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    Raccontare

    e raccontarsi

    Dalla scoperta del senso all’attribuzione di senso

    Amedeo Cencini

     

    PRIMA PARTE

    (Tredimensioni 4(2007) 249-255) 


    Nella psicologia la narrazione fa il suo ingresso come catarsi della parola.
    Raccontare e raccontarsi sblocca ciò che si era irrigidito attorno a un nucleo mnestico più o meno traumatico ed eventualmente patogeno.
    Vanno proprio in tale direzione certe intuizioni della prima ora che sono tuttora a fondamento del metodo psicoanalitico (dalle libere associazioni al racconto dei sogni, dal racconto anamnestico alla cosiddetta «regola d’oro» di ogni psicoterapia che consiste nel dire quel che viene in mente, senza censure e rispettando possibilmente anche l’ordine in cui le cose vengono in mente). Nella psicoterapia non si può certo cancellare il trauma che ha determinato la patologia, ma si mira a modificare il modo di raccontarlo (e di raccontarsi) da parte del paziente [1].
    Anche la pedagogia ci ripete ormai da tempo che la nuova generazione preferisce ascoltare narratori più che insegnanti, più storie (o cantastorie) che teorie, esperienze esistenziali più che citazioni sapienti; ed essa stessa, specie nel campo dell’apprendimento, preferisce raccontare più che riferire ciò che altri hanno detto.
    L’ipotesi della nostra analisi è questa: il raccontare e, più in particolare, il raccontarsi, ha una valenza formativa e terapeutica, specialmente nel senso della capacità d’integrazione della vita e della libertà di darle un senso nuovo, purché si compia a precise condizioni o rispetti certe regole [2] In questo primo articolo cogliamo le differenze tra pensiero logico e pensiero narrativo, definiamo gli elementi costitutivi della narrazione e segnaliamo due fondamentali forme di narrazione. Nell’articolo che seguirà vedremo che la narrazione può diventare cura di sé, non solo per consentire al soggetto narrante di riconciliarsi con la propria storia, ma soprattutto per integrare la propria esistenza attorno a un nucleo significativo: non solo per scoprire il senso della vita e del vissuto, ma per dargliene uno nuovo.

    La narrazione in sé

    Per cogliere la natura del pensiero narrativo è utile vedere in che cosa si differenzi dall’altra forma classica di pensiero, quello logico [3].
    Pensiero logico Caratteristiche del pensiero logico sono queste: È un pensiero fondamentalmente analitico, in funzione della comprensione della realtà, della scoperta della sua verità.
    - Dal punto di vista formale, osserva un procedimento logico (come regole astratte del pensiero, un ordo mentis) fondamentalmente deduttivo, che porta a interpretare la realtà secondo categorie generali, universalmente valide.
    - Dal punto di vista del contenuto segue un metodo deduttivo, che consente di applicare verità oggettive a situazioni soggettive.
    Il pensiero logico ha anche degli aspetti problematici: Rischia di perdere o sottovalutare il contatto con la realtà dei fatti, con la storia, con il contesto, con la soggettività.
    - Afferma a priori la verità e l’unicità della verità, e questo lo può portare a non cogliere quella verità o quei frammenti e sfumature di verità che emergono dal vissuto o a non fare dialogare tra loro queste diversi (e convergenti) aspetti della verità.
    - Il suo metodo deduttivo rischia di ridursi a un’operazione soprattutto mentale (come se bastasse spremere le conseguenze dalle premesse per capire la realtà), statica (perché non sufficientemente provocata dalla realtà) e poco personalizzata e vitale (perché la verità sarebbe già contenuta in quei principi generali).
    Pensiero narrativo Le caratteristiche del pensiero che narra sembrano queste: Mira a descrivere più che a dimostrare, a raccontare prim’ancora che a cogliere la verità della cosa; giunge al dimostrare attraverso il descrivere, alla verità attraverso il racconto.
    - È molto vicino alla vita reale, anzi, parte da lì, dal patire e dall’agire della vita di tutti: infatti per giungere alla verità adotta un metodo induttivo.
    - Veicola la storia personale di un’esperienza, di una scoperta, di un incontro, di un apprendimento, magari anche delle convinzioni personali o della propria fede, dando a tutto ciò una colorazione inedita e mai scontata.
    - Permette diverse tipologie contestuali narrative: descrizione, dialogo, poesia, diario, dramma, film… Ma anche il pensiero narrativo presenta dei rischi: Il rischio di esser più in funzione dell’io e della sua centralità che della verità, quasi fosse un’espressione di narcisismo.
    - L’assenza di criteri interpretativi oggettivi potrebbe causare una certa banalità e povertà interpretativa, quasi una sorta di analfabetismo di lettura o di scrittura della propria vita.
    - La radicalizzazione delle proprie posizioni potrebbe a sua volta esser all’origine di altri strani fenomeni, come l’incapacità di decentramento da sé, l’avvitamento in valutazioni egocentriche e una vana autocontemplazione… Ovvio che i due tipi di pensiero possono tra loro integrarsi e collaborare per giungere alla verità: verità che ha un versante logico e uno narrativo.

