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    Percorsi educativi

    dell'interiorità

    Marisa Musaio


    P
    osti i termini della questione dell'interiorità, che è tale solo se implica il discorso correlativo della relazionalità, occorre interrogarsi sui percorsi riflessivi e operativi idonei allo sviluppo di tale dimensione che non può darsi se non all'interno della totalità dell'esperienza che la persona vive, avendo come obiettivo la piena integrazione tra interiorità, vita di relazione e ricerca veritativa.

    Educare allo sguardo in profondità

    Sviluppare l'interiorità come autoconoscenza implica il prendersi cura di sé per essere in grado di prendersi cura dell'altro. Come sottolinea Novara, prendersi cura di sé sul piano autoformativo è uno dei passi fondamentali per riuscire ad educare anche gli altri senza cadere in modalità educative di pura conservazione e tanto meno in coazioni a ripetere [85]. È per tali ragioni che la formazione degli educatori dovrebbe prendere in considerazione percorsi idonei a far acquisire non soltanto specifiche competenze teorico-pedagogiche ma anche l'esercizio, all'interno delle diverse e articolate fasi della programmazione educativa, del prendersi cura di se stessi per raggiungere una maggiore consapevolezza del proprio ruolo educativo, non vincolandosi necessariamente a competenze puramente psicologiche, ma alimentando la capacità di formarsi all'ascolto interiore perché «Formarsi, in uno sforzo di introspezione, è il compito principale di chi vuol essere a sua volta educatore» [86].
    Per essere educatori attenti siamo chiamati ad esercitare la nostra capacità di guardare, non nei termini del semplice osservare ma come sguardo condotto in profondità, così come significa saper guardare per essere in grado di giudicare e comprendere i bisogni e le esigenze degli educandi.
    Negli scritti del poeta Rainer Maria Rilke possiamo rintracciare tentativi per configurare lo spazio interiore, come ambito privilegiato per apprendere ed imparare dalle cose e dalle persone, che induce a intendere il vivere come una sorta di apprendistato continuo per imparare a vedere in senso più profondo. L'attività del vedere è qui da intendersi in riferimento ad una pratica del guardare in profondità che dovrebbe essere fatta propria da ogni soggetto mentre impara a penetrare in un modo più profondo la realtà: «Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada» [87], rilevava Rilke.
    L'attività del vedere dentro di sé va di pari passo con l'immagine della parte interna di noi che inizialmente impariamo a vedere attraverso il volto degli altri: «Non mi era capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano. C'è un'infinità di uomini, ma i volti sono ancor più numerosi poiché ciascuno ne ha più d'uno. Vi sono persone che portano un volto per anni, naturalmente si logora, diviene laido, si piega nelle rughe, si sforma come i guanti portati in viaggio. Queste sono persone econome, semplici; non mutano di volto, non lo fanno pulire neppure una volta. Va bene così, sostengono, e chi gli può dimostrare il contrario? Solo, viene da chiedersi. Poiché hanno più volti, cosa ne fanno degli altri? Li mettono in serbo. [...]. Altri si mettono un volto dopo l'altro con rapidità inquietante, e li logorano. [...] Non sono abituati a tener da conto i volti, [...], a poco a poco vien fuori il rovescio, il nonvolto, e vanno in giro con esso» [88].
    Imparare a vedere a fondo nelle cose della vita significa infatti scontrarsi anche con l'insignificanza, con la falsità, ed imparare, ciò nonostante, ad accostarsi alla soggettività come qualcosa di unico e di singolare.
    L'importanza di guardarsi dentro, sino agli abissi e ai lati oscuri, per ricercare, come insegna il poeta Rilke al suo giovane allievo mentre lo esorta ad indagare dentro di sé quali siano le ragioni che lo inclinano all'esercizio dell'arte poetica, quale sia «il profondo delle cose» [89] senza guardare all'esterno, ma guardando dentro di noi e interrogandoci sui motivi che animano la nostra ricerca, quasi frugando dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta: «la sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza» [90].
