranee e sconosciute le persone, la paura e l'inquietudine sgorgano in noi al di là delle nostre intenzioni. Eugenio Borgna nei suoi ultimi scritti ci offre un quadro di essenziale preziosità di questi movimenti. E ci invita a «lavorare» le nostre, reciproche, discordanze. Ci chiede d'essere avvertiti per potere essere capaci di posture nuove e feconde: la gentilezza, l'attenzione, l'ospitalità.
    Nella situazione umana della ferita, della debolezza irriducibile (come dell'esilio, della migrazione, dello sperdimento) è l'ignoto che ci viene incontro nella vita che ci viene incontro.
    L'ignoto, che è l'altro fragile, non ancora del tutto nato, forse possibile, inatteso e forse promessa: si offre e si cela, si espone e un po' sfinisce, ma prova a vivere se è vegliato, se è ospitato. Può essere un inizio tra noi: tutti i luoghi che non lo evitano e non lo negano sono luoghi nei quali si serba qualcosa di essenziale nella penombra del tempo. Specie di questi nostri tempi.

    L'ATTENZIONE A CIÒ CHE NASCE NELLA PROSSIMITÀ

    Allo sguardo attento dell'operatore, l'attesa del futuro prende forma nelle quotidiane «nascite» dentro la prossimità.
    Il lavoro e la presenza educativa nelle storie di malattia e di cura è tessitura di prossimità. La prossimità tra soggetti che hanno scoperto di non bastare a se stessi, di vivere nella consegna reciproca e nell'affidamento, di non essere messi in sicurezza dalla sola tutela dei diritti, presto si rivela essere una prossimità difficile. Il lascito irrisolto della stagione passata è quello di un precario e instabile equilibrio tra distanza e prossimità: nello spazio pubblico si entrava o da protagonisti, o da portatori d'uguali diritti, oppure da utenti di servizi.

    I tanti luoghi nascenti di comunità

    Oggi la possibilità di reciprocità asimmetriche è ben mostrata e illustrata dal diffondersi feriale e capillare delle esperienze del mutuo aiuto e della cura attorno ai percorsi di malattia cronica o di debolezza irriducibile (2), dai percorsi di molti mondi sociali o di solidarietà in comunità e territori scossi dalla crisi (o dalle calamità), dalle esperienze di patto intergenerazionale che legano, nello scambio tra prossimità e garanzia, anziani e giovanissimi (nell'abitare e nell'avviarsi al lavoro, nel sostenersi nelle transizioni e nelle fragilità).
    Ci sono bisogni delle donne e degli uomini cui corrispondono diritti (libertà, lavoro, casa, istruzione) e dunque servizi, risorse, specifiche politiche. Ma ci sono bisogni cui non corrispondono diritti se non vengono promossi e assicurati dal senso di obbligazione, di dedizione e dí riconoscimento da parte d'altri: íl bisogno di non essere abbandonati, di sentire speranza, di avere dignità. È attorno a questi che, diffusamente, oggi si osservano tanti movimenti istitutivi, tanti luoghi nascenti della convivenza (3).
    Vedere e condividere fragilità e nascita della vita ai margini è essere messi in condizione di dare forma alla forza reattiva del corpo e della mente: essa ha un grande potere di strutturare l'individualità, poiché rende visibili le risorse presenti, fa prendere coscienza della potenzialità e dei limiti. La svolta personale dell'individualismo si va compiendo nella preziosa riscoperta dell'unicità di ognuno in rapporto con la propria vulnerabilità irriducibile e con la forza di disvelamento della relazione con l'altro. Nelle esperienze della cura e in quelle della fratture: entrambe «instauratrici» di possibilità e di nuove narrazioni.

    Il prendere forma di nuove responsabilità

    Di fronte alla necessità di superare una «responsabilità-abbandono» (frutto di «una politica che rende responsabile senza rendere capace») si può certo evocare una «responsabilità-partecipazione» (resa possibile da «una politica che renda capaci di essere responsabili»), come indica Alain Ehrenberg. Tuttavia pare necessario riconoscere e generare una responsabilità come cura, come tessitura di dedizioni e di attenzioni, di reciprocità anche asimmetriche. Il paradosso di cercare sé e la vita tra prove d'autonomia giova all'esercizio delle proprie capacità e il riconoscimento della vulnerabilità («una vita ricompresa come sempre già precaria» (4), scrive Paul Ricoeur), si vive e si scioglie nelle trame reali della vita comune dove la possibilità e la speranza vengono riaperte e riofferte. La possibilità non è vissuta come il contrario dell'impossibilità, da quest'ultima negata. È invece sinonimo di potenzialità dell'umano che sa fronteggiare il non più possibile, le limitazioni specifiche che ogni persona incontra.
    Tutto questo matura negli spazi e nelle densità della vita quotidiana, prima e piuttosto che negli spazi e nelle progettualità sociali. Poi informa anche luoghi e tempi della vita comune, e prende forma più istituita.
    Ripetiamolo: un sapere della vita matura si esercita nel sostenere ed attraversare esposizione e vulnerabilità là dove si rischia di vivere, là dove si prova a vivere. Dove non si cerca (solo) controllo e risposta, o risoluzione dei problemi; dove sí assicurano presenze e resistenze incerte e creative (che vuol dire anche ben pensate) e si danno come offerta reciproca di corpi, di tempi, di pensieri.