    Elementi costitutivi della narrazione

    Gli elementi costitutivi del racconto e del raccontare, da un punto di vista psicopedagogico, sono i seguenti: Trama. Anzitutto c’è una serie di eventi, ovvero il vissuto, bello o brutto che sia, una storia che non va cancellata-ignorata-rimossa-aggiustata, ma rispettata nella sua identità e attualità. Ogni storia di ogni persona è degna di esser raccontata, sarebbe un peccato perderla; eppure c’è chi pensa di non aver nulla da raccontare, o molto poco di sé che sia degno d’esser narrato, e si mette a tagliare ed eliminare segmenti interi del proprio vissuto.
    Memoria. La funzione della memoria è recuperare il vissuto, per impedire che la storia vada nel dimenticatoio o nell’inconscio; è ciò che rende capaci, di «leggere e scrivere» e poi narrare la propria vita. La memoria ha anche dei virus (ad esempio, la memoria ingrata, parziale, superficiale, lamentosa, ferita, depressa, arrabbiata…[4]), e in ogni caso ha bisogno di formazione. A ricordare si impara.
    La memoria può esser di due tipi: quella riproduttiva riproduce i fatti tali e quali o fissa nella mente volti e luoghi, ma senza alcuna nuova interpretazione; la memoria significativa è quella che scopre e dà significati nuovi a ciò che essa richiama al cuore e alla mente.
    Parole e gesti, metafore e simboli… Per raccontare ci vogliono anche delle parole, e delle parole che alla lunga consentano al ricordo di fissarsi nella memoria (ma è solo memoria riproduttiva). Ciò che resta non detto è meno ricordato e rischia la cancellazione almeno dalla mente conscia. È già significativo e impegnativo scegliere delle parole «incaricandole» di raccontare la vita o di raccontarci a noi stessi.
    Quanto diciamo delle parole vale anche per i gesti o i simboli: chi, ad esempio, non ricorda la potenza del gesto di Giovanni Paolo II che nell’anno del Giubileo chiede perdono dei peccati della Chiesa e dei credenti di fronte al mondo intero? Quel gesto ha detto e raccontato la storia della Chiesa più di mille trattati di storia della Chiesa stessa! Anche le metafore possono essere una forma di trama narrativa, cioè un insieme di linee-guida che servono da strumento per elaborare la narrazione [5].
    Schema logico o nucleo significativo. Per raccontare c’è bisogno di uno schema logico, in cui un logos veritativo faccia da significato connettivointerpretativo, dia verità e offra il quadro entro cui porre quella storia, funzioni da nucleo significativo (sarebbe, appunto, la memoria significativa, o più semplicemente intelligente). Tale logos, o centro significativo, è ciò che consente non solo di ricordare, ma di integrare il vissuto, ovvero di dargli un senso logico.
    L’alternativa opposta, ossia l’assenza di questo centro significativo, determinerebbe un processo di non integrazione, con serie conseguenze a livello psichico, perché ciò che non viene integrato normalmente non resta innocuo, ma diventa disintegrante. È inoltre da sottolineare che questo schema funziona in doppio senso, poiché da un lato tale centro significativo dà un senso, dall’altro e al tempo stesso lo riceve.
    Potremmo infine dire che se la trama è il contenuto lo schema è il contenitore.
    Interlocutore. Il racconto nasce come attività soggettiva, ma è per natura sua evento essenzialmente relazionale. Chi (si) racconta, infatti, cerca orecchi che l’ascoltino, cerca un altro, un interlocutore a cui raccontare, quasi affidandogli la propria storia, un tu che reagirà in un modo o in un altro, o solo riecheggiandola o provocando ad apportare qualche modifica al racconto. La relazione, diversamente detto, non è solo orecchi che ascoltano, ma grembo in cui nasce o è aiutato a nascere un certo senso.
    L’altro non entra in scena solo come interlocutore attuale, ma anche come quel «tu» (o «Tu») che ha abitato in qualche modo la vita del narratore nel passato, o è stato parte d’esso, di quel passato che ora è raccontato.
    In definitiva, dunque, non solo il racconto è relazionale, ma anche il senso è relazionale.

    Forme di narrazione

    Possono esser le più diverse: dalla semplice cronaca al racconto, dal diario all’autobiografia, dalla storia raccontata per immagini a quella che si racconta attraverso drammatizzazioni (gioco dei ruoli), dalla narrazione di sé attraverso il collage, alla modalità del teatro spontaneo per evocare uno spaccato della vita, dal racconto di sé di chi si riconosce in parabole a quello di chi crea parabole per raccontarsi (il film è una parabola moderna per raccontare; pensiamo, ad esempio, al film «La vita è bella» che mostra come il dramma dei lager può esser raccontato ad un bambino senza che questi ne resti schiacciato), dal colloquio con Dio all’espressione poetica (anche la poesia può essere forma narrativa), dalla preghiera al salmo, il proprio salmo… In genere il racconto, dal punto di vista pedagogico o più specificamente terapeutico, ha le seguenti due possibilità sul piano del rapporto con la sua fonte (che poi diventa il contenuto raccontato).
    Forma ripropositiva (del senso già presente): dall’accettazione alla riconciliazione È la possibilità elementare: quella semplicemente di riproporre-riprodurre il passato, quasi mostrandone un’istantanea o facendo scorrere il film della propria vita, ma senza rielaborarlo. Di solito tale forma consente di cogliere il senso già presente, quello che emerge con una certa evidenza dalla realtà dei fatti, quasi identificandosi con essi; un senso già presente, da «leggere» e basta (si legge quel che è già scritto o presente) o solo da scoprire-riconoscere. Ad esempio, la morte di una persona cara o una ingiustizia è di per sé un fatto negativo, né può essere cambiato; così come l’affetto ricevuto è un dato gratificante che rimanda immediatamente a un senso positivo della vita. In forza di questo senso già dato, la forma narrativa è spesso parziale, perché non si ricordano né volentieri si raccontano gli episodi negativi della vita! In questa forma narrativa non c’è nessuna novità. Tutt’al più, se il fatto è negativo, vi sarà un percorso che va dall’accettazione (a volte solo rassegnazione) verso la riconciliazione con il passato, ma prevalentemente di tipo solo buonistamoralista, come uno sforzo della persona, ma che non giunge a modificare il senso di ciò che è avvenuto, che resta una macchia nera.
    Per questa forma di narrazione è sufficiente la memoria riproduttiva.
    Forma significativa (di un senso nuovo): dalla riconciliazione all’integrazione Questa forma narrativa è molto più attiva e intraprendente, tipica di chi con il racconto attribuisce un nuovo significato all’evento stesso raccontato, che non necessariamente si identifica con il senso già presente, quello fenomenologico, quale emerge quasi spontaneamente dalla trama dei fatti. Si tratta di un significato nuovo, scoperto dalla persona a partire dalle sue convinzioni che si sono confrontate col fatto stesso, che forse si sono lasciate purificare ed essenzializzare, dando luogo proprio per questo a una sintesi inedita che è appunto questo significato nuovo.
    Per questo, tale forma narrativa tende a estendersi a tutta la vita, ivi compresi i fatti negativi, poiché crede che sia possibile dare senso a tutto, anche all’asimmetria della vita.
    Ciò esige una lettura più approfondita e personale, più libera e responsabile.
    Richiede un’elaborazione particolare, più legata al senso e alle operazioni dello «scrivere» che al semplice leggere (ad esempio lo stesso evento di morte o altri negativi potrebbero qui ricevere un senso nuovo, meno negativo). Solo a questo punto la vita viene integrata, cioè accolta in tutti i suoi aspetti, raccolta attorno a un nucleo significativo e caricata di senso e in ogni suo evento.
    Per questa forma narrativa è necessaria la memoria significativa.
    Come vedremo nel prossimo articolo, queste due forme di narrazione e il rispetto degli elementi che le caratterizzano sono utili strumenti per crescere nella consapevolezza di sé e del proprio esistere.