    Guardare dentro di sé, esplorare la profondità da cui scaturisce la nostra vita [91], vuol dire seguire e vivere il proprio sviluppo personale come una sorta di «discesa» nel proprio intimo: «Lasciare che ogni impressione e ogni germe di un sentimento si compia tutto dentro, nell'ombra, nell'indicibile e inconscio e inattingibile alla propria ragione, e con profonda umiltà e pazienza attendere l'ora della nascita di una nuova chiarezza» [92]. Vivere la solitudine interiore equivale a «Volgere lo sguardo dentro sé. [...] Essere soli come eravamo soli da bambini, quando gli adulti andavano e venivano, compresi di cose che parevano importanti e grandi perché i grandi sembravano tanto affaccendati, e perché del loro agire non capivamo nulla» [93]. Alla stessa maniera guardare e considerare la realtà delle cose e dei problemi dinanzi a noi non deve lasciarci fuorviare dall'esterno e dall'esteriorità, ma implica saper dispiegare la propria solitudine su «ampie distese» pur sapendo che vivere la propria solitudine è difficile.
    L'esigenza di indagare l'interiorità è la molla che muove in molti casi il linguaggio dell'arte e della creazione nelle sue diverse forme, quando la necessità di scavare dentro di sé si accompagna al racconto della sofferenza e della malattia. Si pensi, per esempio, a come la persona possa rintracciare nelle diverse espressioni di raccoglimento una forma di mediazione per indagare l'interiorità, per ricavarne una spiegazione possibile.
    In un rapporto educativo prima di predisporsi al raggiungimento di obiettivi di apprendimento e di insegnamento, prima di disporsi razionalmente e operativamente all'agire, occorre avere consapevolezza di quello che accade all'interno di noi stessi come educatori, per poter essere in grado di comprendere che cosa accade all'interno dell'educando. Mettersi in atteggiamento di ascolto verso se stessi e la propria educabilità significa già di per sé mettersi in ascolto anche nei confronti della realtà dell'altro.
    Educare all'interiorità non è percorso agevole, ma necessario se si vuole aiutare l'educando a crescere non solo nell'immanenza del proprio io ma attingendo alla propria capacità di trascendersi [94]. È importante a tal fine stimolare, sia nell'educatore sia nell'educando, un ascolto di tipo profondo che induce a sperimentare e vivere un atteggiamento improntato alla condivisione delle emozioni sia come protagonista dell'ascolto, sia come ascoltatore capace di instaurare un rapporto empatico di accoglienza delle emozioni espresse dall'altro.
    L'ascolto profondo asseconda la crescita personale e lo sviluppo dell'interiorità di ogni persona [95]. Dal punto di vista del soggetto significa realizzare e sviluppare una sintonizzazione con la propria realtà più intima: «Cosa accade quando concediamo attenzione al nostro mondo interiore? Notiamo che è composto di diverse cose: sentimenti delicati o drammatici, provocazioni subite dagli altri, espressioni facciali ed eco di parole e suoni, immagini di paesaggi, convinzioni radicate, bisogni di protezione o desideri di cambiamento. Questa attenzione interiore ci aiuta a percepire più chiaramente gli elementi del nostro mondo interiore. In effetti, la nostra realtà interiore diventa più intensa. Cosa accade invece quando offriamo ascolto profondo? Entriamo in un'altra realtà, nel mondo di un'altra persona. Procediamo lentamente, orientando la nostra attenzione, soppesiamo le parole che ci vengono dette e individuiamo i sentimenti che stanno intorno. [.. .] Quando offriamo ascolto profondo agli altri, offriamo al tempo stesso ascolto profondo a noi stessi. Situazioni di delusione e sofferenza ci ricorderanno le nostre» [96].
    L'ascolto profondo implica che impariamo ad aprire la mente e il cuore alla realtà dell'altro e questo comporta un arricchimento perché, quando torniamo alla nostra realtà personale, ne sappiamo qualcosa in più su quella che rappresenta l'enorme tessitura della realtà umana [97].
    L'ascolto profondo orienta a chiarire le vicende problematiche vissute dal soggetto, in particolare la natura del problema che lo affligge e i sentimenti che lo accompagnano. Spesso nella considerazione del problema il linguaggio si rivela insufficiente: «Il linguaggio effettivamente presenta dei limiti nel dare voce a esperienze di sofferenza profonda. Ma nell'ascolto profondo si raggiunge un livello di confidenza molto superiore rispetto a quello di mero scambio di semplici parole! Profondi sospiri, voce tremolante, pause tra le parole, esitazioni nel movimento corporeo, improvviso agitarsi delle braccia, incurvarsi delle spalle, abbassamento dello sguardo: sono tutte manifestazioni di un altro linguaggio. L'evento viene espresso e trasmesso in modo fisico» [98].