    LO SGUARDO SENSIBILE ALLE FIORITURE IMPREVISTE

    Nel delineare gli atteggiamenti alla base del chinarsi sulla vita è indispensabile la capacità dell'operatore di intravedere inediti segnali di vita, dove, forse, non si era neppure seminato.
    Il confronto con la malattia, con la frattura, con l'indebolimento delle condizioni fisiche, psichiche e relazionali della vita richiama un gesto di cura e una forma d'accompagnamento e di prossimità che sappiano sostenere non solo l'intervento terapeutico, ma anche la ricerca di senso e significato, la riabilitazione alle scelte e al desiderio, la ricerca pratica dell'abitare e del sentire gli altri e il tempo.

    L'esposizione alla verità della propria condizione umana

    Curare la debolezza irriducibile, o le situazioni di sperdimento sul confine della vita, curare nella ricostruzione di un nuovo rapporto con la necessità, con l'incapacità e lo spossessamento, senza nascondersi nell'applicazione di protocolli e nelle pratiche terapeutiche, è vivere un'esposizione alla verità più propria della condizione umana. Tale esposizione è di tanti operatori della cura e operatori sociali dell'area della marginalità, di tanti educatori, ma, alla fine, è di ogni donna e di ogni uomo, di ogni trama familiare e dí prossimità. In fondo, il nostro tempo ha diffuso di nuovo quest'esperienza, nei luoghi quotidiani dove la vita fiorisce e a volte geme, e nei luoghi dove concentriamo il potere delle tecnoscienze a disposizione della medicina. E il nostro si fa, così, tempo di disvelamento della vulnerabilità generativa propria delle figlie e dei figli d'uomo.
    A volte accoglienza ed esposizione si toccano, una non teme l'altra, non teme d'essere colta nell'altra (5). Accogliere chi mi si presenta o accanto a me sí mostra nella sua irreparabile debolezza, nella insopprimibile (e non celabile) fragilità d'una ferita, d'una malattia, d'uno sfinire, pare quasi impossibile. Pare solo rivelare la mia impotenza dí fronte alla sua integrità ormai compromessa. Così come pare pesante e ingiusto il confidare che la mia condizione ferita, di «resto» di umanità sfigurata possa trovare un qualche riparo, una qualche accoglienza presso altri. Pare solo una pretesa prepotente.

    La cura di altri nonostante i propri limiti

    Eppure nelle case, nelle strutture sanitarie, nei centri assistenziali, negli hospice dove l'esposizione e l'accoglienza s'allacciano l'una all'altra nei corpi, negli sguardi e nelle mani di donne e uomini fragili e capaci, le vite toccano il loro ritrovarsi sul limite nella loro origine, nella cura.
    Lì si impara di nuovo a sentire il tempo, a sentire l'altro (6). Lì si apprende un nuovo sapere della propria costitutiva vulnerabilità. Non nella prospettiva del controllo e della risposta (attraverso i saperi e le tecniche diagnostiche e terapeutiche, con i loro protocolli e interventi) ma in quella della presenza e della responsabilità. Che chiedono, appunto, la partecipazione al gioco dell'interpretazione, della ricerca del significato, del ridisegno dei desideri. Da qualche decennio vediamo svilupparsi nuove ricerche d'umanità e nuova immaginazione sociale nelle numerose storie familiari segnate dalla presenza della fragilità, come nelle storie di donne e di uomini che apprendono, pur segnati da debolezza irriducibile, a continuare a lavorare, a esercitare ruoli, a studiare e a formarsi. A vivere in società, a esercitare responsabilità e cura d'altri, pur nell'evidenza di loro nuovi o persistenti limiti, intrecciando tutto questo alle terapie, alla cura di sé.