    NOTE

    1 Cf G. Starace, Il racconto della vita. Psicoanalisi e autobiografia, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
    2 Per la sua importanza educativa e terapeutica, il tema del raccontarsi è già stato affrontato in questa rivista da M. Bottura, Il racconto della vita, in «Tredimensioni», 4 (2007), pp. 32-41, con relativa riflessione esperienziale di G. Zanon, Formazione permanente del presbiterio; la potenza operativa del raccontare la propria fede, in «Tredimensioni», 4 (2007), pp. 193-203.
    3 Cf J. Mezirow, Apprendimento e trasformazione. Il significato dell’esperienza ed il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti, Raffaello Cortina, Milano 2003.
    4 Sui tipi di memoria cf A. Cencini, Il padre prodigo, Paoline, Milano 1999, pp.17-22.
    5 Cf R. Schafer, Rinarrare una vita. Narrazione e dialogo in psicoanalisi, Giovanni Fioriti Editore, Roma 1999, p. 37.

     

    SECONDA PARTE

    (Tredimensioni 5(2008) 20-33)

    L'articolo precedente ha voluto comprendere il significato del fenomeno narrativo [1]. Per questo ha colto le differenze tra pensiero logico e pensiero narrativo, ha definito gli elementi costitutivi della narrazione e ha concluso con la descrizione di due fondamentali forme di narrazione: quella ripropositiva di un senso già presente e quella significativa di un senso nuovo.
    In questo quadro di riferimento, indichiamo ora che la narrazione può divenire cura di sé, non solo per consentire al soggetto narrante di riconciliarsi con la propria storia, ma soprattutto per integrare la propria esistenza attorno a un nucleo significativo: raccontare e raccontarsi non serve solo per scoprire il senso della vita e del vissuto, ma anche per dargliene uno nuovo.

    Il potere «curativo» della narrazione

    La narrazione può contribuire alla crescita dell’individuo («cura» in senso ampio), soprattutto in riferimento al senso della propria identità e, più in generale, alla possibilità d’integrare la propria vita. L’integrazione, infatti, è quel processo formativo che ci consente di accogliere-raccogliere-unificare-significare la vita (e noi stessi). In tal senso la narrazione consente di cogliere l’identità, intesa come la storia della vita della persona [2]. Infatti, «se non siamo noi a scrivere le trame della nostra vita, è comunque vero che siamo proprio noi a creare le nostre storie... Noi, proprio noi, costruiamo il senso della nostra storia» [3].
    La valenza terapeutica della narrazione non è un fatto automatico. Non è scontato che la narrazione diventi terapeutica: il semplice metter ordine o recuperare i fatti del vissuto o persino il risalire alle cause (infantili o comunque primitive) dei propri complessi non è detto che abbia il potere di risolverli. L’esperienza lo dice a chiare lettere: la psicodiagnostica – pur con tutta la sua importanza – non è la stessa cosa della psicoterapia, non ne ha automaticamente gli stessi effetti, così come – più semplicemente – tante lagnanze sul proprio vissuto non hanno nulla di catartico.
    È solo un certo tipo di narrazione che cura il nostro io. Né è detto che la persona sia subito in grado di raccontare e raccontarsi.

    Tipologia, livelli ed esperienze di narrazione

    Vediamo allora una tipologia, in senso progressivo, della capacità di narrazione Esistono dei livelli narrativi qualitativamente crescenti. Per analizzarli e differenziarli ci serviamo dei cinque elementi costitutivi della narrazione descritti nell’articolo precedente (trama, memoria, parole, schema logico, interlocutore).