    Le sottolineature riportate servono a rilevare come nell'esercizio di un ascolto profondo sia necessario maturare una specifica competenza rintracciabile attraverso la successione di alcune fasi essenziali: la condivisione della realtà emotiva dell'altro tutte le volte in cui vi è la rilevazione di un problema che lo coinvolge; l'esame delle cause scatenanti il problema e il disagio che lo coinvolge, insieme ad un lavoro di incoraggiamento ad aprirsi e non a chiudersi al problema stesso; il riconoscimento dell'emozione che accompagna la sua situazione di vita per affinare l'attenzione interiore e fare in modo che le emozioni trovino espressione attraverso molteplici modalità verbali e non verbali, metaforiche, immaginifiche, riconoscendo che, quando si riesce a ridurre la distanza tra l'emozione e le parole, quando ci viene data la possibilità di raccontare un momento per noi doloroso, chi accoglie in modo ricettivo il nostro racconto, offre al tempo stesso anche una possibilità di soluzione e di sollievo alla persona in difficoltà.

    Educare al rapporto con la verità

    Aver cura dell'interiorità implica, come educatori, sviluppare la consapevolezza dei problemi, delle paure e degli smarrimenti che l'uomo avverte di fronte al senso della vita, dell'amore e della morte, ma anche nei confronti della ricerca della verità, in considerazione del fatto che l'educazione non coincide né con l'individuazione di risposte predeterminate, né valide per tutte le situazioni, né con affermazioni di principio prive di ricadute sulla vita personale.
    Per un'educazione all'interiorità valgono quelle indicazioni che aiutano a salvaguardare la persona tanto da identificazioni che tendono ad assorbirla nel tutto privandola della sua singolarità e disperdendola in una molteplicità dal carattere indefinito, tanto da identificazioni che, concentrando l'attenzione su una soggettività ripiegata intimisticamente su se stessa e staccata da ogni alterità, giungono comunque a negarne e ad esaurirne ogni autenticità. A proposito dell'affermazione del principio dell'interiorità, Giuseppe Riconda fa notare come non sia sufficiente richiamare soltanto nominalmente tale principio se esso non è richiamo al tempo stesso all'Essere e alla Verità, rapporto indisgiungibile e «coessenzialità di intimità e ulteriorità veritativa» [99]. Affinché una riflessione intorno al «movimento dell'interiorità» possa avere riflessi significativi sul piano dell'educazione, deve essere affrontato in termini di costitutivo essenziale della persona: «La persona è certo presenza a sé medesima, autorelazione, coscienza e riflessione su di sé; ma ciò non vuol dire che si esaurisca in questa autorelazione, ché anzi l'eterorelazione le è altrettanto costitutiva: intimità di sé a sé e ulteriorità rivelativa sono i due termini che definiscono l'essere personale» [100].
    Il problema dell'interiorità pone pertanto quello di capire in che modo si coniughi l'attenzione per l'intimità, in termini di attenzione per sé, per la propria vita personale, esigenze, aspirazioni, con una realtà esterna, con un Essere che non è soltanto pura oggettività tale da ridurre il rapporto che la persona ha con esso a schema di rapporto tra soggetto-oggetto: «La persona non può essere definita in termini di pura soggettività perché essa si costituisce come prospettiva vivente sull'Essere, e l'Essere non può essere definito in termini di pura oggettività, perché la sua ulteriorità è da intendersi come inesauribilità, capacità di darsi infiniti aspetti o prospettive che suscita senza mai ridursi a nessuna di esse o alla loro totalità» [101].
    Il lavoro che siamo chiamati a compiere si pone pertanto sempre più sul piano di una comprensione e interpretazione della vita personale. L'interiorità della persona richiede di andare oltre quello schema di spiegazione soggetto-oggetto per propendere piuttosto verso uno schema di carattere interpretativo che metta in evidenza come l'Essere si offre e si manifesta nella prospettiva di carattere personale, si dà come presenza reale nella persona, ma anche come ulteriorità che la persona può possedere solo attraverso un movimento di approfondimento di se stessa, di autoconoscenza e autocostruzione che consiste nell'approfondimento di quella prospettiva sull'essere che lei stessa rappresenta. Da ciò deriva che «Spetta alla persona lo scegliersi come quella prospettiva sull'Essere che essa è, facendo della sua vita temporale (della sua storicità) l'organo della rivelazione dell'Essere, o viversi nella banalità della dispersione di sé, in un tempo vuoto di verità e popolato dai fantasmi dell'onnipotenza e della depressione» [102]. È nelle mani della persona, attraverso l'interpretazione, fare della sua vita un'apertura all'Essere e alla Verità, pur affrontando le esperienze negative e limite come il dolore e la sofferenza. Anche dal dolore e dalla sofferenza è possibile far nascere una propria visione dell'esistenza, un racconto individuale in grado di intrecciare riferimento alla storia personale e interiorità, che non escluda ma, anzi, in molti casi sia in grado di far inclinare verso la ricerca di una possibile strada verso l'interiorità, pur nella materialità e nella tragicità dell'esistenza.