    Un nuovo gusto per le relazioni con le persone e con le cose

    Il tempo del vivere si fa, così, luogo di ricerca e di accoglimento di nuovi significati, di nuove attenzioni, d'una nuova destinazione dei beni e delle presenze, d'un nuovo gusto delle relazioni con le cose e le persone. Anche con il proprio corpo. Si danno lente e sorprendenti riabilitazioni al desiderio e al futuro mentre si provano e si trovano nuovi ritmi e nuove collocazioni, ri-dislocazioni e risimbolizzazioni affettive dei ruoli (familiari e sociali), ridisegni di storie e progetti personali.
    Sulla scena della cura si dà sempre un delicato gioco di proiezioni, di assimilazioni, di suggestioni, di abusi, di giustificazioni, di rispetto, di dedizione. Occorre apprendere sul campo cosa farsene della propria impotenza e, insieme, come ritessere nell'evidenza del limite, e anche del finire, le possibilità di desiderio. Anche di momenti di gioia, legati a esperienze di dare e ricevere tra chi è presente nei giorni, legati alla fioritura dí attività gratuite, leggere, non vincolate, nelle quali ci si chiama alla vita in una specie di amicizia.
    Occorre apprendere a guardare in faccia l'intollerabile, a non indietreggiare. Per una madre, come per tante madri e tanti padri di figli disabili, si tratta di poter giungere a dire: «Come madre non scelgo di dare senso all'handicap..., l'handicap si è imposto e io mi reinvento facendo rinascere mio figlio tappa dopo tappa». Una convinzione, questa, che, a parti invertite, anche tante figlie e figli di genitori dementi o sfiniti possono sperare di maturare.

    LA TENSIONE A PAROLE RICCHE DI SENSO

    A questo punto dispiega la sua importanza il quinto degli atteggiamenti nel chinarsi sulla vita da operatori, quello che fa spazio a un ritrovato esercizio di una parola generatrice di significato, troppo spesso esiliata e disconosciuta nelle storie di fragilità.
    Scrive Maria Zambrano:

    «La vita ha bisogno della parola, della parola che sia il suo specchio, che la rischiari, che la potenzi, che la innalzi e, al tempo stesso (ove necessario, portandola in giudizio), che dichiari il suo fallimento».

    La parola è itinerante, esiliata (7). Può entrare dove i saperi e i poteri non entrano: entra nella notte della prova, nello sperdimento; e nella semplicità, nell'amicizia.
    Parola in ascolto, che sta nell'attesa della prossimità e del senso.
    La parola che nella cura e nell'accompagnamento educativo è richiesta è decentrante, è amante, è legata alla misteriosità feconda del silenzio, cerca l'innocenza, ha pudore e nostalgia. È parola che scende, che di nuovo si piega, si curva sulla vita, sulle storie di donne e di uomini; non argomenta, non prova a spiegare, a dimostrare. È parola che con pietas straordinaria
    entra nelle pieghe dell'ordinario quotidiano e svela ciò che può essere luce, ciò che rende leggibile l'esperienza umana, anche la più contaminata. Una parola capace di reggere l'esposizione sul nulla, e di lottare, mite e fragile, contro l'abbandono, contro la distanza e l'estraneità tra le persone e le generazioni. Contro la privatizzazione della debolezza, specie quella insuperabile. Maria Zambrano in alcuni suol scritti parla di un ascolto e di una parola che si possono dare, come generativi, solo dall'esilio. Da dentro uno smarrimento e una distanza, incontrandoci stranieri, o in esodo. Nel «paese straniero» parola e ascolto paiono perduti: devono tornare a nascere.
    L'ascolto e l'accoglienza sono costretti a darsi nuovi luoghi della cura, per la costruzione dí un inedito rapporto con la propria vulnerabilità. In un'«età senza casa», come Martin Buber definirebbe il nostro tempo, nella quale prevalgono l'incertezza e l'ansia, il cammino e la ricerca, il disorientamento e il rancore, le differenze e gli arcipelaghi di senso, e si vive la consumazione di un tempo, la vertigine dell'aperto, il legame a una promessa. Come nell'esodo, un tempo grande e terribile, fecondo e difficile, nel quale la cura è riabilitare alla speranza, al camminare insieme.

    LA PARTECIPAZIONE A NUOVE DANZE DELLA VITA

    Il sesto frammento offre uno sguardo complessivo, volto all'indietro, sul percorso delineato finora, per mettere in luce il mistero delle storie di uomini e donne che, come operatori, sí prendono cura dell'umana debolezza, propria e altrui.
    Fare l'educatore o l'educatrice è stare nell'esodo, accogliendo senso e cammino nel nostro tempo. Coltivando stili e orientamenti per una vita buona, alla quale aprirci e coeducarci. Coltivando competenze per vivere in ascolto, giusti nell'esodo, attenti alle crepe della vita.