    0. Analfabetismo

    Se, come primo passo, si tratta d’imparare a leggere la propria storia, è il caso di dire che spesso c’è un notevole analfabetismo al riguardo. A volte succede d’incontrare, nella relazione d’aiuto, persone (anche credenti) che non sanno raccontare la loro storia: non per un difetto di capacità narrativa o di memoria, ma perché semplicemente non la conoscono, non sono mai stati messi in condizione di fare quest’operazione in modo sistematico e mirato, alla luce di precisi criteri di lettura o di illuminate categorie interpretative. E così, richiesti di esporre il loro vissuto, rispondono con segmenti di storia senza continuità, quasi spezzoni di episodi che restano monchi o piccoli quadretti di vita privi di seguito; raccontano fatti, ma non sanno far emergere un significato che li leghi tra loro; ricordano eventi, ma senza lasciar trasparire un nesso logico che li connetta organicamente; propongono aneddoti, come schizzi che non si ricongiungono in un disegno compiuto e magari concepito-disegnato da Dio; mettono insieme, quasi alla rinfusa, una serie notevole di dati, sequenze di vita, incontri, realtà positive e negative..., ma come fossero dati grezzi, su cui non ha lavorato un’intelligenza illuminata dalla fede. Non c’è nessuna trama, nessuno schema logico. Le loro sono storie spezzate di turisti vagabondi dell’esistenza che hanno girato moltissimo e fanno persino confusione nel racconto.
    Che diventa un non racconto. E che mette a dura prova l’eventuale interlocutore: è difficile ascoltare un non racconto. Anzi, diciamo che qui non c’è proprio interlocutore, né relazione.
    Proprio per questo, sono anche persone che non ricordano neppure bene il loro passato, che rischia così di svanire nella nebbia d’un tempo ormai trascorso e che rende tutto indistinto e senza vita; o lo ricordano in modo selettivo (o solo il negativo o solo il positivo), o in modo estremamente vago, ponendo ai suoi inizi una nebulosa e genericamente buona volontà di Dio, ma senza crederci un gran che.
    Normalmente una vita così a brandelli, svela pure una persona frantumata interiormente, con seri problemi di maturità umana, soprattutto perché non sa chi è, dato che il passato non le consegna un progetto almeno abbozzato che chieda di esser portato a compimento, ma neppure le consegna un’immagine realistica e integrata di sé, con le sue luci e le sue ombre, con un io attuale e un io ideale. Anche l’identità, infatti, è una narrazione.
    Questa è la possibilità più negativa, come un punto 0, una sorta di situazione prescolare, di analfabetismo, appunto.

    1. Lettura primitiva-casuale

    Il secondo livello di capacità narrativa consiste nel saper metter in ordine la propria storia, con un racconto che la riproduce esattamente e che ripete fedelmente i fatti, tutti. Come uno che ha imparato a leggere e si trova al grado elementare di tale capacità. Non sa ancora metterci espressione adulta, esattamente come i bambini che imparano a leggere e sono unicamente preoccupati di non fare errori di lettura, ma senza capacità interpretativo-espressiva. Anche qui prevale la forma narrativa che riproduce semplicemente il passato con le sue emozioni, ma è privo di un senso o di un disegno generale entro cui inserirlo e riempirlo di significato.
    Qui l’espressione c’è, ma è ancora primitiva, mai elaborata, è quella degli inizi, non ha subìto alcun processo interpretativo. Così, se il fatto narrato è stato negativo o ha prodotto un’emozione negativa, è ancora ricordato-narrato così, con la stessa emozione infantile, mai diventata adulta. Qui la memoria è solo riproduttiva, così pure la forma narrativa, ma prim’ancora è una memoria ferita, di una ferita mai rimarginata. È il caso di chi racconta le vicissitudini e sofferenze della sua vita passata, magari la violenza realmente sofferta, ma ogni volta le racconta con la medesima emozione, come se non fosse passato del tempo che gli ha consentito di rivedere tutta quella realtà, col suo carico di dramma, dunque cercando di comprenderla, di decidere d’inserirla entro un contesto significativo (=capace di dargli senso) e non continuando a subirla passivamente (e negativamente). E magari succede che chi ha subìto violenza poi, da adulto, la infligge agli altri, identificandosi con l’aggressore; è possibile, ma non è una legge; non dev’esser così per forza; è così solo per chi non ha mai imparato (o non è mai stato aiutato) a leggere quella violenza subìta, a «raccontarla» a sé e agli altri in un certo modo, e non solo con la sensibilità infantile con cui l’ha sofferta la prima volta. È la memoria ferita che cerca in qualche modo di vendicarsi, o cerca uno sfogo per liberarsi da un ricordo insopportabile. Ciò che non è stato integrato diventa disintegrante.
    A questo livello il racconto è completo e i fatti sono cronologicamente in fila, ma senza vero ordine interno, senza schema logico. È come se il tutto non fosse mai stato sottoposto a una lettura intelligente, credente (ma non necessariamente), capace di interpretare la vita, di coglierne un senso, una direzione, un progetto, una identità… Magari per cogliere nella violenza subìta e nella sofferenza che ha fatto seguito, un motivo per impegnarsi nella vita a fare qualcosa perché altri non subiscano lo stesso trauma. Nulla di tutto questo: nessuna elaborazione intelligentecredente.
    Perché non c’è schema logico, una verità fondamentale attorno alla quale anche un fatto drammatico possa piano piano ricevere senso.
    Spesso, una persona così crede al caso, alla fortuna, all’oroscopo, o ha una fede mai divenuta adulta, tipica di chi confonde la volontà di Dio con il destino e non si è confrontato con la libertà e responsabilità di dare un senso agli eventi. È il caso della semplice biografia anamnestica, che riporta ordinatamente e correttamente i propri dati, ma serve a ben poco.