    L'esempio dell'autonarrazione trasmessaci da Etty Hillesum, una giovane donna olandese di origini ebraiche confinata in un campo di smistamento per essere poi deportata ad Auschwitz dove morirà nel 1943, si pone emblematicamente come espressione di una ricerca interiore condotta in modo assolutamente personale, nella quale la persona non cede all'annientamento, perché il contatto con un mondo sconvolto diventa piuttosto l'avvio per una maturazione spirituale, la ricerca incessante dell'essenziale, del veramente umano in aperto contrasto con l'inumanità che la circondava. Il suo interrogarsi non è soltanto quello di una persona che vive condizioni estreme, ma l'interrogarsi più ampio sul senso della vita, quella domanda che porta a chiedersi se essa abbia ancora un senso e che induce a vedersela esclusivamente con se stessi e con Dio: «Forse ogni vita ha il proprio senso, forse ci vuole una vita intera per riuscire a trovarlo» [103], rileva la Hillesum. Ma accanto all'esperienza del dolore e dell'assurdità più totale, la giovane donna non perde l'ordine e la coerenza, anzi, lo riconquista guardando in faccia il dolore, compiendo la sua battaglia personale: «Mi sento piuttosto come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi, o almeno alcuni problemi del nostro tempo. L'unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire. [.. .] Scorro di nuovo nel mio stretto alveo e il contatto con "Umanità", "Storia Universale" e "Dolore" s'è interrotto un'altra volta. [.. .] Non ci si può sempre perdere nei grandi problemi, non si può essere sempre come un campo di battaglia; dobbiamo recuperare i nostri stretti confini e continuare dentro di essi – scrupolosamente e coscienziosamente – la nostra vita limitata, mentre quei momenti di contatto quasi "impersonale" con tutta l'umanità ci rendono ogni volta più maturi e profondi» [104].
    Se è vero che la persona è fatta per ricercare la verità, mentre conosce, il rapporto con la verità deve essere allo stesso tempo esterno ed interno ad essa e, tanto più interno, quanto più la persona si esteriorizza e si oggettiva. Dotata di libertà, la persona che conosce è come una base mobile nell'ampio spazio della comprensione che essa si trova ad esercitare come elemento originario della conoscenza, attraverso il quale essa si muove e si sperimenta in tutte le direzioni, ma in particolare verso il basso, cioè verso gli oggetti e i fatti materiali della vita, il reale vissuto e sentito; e verso l'alto, ossia verso una forma di conoscenza nella quale la verità non è soltanto cercata ma anche amata per essa stessa; è qui, nella pienezza della verità, che il reale vissuto e sentito, è anche amato, il reale e il bello coincidono perché la verità delle cose ricercata non è soltanto fattuale ma possiede anche una profondità, una bellezza alla quale l'anima risulta sensibile.
    La comprensione è pertanto il centro del rapporto che il soggetto instaura con la verità, e lo spazio della comprensione verso il reale che noi mettiamo in atto, è la relazione interiore alla verità. Interessante risulta in tale direzione rintracciare esempi di percorsi spirituali che la persona è in grado di compiere su se stessa, pur vivendo esperienze limite. Nel suo Diario la Hillesum scrive: «Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e da sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo» [105].
    L'esperienza estrema che ci viene riportata richiama l'importanza di non disperdersi, per ritrovarsi invece dentro se stessi. A tal proposito la Hillesum annota: «A volte siamo così distratti e sconvolti da ciò che capita, che poi fatichiamo a ritrovare noi stessi. Eppure si deve. Non si può affondare, per una sorta di senso di colpa, in ciò che ci circonda. E in te che le cose devono venir in chiaro, non sei tu che devi perderti nelle cose» [106]. Andando oltre ogni schematizzazione e riduttivismo, «la vita non può esser colta in poche formule. In fondo, è quel che stai cercando di fare tutto il tempo e che ti porta a pensare troppo: stai cercando di rinchiudere la vita in poche formule ma non è possibile, la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata. Ma semplicemente potresti essere tu....» [107].