    Uomini e donne cercatori di differenze

    Cí sono uomini, e certo anche donne, che osservano con meraviglia e che curano con vero amore le singole differenze e le specificità di ogni vita che incontrano. Sono appassionati da una specie di antropologia delle differenze: cercano, colgono, proteggono, valorizzano quelle differenze che continuamente irrompono nella norma, rendendola instabile, evolutiva. Sono cercatori di quelle differenze, di quelle particolarità, che spesso fioriscono nelle crepe, nei limiti, nei margini, nelle distorsioni delle storie, dei corpi, delle comunità familiari, delle relazioni sociali. Nelle quali si vanno soffrendo e riaprendo forme di vita, ricerche, resistenze, adattamenti. E anche, appunto, fioriture impastate di fragilità.
    Sì, proprio la vulnerabilità, che spesso è il tratto manifesto della differenza, per questi uomini e per queste donne, va raccolta perché riporta all'origine. Perché richiama alla relazione che rende possibile di nuovo la vita e il suo narrarsi ancora, ancora prendendo forma. Quella relazione che viene rigenerata dalla vulnerabilità come possibilità e come obbligazione. All'origine la relazione, all'origine vite vulnerabili offerte e affidate. In nuove origini: danze di forme e di narrazioni di convivenza sorprendenti.

    Uomini e donne dediti all'amore di ognuno

    Ci sono uomini che dedicano la loro vita all'amore di ognuno, unico, di ognuno e ognuna come inizio. Incontrando in molti il limite e la fatica, il declinare e il sottrarsi: lo accolgono e lo accettano. Non provano a disporre o a controllare, non cercano di risanare o di salvare. Provano piuttosto presenze, compagnie, un sentire attento, un profondo riconoscimento, un rispetto accorato. Depongono uno sguardo che giudica o soltanto diagnostica, indeboliscono un pensiero della riparazione e del supporto, interrogano l'atteggiamento della sola rivendicazione di diritti (per le «minoranze», le «minorità», le «vittime»).

    Uomini e donne contro la «mistica della fragilità»

    Ci sono uomini, e donne, che non sopportano la «mistica della fragilità», che produce troppo spesso esclusioni e subalternità, volontariati soffocanti, meritori o un po' sacrificali. Cercano e amano le narrazioni dei percorsi di resistenza e di resilienza, i segni singolari, le pratiche piuttosto inattese di emancipazioni divergenti e creative, le relazioni sbilanciate eppure reciproche, le prossimità dove si apprende il ritmo unico dello zoppicare, quasi danzando.
    Questi uomini e queste donne di parole e di gesti, d'iniziativa pubblica e di testimonianza personale, hanno cercato e cercano l'inizio continuo della vita nelle pieghe anche un poco oscure, certo sofferte, delle vite fragili. Lì indicano la preziosità di cercare l'inizio: nel suo resistere, nel suo trovare forme e sussulti particolari, nel suo chiamare vicinanze e riconoscenze di corpi, dí gesti, di desideri. L'essenziale è nelle pieghe, nelle vite spiegazzate o un po' lacerate, rattoppate e anche ritorte. Dove si torna a cominciare, un po' per forza e un po' per desiderio: donne e uomini, ragazzi e adulti e vecchi devono tornare a nascere, provare di nuovo a desiderare.

    Uomini e donne che abbracciano il mistero

    Ci sono uomini e donne che si ritrovano lì, quando la vita è fluttuante, quando sussulta e prova ad essere una risorgiva. E non temono di vedere riflessa la loro piccolezza e la loro pochezza, le loro paure e impotenze. Le incontrano e incontrano il mistero dell'altro che viene loro incontro. È un poco il sentiero che scelgono per farsi incontrare dalla verità, per farne esperienza. Per venire sorpresi e incontrare la realtà nell'aperto. E per incontrare ogni altro e ogni altra come dono unico, differente e specifico: dono che viene a me. Ci sono uomini e donne che questo hanno scoperto, che questo ci indicano e ci consegnano.

    * Ivo Lizzola è docente di Pedagogia all'Università di Bergamo: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

    NOTE

    1 De Monticelli R., L'ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2003.
    2 Kristeva J., Vanier J., Il loro sguardo buca le nostre ombre, Donzelli, Roma 2011.
    3 Lizzola I., Incerti legami, La scuola, Brescia 2012.
    4 Ricoeur P., Filosofia della volontà. 1. Il volontario e l'involontario, Marietti, Genova 1990.
    5 Petrosino S., La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas, Jaca Book, Milano 2010.
    6 Lévinas E., Il tempo e l'altro, Il Melangolo, Genova 1997.
    7 Zambrano M., Chiari del bosco, Mondadori, Milano 2004, pp. 92-93.


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