    2. Lettura intellettuale-causale

    La lettura intellettuale è una lettura… intelligente, tipica di chi ha trovato nella propria vicenda una certa corrispondenza e ordine logico, compiendo lo sforzo di risalire ad alcuni elementi capaci di spiegare, almeno fino a un certo punto, la propria situazione. Ma è una lettura che lascia il soggetto tutto sommato piuttosto freddo e distaccato rispetto al… teorema scoperto. Esempio tipico di questo livello narrativo sarebbe la lettura psicologica, che mette in condizione di risalire alle cause, normalmente di natura relazionale, di certi problemi personali (il cosiddetto ragionamento causale).
    È certamente un vantaggio. Non sufficiente, tuttavia, a risolvere il problema. Uno può sapere, ad esempio, che è geloso e possessivo perché – così gli ha spiegato lo psicologo – da piccolo ha vissuto episodi di abbandono o di possessività da parte delle figure genitoriali, ma poi continuare tranquillamente (e compulsivamente) a esser geloso e possessivo rendendo la vita impossibile a coloro che dice di amare. E a poco serve il generico e poco originale invito ad accettarsi, che pur sembra parola magica oggi, ma che poi nessuno sa bene in cosa consista veramente. E poi non è per niente detto che tutti coloro che sono stati amati d’un amore con tratti possessivi siano per forza diventati gelosi.
    Qui interessa sottolineare che se la lettura è solo mentale, per quanto corretta sul piano psicologico, ancora non contiene vera rielaborazione della trama, e dunque nemmeno effettiva capacità narrativa. È una lettura bloccata, e bloccata all’indietro, come se il passato fosse causa del presente, spesso con conseguente deresponsabilizzazione dell’individuo. Anche se qui c’è maggior partecipazione razionale, la forma narrativa è ancora solo riproduttiva.

    3. Verità che salva e racconto che guarisce

    Un passo ulteriore si compie con l’entrata in scena dello schema logico (il quarto degli elementi costitutivi della narrazione descritti nell’articolo precedente), ossia del nucleo significativo che fornisce verità alla vita e senso al fatto narrato, e rende la narrazione molto intensa dal punto di vista emotivo e non solo intellettuale. Il fatto narrato può riferirsi sia a storie personali, vissute in prima persona, sia a storie in cui il soggetto può ora riconoscersi (per raccontarsi). Questo tipo di racconto ha il potere o determina la conseguenza di riattualizzare non solo il fatto, ma anche le emozioni a esso legate e ora riedite, connesse alla memoria di qualcosa che è stato assolutamente positivo e importante per la persona (poiché legato alla scoperta del senso della vita), e che ora è ricordato, di conseguenza, con memoria grata e commossa, con effetti «terapeutici» di crescita.
    Per dare un’idea di questo livello di lettura, potremmo rifarci al famoso apologo di Buber: «Mio nonno, narra un anonimo credente ebreo, era zoppo. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo Maestro. Allora raccontò di come il Santo Baal-Schem fosse solito saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno allora istintivamente si alzò e raccontò, e il racconto lo prese e trasportò così tanto che ad un certo punto lui, zoppo, senza rendersene conto si mise a saltellare e danzare per mostrare come faceva il Maestro. E in quel momento guarì!». Gli elementi salienti, dal punto di vista psicologico, qui sono: l’identificazione proiettiva del personaggio della storia (il nonno) con il suo Maestro, la grande partecipazione emotiva determinata dalla memoria affettiva (memoria di un rapporto molto significativo), l’attualizzazione terapeutica del ricordo raccontato. Ma soprattutto, qui c’è un contesto significativo che dà un senso importante al rapporto con il Maestro: è memoria del momento in cui alla mente del discepolo si è aperta una prospettiva nuova di vita, come un senso nuovo da dare all’esistenza. Tale memoria spiega il profondo coinvolgimento emotivo che porta addirittura a identificarsi nel gesto fisico del Maestro, cioè alla guarigione: è il contesto – in sostanza – del discepolato con questo Maestro, di ciò che a partire da quel momento ha dato un significato alla vita di questa persona e le ha fatto scoprire la verità. Ricordare e raccontare quell’episodio o quella relazione è come dare ragione della speranza che da allora c’è nel cuore di questo nonno, della ragione di vita, della verità del suo essere. E questo è di per sé terapeutico. In tal caso l’altro appare ed è come la mediazione del senso della vita.
    Così vanno raccontate le storie, secondo qualcuno. O così andrebbero fatte le omelie o rese quelle che noi chiamiamo oggi un po’ sbrigativamente le testimonianze, con un termine un po’ inflazionato: parola testimoniale è invece parola estremamente impegnativa poiché indica un’esperienza personale – all’origine – e quella partecipazione intensa che rende in qualche modo contemporanei all’evento narrato o commentato. Forse questo è anche il senso attualizzante di quell’oggi, proclamato da Gesù nella sinagoga (cf Lc 4,14-21). In effetti questo delizioso apologo chassidico ci fa intendere l’efficacia liberatoria o terapeutica del raccontare e come una storia andrebbe raccontata perché sia efficace per chi ascolta; e lo è solo quando è stata efficace (terapeutica) per chi la racconta, e proprio per questo l’annuncia, ne dà testimonianza.
    Questo tipo di raccontarsi può avere anche tematiche di sofferenza (come l’esempio sopra citato delle violenze subite) e addirittura di peccato. Pensiamo alle storie scritte dai superstiti dei lager. Ci raccontano fatti infami, ma raccontati come un’esigenza impellente che impone loro di scrivere perché altri sappiano, perché non si dimentichi, perché il sacrificio di tanti non vada perduto [4], e certamente raccontati anche come sfogo personale comunque necessario e solitamente efficaceterapeutico.
    Anche raccontare il male è un racconto che salva, a condizione che il narrante abbia trovato un punto centrale attorno a cui raccogliere la propria storia, un nucleo veritativo che gli consenta di dar senso al non senso o addirittura all’assurdo.
    Potremmo far rientrare in questo tipo di narrazione del male o delle bugie dette anche l’episodio «narrato» da Bonhoeffer: «Una volta un maestro, un po’ maldestro in verità, chiese pubblicamente a un suo alunno: “È vero che tuo padre torna a casa ogni sera ubriaco?”. Era vero, in effetti, ma il bambino, già triste e mortificato per questo fatto, abbassando gli occhi per la vergogna rispose di no. Allora un compagno s’alzò e disse: “Signor maestro, lei ha ragione, è vero; io lo vedo spesso suo padre tornare a casa tutto ubriaco”. Ma intervenne ancora un altro compagno: “Signor maestro, io abito proprio accanto, e le assicuro che non è vero”». Anche qui c’è il riferimento a una verità, la verità della dignità dell’altro (del compagno e di suo padre, che a nessuno, a nessun maestro è consentito offendere o esporre in modo indiscreto in pubblico), e che va anteposta alla realtà dei fatti (il fatto che s’ubriachi); questa verità «raccontata» («no, non è vero che si ubriaca…») è terapeutica, perché ristabilisce la dignità di questo padre e permette al figlio di risollevare la testa e non arrossire.
    In questo tipo di narrazione forse non c’è ancora una vera e propria elaborazione o rielaborazione in senso sistematico; non c’è ancora un’operazione capace di raccogliere tutta la trama esistenziale, ma c’è – a partire dalla realtà di una esperienza forte originaria – un’altrettanto forte attualizzazione e una notevole riproduzione emotiva che nel caso di un racconto autobiografico può avere una conseguente funzione catartico-liberatoria, quasi una continuazione nel tempo della sua efficacia, o un approfondimento del suo senso originario (è il concetto di memoria affettiva) [5]. Nel caso che si raccontino storie altrui, non personali, tali racconti diventano fruttuosi quando chi li racconta si lascia prendere e trasportare da essi, quando entra nella narrazione e dialoga con gli attori, sino ad esser egli stesso «attore» fra gli altri. Questo sarebbe il vero racconto, che coinvolge sempre e si traduce in decisioni di vita. Così, se Dio ci ha raccontato Se stesso nella Sacra Scrittura e nel suo figlio Gesù, «racconto» perfetto del Padre, ogni credente dovrebbe ritrovare in quella storia anche la propria storia o ciò che lo spinge ad agire in un certo modo. Così, nel tempo della Chiesa, sono storie efficaci al massimo grado le «storie» sacramentali, come il racconto eucaristico nella messa. E questo ci avvicina al successivo tipo di narrazione.