    Conoscersi è ascoltarsi e, soprattutto, ascoltarsi dentro: riuscire a vivere imparando a disporre delle proprie forze più profonde, ascoltarsi dentro e non lasciarsi guidare esclusivamente da ciò che ci avvicina da fuori, ma da quello che «s'innalza dentro» [108].
    La conoscenza interiore non va intesa come distacco dagli altri ma come modalità per entrare più intensamente in contatto con loro, e riuscire a scandagliare l'uomo in profondità, per vedere le cose che in lui sgorgano da sorgenti profonde e non soltanto da cose apparenti o sensazionali. «Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi, [.. .] e non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi» [109].
    Anche il male e il dolore non sono fuori dell'uomo ma nascono dentro di lui, implicano la consapevolezza che tutti gli orrori che esistono al mondo non sono un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma possono trovarsi vicinissimi e nascere all'interno di ognuno di noi.
    L'autonarrazione interiore della Hillesum sta a dimostrare come l'uomo possa essere in grado di registrare con grande nitidezza, come attraverso le parole di un diario, non solo un'esperienza personale di sofferenza ma soprattutto il riflesso interiore che questa determina dentro noi stessi. Coinvolta in un destino pesante che diviene sempre più «destino di massa» da sopportare insieme agli altri, preparandosi al momento estremo della deportazione, la Hillesum descrive il cammino di una persona che comincia gradatamente ad abituare se stessa ed il proprio cuore ad andare avanti anche quando sarà lontana dagli altri e dalle cose più care: «Il mio distacco esteriore aumenta di giorno in giorno per far posto a un sentimento interiore – la volontà di continuare a vivere e a sentirsi legati per quanto lontani si possa essere uno dall'altro. [...]. In questo mondo sconvolto, le comunicazioni dirette tra due persone passano ormai solo per l'anima. Esteriormente si è scaraventati lontano e i sentieri che ci collegano rimangono sepolti sotto le macerie, cosicché in molti casi non potremo mai più ritrovarli. La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di una vita in comune è possibile solo interiormente» [110].
    Soltanto un lavoro di rinnovamento interiore può preparare tempi nuovi nella storia dell'uomo, e questo è uno dei modi che abbiamo a disposizione per realizzare la comprensione di noi stessi come atto che corre parallelo alla comprensione degli uomini e del loro presente.
    L'esperienza di questa donna che si definisce un «cuore pensante della baracca», perché riconosce la riflessione interiore e, in particolare, quel «riposare in se stessi» come il modo di sentire la vita, nel senso di riposare nella parte più profonda di sé, quella parte ricca di sé che, afferma la Hillesum, «io la chiamo "Dio"» [111], si delinea come un percorso emblematico dell'interiorità perché ad un'esperienza estrema di vita viene contrapposta la soluzione che attinge all'interno di noi stessi. Attraverso l'autonarrazione fitta ed intensa, riesce ad annotare non soltanto dettagli, eventi riguardanti un dramma generale, ma anche un dramma personale al quale viene contrapposta la forza dell'autoriflessione e dello scavo interiore, la ricerca delle ragioni della propria esistenza, come una sorta di autoapprendimento personale condotto nell'opposizione tra forze dell'io e forze esterne della realtà e della storia.
    Seguendo un proprio itinerario di approfondimento, risulta possibile maturare una sensibilità religiosa e un intenso dialogare con il divino. Annotando con trasparenza e verità tutto ciò che riguarda i rapporti personali, le amicizie, il mondo degli affetti, le impressioni, le persone e le emozioni che la toccano più da vicino, la Hillesum riesce a scandagliare sempre meglio il suo mondo interiore, infatti a questo proposito rileva: «Credo di vedere sempre meglio gli abissi che inghiottono le forze creative e la gioia di vivere dell'uomo. Sono buche che ingoiano tutto e queste buche sono nella nostra stessa anima» [112].