    4. Al centro della vita: dalla narrazione alla relazione

    Al quarto livello vorrei porre un’esperienza precisa, legata a una sessione di formazione permanente del clero di una grossa diocesi, come Padova. A questi preti fu proposta non la solita conferenza cattedratica, ma semplicemente la condivisione della loro esperienza di fede; furono invitati a «dirsi» in piccoli gruppi il proprio cammino di credenti, una cosa, cioè, assolutamente elementare e al centro della vocazione presbiterale, forse data per scontata da qualcuno o coperta dei soliti pii luoghi comuni o ritenuta assolutamente privata e incomunicabile (non oggetto di narrazione) da certa concezione privatistica della formazione e della spiritualità.
    E invece è successo l’imprevedibile: «A mezzogiorno del lunedì (il primo giorno), dopo la prima fase di questa condivisione, il clima del gruppo era già diverso. La comunicazione personale di ciò che era più intimo, la fede, aveva fatto sperimentare anche l’accoglienza della persona, nella sua umanità, al di là del ruolo. Ognuno si era un po’ donato e si era sentito accolto. Un’esperienza di relazioni autentiche.
    Dall’ascolto era nata anche una stima maggiore l’uno dell’altro, la gioia di appartenere ad un presbiterio. Inoltre si era sperimentato che il Signore continua a scrivere nuove pagine di storia sacra nelle persone e nelle comunità di oggi. Anche queste pagine erano da leggere e da condividere, per continuare la Storia sacra.
    Nell’esperienza di ciascuno era contenuta una ricchezza che andava messa in comune: era come se tesori contenuti finora in cassette di sicurezza venissero messi in circolazione a vantaggio di tutti» [6], o come «si aprisse forse per la prima volta un libro manoscritto con preziose miniature, la vita di fede sofferta di ogni prete [7]. È stata un’esperienza concreta di fraternità presbiterale, si è notata la gioia di appartenere a questo presbiterio…, anche se non è stato semplice portare il presbitero, allenato a discorsi teologici e pastorali, a parlare della propria esperienza di fede, del suo modo d’incontrare Gesù. Non c’era motivo di discussione e di schierarsi, si era chiamati solo ad ascoltare» [8].
    Potremmo raccogliere il senso dell’accaduto attorno a due principi: - narrando la fede (quale elemento significativo di queste persone) si racconta la vita (ovvero, si può raccogliere tutta l’esistenza); - narrando la fede è scattata la relazione (quale effetto terapeutico di crescita con ricaduta largamente positiva sul singolo).
    La narrazione della fede crea il gruppo, il gruppo narrato e narrante scopre e approfondisce la relazione. In altre parole, qui c’è stato il racconto della propria storia attorno a un nesso significativo, qualcosa di assolutamente centrale nella vita di queste persone. Si è scoperto che ciò che sta al centro della vita di una persona (e di più persone) si presta particolarmente a essere narrato, a diventare storia e storia che di fatto abbraccia e racconta la vita, tutta la vita, non solo qualche esperienza di essa come nel livello precedente. “Narrando la fede si sono trovati a raccontarsi la vita”, ovvero la fede come elemento connettivo e significativo.
    Qui assume grande rilievo un altro elemento costitutivo della narrazione: l’interlocutore. Succede, cioè, che quando viene narrato ciò che sta al centro della vita, esso crea relazione e, in questo caso, un autentico rinnovamento della relazione, quasi una scoperta della fraternità, una scoperta dell’altro come colui assieme al quale costruisco senso, un aumento della stima, una purificazione da pregiudizi [9].
    Ed è chiaro, infine, che tutto questo non può non avere una ricaduta positiva sulla persona stessa, sul suo senso dell’io, inevitabilmente rinforzato dalla riscoperta delle sue autentiche radici e dal consenso accogliente dei confratelli nei confronti della sua storia di credente. Per non dire della crescita anche dal punto di vista del cammino di fede, anch’esso incoraggiato e rinforzato dalle storie ascoltate.