    Rientrare dentro di sé serve a poter capire meglio la realtà, ma non per staccarsi da essa ma per entrare maggiormente in contatto, perché è soltanto confrontandomi con la realtà e tutto ciò che mi circonda sul mio cammino che, come rilevava Edith Stein, riesco ad accogliere e nutrire il mondo esterno con il mio mondo interno e viceversa. Certamente, le esperienze morali e spirituali di carattere profondo, sono quelle che tendono a rispecchiare più di altre la presenza dell'io interiore. Solo dall'io interiore l'esperienza spirituale di qualsiasi genere acquista profondità e realtà, diventa comunicabile agli altri, anche se vi sono livelli differenti della nostra natura spirituale, così come parallelamente vi sono diversi livelli di apprendimento all'interno della nostra capacità di esplorarli.

    Educare all'intimità

    Sollecitando una lettura intorno alla posizione che l'uomo è chiamato ad assumere nell'affrontare i cambiamenti determinati da una società fondata sulla tecnica, primo fra tutti quello di «intaccare l'intimo dell'uomo», Romano Guardini ha sostenuto a più riprese la necessità di attuare una presa di coscienza non tanto nell'ordine del capovolgere tutti i nostri riferimenti né attuando uno sterile ritorno al passato, ma tentando di conseguire «una nuova sicurezza interiore» perché, come egli rilevava, si tratta più che altro di «scoprire un nuovo strato nella intima profondità dell'essere umano» [113].
    Il cambiamento da ricercare, per gestire la difficile condizione dell'uomo, non è tanto di ordine esterno, ma scaturisce ed è da ricercarsi in profondità, da qui la rilevazione di Guardini: «Sento che avverrà una penetrazione in profondità. L'uomo d'oggi non è più quello del diciannovesimo secolo; quell'uomo che, sicuro di sé, si muoveva con arroganza nella sfera della realtà fisica e di quella psichica. Si ha l'impressione che si sia aperta una dimensione interiore che attiri a sé l'uomo. C'è una nostalgia che ci sospinge verso l'interiore, verso la quiete; una volontà di trarsi dalla mischia e di entrare nel raccoglimento, ma in un raccoglimento che non neghi l'essere e l'agire della vita che ci attornia, ma sia nel cuore di questa. Noi intuiamo delle possibilità di concentrarci, di interiorizzarci nel quotidiano» [114].
    Si inserisce in questa direzione l'esigenza di renderci efficaci nell'esercizio dell'arte di trovare in noi stessi qualcosa di profondo, per entrare in relazione con il mondo, perché l'intimità è «un'esigenza concreta della persona», afferma Mounier, che esprime quella duplice vocazione della persona di raccogliersi esprimendosi [115], perché la persona «è un dentro che necessita di un fuori» [116], perché «bisogna uscire dall'interiorità per mantenere l'interiorità» [117].
    Nella riflessione di questo autore il percorso personale verso il riconoscimento della propria interiorità viene in definitiva articolandosi in una sorta di «conversione intima» alla quale l'uomo risulta chiamato.
    Il termine conversione indica da subito che non si tratta di un rinchiudersi o ripiegare nella realtà chiusa della soggettività, ma di attivare un movimento attraverso il quale la persona riesce a convogliare tutte le sue forze per riprendere in mano e riaffermare la propria esistenza autentica: «i termini propri del raccoglimento (riprendere, riafferrare) ci ricordano tuttavia che si tratta di una conquista attiva, l'opposto di un ingenuo abbandono alla spontaneità e alla fantasia interiori» [118].
    Ma occorre fare bene attenzione a come viene inteso il richiamo alla propria intimità: essa nasce dal momento in cui l'uomo, che vive estraniato da se stesso, completamente identificato nei propri desideri, abitudini, funzioni e relazioni, in un mondo che lo distrae, rompe il contatto con l'ambiente per ritornare a possedersi, per riportare se stesso al centro e recuperare la sua unità. In questo movimento di raccoglimento noi ritroviamo «una sorta di pienezza, il sentimento di intimità, [.. .], la gioia di ritrovare le proprie sorgenti interiori» [119].
    Attraverso il movimento verso l'in sé, nell'essere presso se stesso, possiamo accedere ai valori del silenzio, del raccoglimento, ma anche, sottolinea Mounier, al valore e al rispetto della propria e dell'altrui intimità e del pudore: se l'intimità è un'esperienza potremmo dire di vicinanza, di rispetto con noi stessi, non presente in tutti coloro che, vivendo all'insegna dell'esibizionismo continuo, sempre in relazione all'esterno, sono come al di fuori di sé, in una condizione di distanza profonda rispetto a loro stessi che li priva del rispetto della propria intimità; il pudore è invece quel sentimento che, rientrando anch'esso nella natura intima della persona, le assicura di non vedere la propria esistenza ridotta a quella manifesta del suo corpo, ma di vedersi riconosciuta come qualcosa di infinitamente più ampio di ciò che gli altri guardano o colgono esteriormente nella sua realtà fisica o attraverso i sentimenti.