    5. Lettura e scrittura della vita: dalla narrazione all’integrazione

    Per me il punto più alto della capacità narrativa è consistito in un’esperienza pedagogica precisa, che normalmente propongo ai miei giovani professi negli ultimi due anni prima della professione perpetua, e dunque a tre di distanza dall’ordinazione sacerdotale: l’esperienza della rilettura e scrittura della propria vita.
    Non come un semplice diario che riporta fatti ed episodi per non dimenticarli, o tanto meno andando a sceglierne alcuni tra quelli che meglio si prestano per dire che tutto sommato Dio non è stato assente dalla mia storia (operazione, questa, sottilmente pagana e psicologicamente ambigua), ma come storia che riempie tutta la vita come storia di salvezza. Vediamo, in dettaglio, questo livello di narrazione.

    Trama. È un narrarsi come un recupero o un’accoglienza di tutta la vita senza nulla escludere, per cogliere in essa anzitutto quel significato oggettivo, già presente ed evidente, che un credente non dovrebbe faticare particolarmente a riconoscere, così evidente che in qualche modo s’impone: è l’integrazione del bene, che suscita gratitudine. D’altra parte, in molte cose che ci sono successe non possiamo pretendere di riconoscere immediatamente la volontà di Dio, c’è stato infatti anche il male, fatto e subìto, l’ingiustizia e la violenza, il peccato… Il narratore adulto impara a integrare anche il male, a dare un significato anche a ciò che non ha senso o pare averne uno del tutto negativo e ostile.
    L’uomo può fare questo: è libero fino al punto di dare un senso nuovo anche a ciò che ha già vissuto e che sembra ormai bloccato nel suo non senso, «quel dar senso» che è la vera riconciliazione. Anzi, questa è la massima espressione della sua libertà e responsabilità da un punto di vista psicologico. D’altronde il credente sa di essere stato salvato proprio da un gesto d’integrazione: il Signore Gesù nella sua passione ha caricato di senso il fatto più insensato della storia, ha riempito di presenza del Padre quell’abisso d’assenza del Padre stesso scavato dall’odio degli uomini; se l’essere umano è stato salvato così vuol dire che è stato messo in condizione di ripetere tale operazione.

    Memoria. A questo livello essa opera secondo un duplice dinamismo.
    Primo, chi racconta, attraverso la purificazione-guarigione della memoria dai virus [10], impara a ricordare da credente, o meglio con una memoria spirituale, che fa sintesi tra la memoria affettiva, razionale, credente [11], un po’ come il pio israelita che credeva ricordando e ricordava credendo [12].
    Secondo, attraverso una vera e propria rielaborazione del vissuto, il soggetto passa dal senso già presente e sufficientemente evidente, che è solo da scoprire, al senso nuovo da attribuire alla realtà, specie a quella negativa e ostile. È il passaggio dalla semplice riconciliazione alla integrazione. Tale rielaborazione non è mai compiuta una volta per tutte, ma è indispensabile che il credente impari a compierla, specie prima di scelte importanti, ma come qualcosa che sarà sempre da arricchire, approfondire, purificare [13]… Questa rielaborazione del vissuto o integrazione, corrisponde sul piano psicologico a quella che Paolo chiama sul piano spirituale il processo di ricapitolazione in Cristo.
    Sono due rielaborazioni articolate sugli stessi dinamismi e che poggiano sulle medesime condizioni, al centro delle quali c’è la necessità di avere un centro forte, quel nucleo significativo che è elemento costitutivo anche nel processo della narrazione, come un punto di riferimento capace di dare senso a tutto, veramente a tutto. In concreto, è la capacità di costruire e ricostruire, comporre e ricomporre la propria vita e il proprio io attorno a un centro vitale e significativo, fonte di luce e calore, nel quale ritrovare la propria identità e verità, e la possibilità di dare senso e compimento a ogni frammento della propria storia e della propria persona, al bene come al male, al passato e al presente, in un movimento costante centripeto di attrazione progressiva. Tale centro, per il credente, è il mistero pasquale, la croce del Figlio che, elevato da terra, attira a sé tutte le cose (cf Gv 12,32).

    Parole dette e scritte. Questo leggere in modo nuovo la propria esistenza è ancor più efficace se diventa uno scritto; scrivere, infatti, è la più alta forma del pensare, poiché indica una sorta di compimento del processo logico-riflessivo, o la conclusione di quell’esercizio di attribuzione di senso al proprio vissuto.
    Conclusione provvisoria, certo, ma in ogni caso impegnativa e vincolante, segno di quell’esercizio di libertà e responsabilità che indicano la maturità dell’uomo e del credente.
    Interlocutore. A questo punto, allora, scrivere la propria vita diventa come una narrazione che il soggetto «racconta» anzitutto a se stesso, quasi ininterrottamente, ma il cui primo interlocutore è Dio, come un dialogo con lui; e che può esser validamente raccontata ad altri, agli altri come parte vitale del racconto e come coloro con cui si cerca e si condivide un senso per il proprio vissuto. Il racconto, allora, diventa come una testimonianza non solo di esperienza di Dio, ma di radicale accoglienza della vita in tutta la sua pienezza di senso. Una vita che, così accolta e riempita di senso, vale davvero la pena raccontare.

    Alcune regole per narrare correttamente

    - Se vuoi narrare agli altri devi raccontare a te stesso. C’è una lettura da fare anzitutto dentro di sé.
    - Narrare vuol dire costruire eventi logici, percorsi coerenti e lineari. Se non hai un centro che ti consente di raccogliere la vita e dare un senso a tutto di essa, non puoi raccontare.
    - Non accontentarti di leggere, ma impara a scrivere, altrimenti non saprai nemmeno più leggere. Anzi, dubita di aver capito e integrato ciò che non sai tradurre in parole che tutti possano intendere. La triade corretta e progressiva sarebbe: leggere-scrivere-narrare.
    - Un racconto o una storia personale di per sé dovrebbe poter cambiare, nel senso che non è mai fatto una volta per tutte, né è mai completo, pur restando fermo lo schema fondamentale interpretativo. Più passa il tempo e la persona cresce e matura, più dovrebbe approfondire e sviluppare la propria capacità di lettura e la libertà di dare un senso nuovo al vissuto, sempre più creativo e coerente con il proprio nucleo veritativo.
    - Ogni tanto fai una revisione o scansione della tua memoria. Gli innumerevoli virus che la insidiano e cercano di penetrare nel suo sistema potrebbero infettare anche cuore e mente. E deformare la narrazione o renderla impossibile.
    - Cerca sempre un interlocutore: Dio, anzitutto, e un altro, se possibile, o altri, con cui condividere qualcosa di significativo. Non c’è fraternità, né relazione, laddove non c’è narrazione. In ogni caso non stare a parlarti addosso.
    - Sii disponibile all’ascolto quando un altro si racconta, sospendendo ogni giudizio, pregiudizio, valutazione morale o interpretazione psicologica; semplicemente impara ad ascoltare le narrazioni altrui. Anzi, lasciati toccare da esse.
    - Pensiero narrativo e narrazione possono esser valido strumento comunicativo, specie quando si tratta di veicolare verità difficilmente comunicabili con i semplice pensiero logico (dalla catechesi all’omelia, nella comunicazione di massa o nel rapporto col singolo).
    - La narrazione tipicamente cristiana nasce dalla preghiera e conduce alla preghiera; è fondamentalmente atto orante. Raccontarsi dinanzi a Dio significa ascoltare la narrazione che Dio fa di noi a noi stessi.
    - La narrazione non è fatta solo di parole, ma anche di gesti e simboli, di arte e di poesia. Non occorre esser artisti per esprimersi; occorre e basta aver un significato forte da trasmettere, conosciuto e sperimentato nella propria storia, ponendo assieme gesto e parole.

    NOTE

    1 A. Cencini, Raccontare e raccontarsi (I); dalla scoperta del senso all’attribuzione di senso, in «Tredimensioni», 4 (2007), pp. 249-255: https://www.isfo.it/files/File/Studi%203D/Cencini07.pdf
    2 Cf M. Bottura, Il racconto della vita, in «Tredimensioni», 4 (2007), pp. 32-41, p. 33: https://www.isfo.it/files/File/Studi%203D/Bottura07.pdf
    3 P. Salmon, Living in Time. A New Look at Personal Development, Dent, London 1985, pp. 138-139.
    Cf anche D. Demetrio, La ricerca dell’identità nell’autobiografia, in «Animazione sociale», 11 (2002), pp. 10-15.
    4 Un recente libro di una di questi superstiti (Masha Rolnikaite) è intitolato proprio Devo raccontare,
    Piemme, Casale M. 2006.
    5 È la memoria affettiva a determinare questo stretto collegamento tra passato e presente, che alcuni intendono in modo assoluto, per cui se è ricordo positivo avrà un seguito positivo, ma se è negativo diventa come una negatività che si ripete, come fosse un destino.
    6 G. Zanon, Per sentirsi sempre protagonisti del nuovo, in «Vita Pastorale», 8/9 (2006), pp. 104-105.
    7 Per indagare sulle difficoltà incontrate nel cammino credente la consegna per la riflessione individuale e di gruppo era questa: «Ognuno scelga una di queste domande per raccontarsi: quale situazione critica ho attraversato in cui la mia fede è passata al vaglio della prova ed è ulteriormente maturata? Come prete, nell’attuale contesto culturale, in quale aspetto della vita di fede mi riconosco più esposto e mi sento più interpellato?».
    8 G. Zanon, Esperienza della diocesi di Padova nella formazione permanente dei presbiteri, dattiloscritto, Padova 2002, p. 2. Su questa esperienza cf anche G. Zanon, Formazione permanente del presbiterio; la potenza operativa del raccontare la propria fede, in «Tredimensioni», 4 (2007), pp. 193-203: https://www.isfo.it/files/File/Educatori%203D/Zanon07.pdf
    9 Mi sembra molto bella questa testimonianza: «La ricchezza sorprendente e inaspettata di sapere e poter raccontare di sé, avvertendo che quanto più diventava autentica la comunicazione, tanto più grande era la gioia della condivisione. Per molti è stata una felice sorpresa quella di sapere e poter condividere in profondità tra preti. Pur nella diversità di età, provenienza e ministero, aiutati sapientemente dalle persone dell’equipe, siamo entrati con facilità in un clima sereno di non giudizio e non competizione. Senza timore abbiamo potuto manifestarci ed esprimerci nell’accettazione, assaporando uno stile desiderabile anche per i propri fratelli presbiteri (in ambito parrocchiale, zonale…)» F. Mandonico, Racconto delle tre “settimane sabbatiche”, in «Presbyteri», 9 (2006), pp. 703-704.

    10 Circa questo processo di purificazione della memoria cf A. Cencini, L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, San Paolo, Cinisello B. 2005, pp. 181-192.
    11 Cf Ibid, pp. 193-231.
    12 Titolo di questa esercitazione è: «la vita come storia, la fede come memoria».
    13 Faccio questa esperienza anche al corso dei formatori dell’Università Salesiana di Roma, ove questa stessa rilettura-riscrittura della vita viene proposta in chiave didattica, anche se in tempi più ridotti.



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