    Il dettaglio di ciò a cui il movimento verso la propria natura più intima ci consente di accedere, non indica però ancora nulla su come debba avvenire il nostro accostamento a quella componente della persona che con parole altrettanto efficaci Mounier indica come quel «battito di vita intima» da cui incessantemente la persona riesce a estrarre la sua ricchezza. Quello che potrebbe apparire come un semplice ripiegamento narcisistico e intimistico su se stessi va invece inteso e praticato nel senso di un movimento che si distende tra i due poli della nostra «esistenza incorporata»: il polo dell'espropriazione e quello dell'appropriazione, che non sono altro che il movimento dell'esteriorizzarsi e quello dell'interiorizzarsi, entrambi essenziali alla vita della persona in un rapporto di complementarità che induce ad evitare di estremizzare sia l'uno sia l'altro. Così come l'uomo che vive identificandosi con l'esteriorità vive come estraniato da sé, così la struttura della vita personale implica riflessione, anche se essa non è soltanto sguardo interiore, ma intenzione e proiezione che si irradia verso l'esterno: «Non bisogna disprezzare troppo la vita esteriore, senza di essa la vita interiore diventa assurda, così come, senza la vita interiore, quella esteriore delira da parte sua» [120].
    Se l'uomo è condotto naturalmente verso la realtà in un continuo sforzo di assimilazione, così come è condotto verso gli altri per instaurare rapporti dei quali ha costitutivamente bisogno, egli esce da sé per poi farvi ritorno e ritrovarsi attraverso un movimento che va al centro unitario di se stesso ma non come un qualcosa che si trova al fondo di se stesso, ma principalmente come una presenza attiva che tende a irradiarsi verso l'esterno.
    La presenza di un nucleo interiore della persona come componente da riscoprire all'interno delle relazioni educative risulta associata dallo studioso Mantí García al concetto di intimità per indicare la sfera più riservata della persona, componente propria di ognuno, espressione dell'unicità e dell'irripetibilità che ci contraddistingue. In quanto coincidente con il nucleo più recondito di noi stessi, sede dei vissuti più intimi, centro della coscienza riflessiva, l'interiorità non va soltanto riconosciuta ma primariamente praticata: «Non è però sufficiente avere un nucleo personale al quale ascrivere la propria identità. Bisogna frequentarlo, abitarlo, per fare in modo che questo spazio interiore della nostra personalità sia una persona viva in noi, nulla vieterebbe infatti di trascurarlo o di non dargli alcun peso. Dunque, oltre ad essere consapevoli di questo universo interiore è anche necessario frequentarlo con assiduità, per farne il vestibolo d'accesso al nostro mondo esteriore» [121]. Ma ciò che crea problema soprattutto nella pratica educativa è che l'uomo vive come sbilanciato fuori dal proprio mondo interiore, piuttosto che rivolgere lo sguardo dentro di sé per analizzare la propria vita e prestare attenzione alle esigenze dell'interiorità. Vi sono come dei percorsi falsati che lo distolgono più di tutto dal raccoglimento interiore che dovrebbe corrispondere con la capacità di conoscere e interpretare se stessi per tendere verso una vita autentica perché «Essere uomo equivale a sapere chi si è, a conoscersi, a possedersi, a interpretarsi. Essere uomo è darsi un significato, una direzione, una spiegazione. Essere uomo è, in ultima analisi, "auto trascendersi"» [122].
    Vi possono essere percorsi che tendono ad allontanare l'uomo dalla relazione con se stesso, si pensi alla ricerca dell'attivismo esasperato che spinge a proiettarsi soprattutto all'esterno per valutare valori quali l'efficacia, la capacità organizzativa, il risultato, la produttività delle proprie azioni, tutte tendenze che spostano il baricentro dell'uomo al di fuori di sé, tanto che «L'immagine dell'io si sostituisce all'io vivente, più esattamente l'io si guarda vivere, per lui ha importanza solo l'effetto che produce o l'effetto che si produce» [123]; all'avventura del possedere e dell'avere che spinge la vita verso una frenesia di possesso; alla tendenza al dis-incontro, termine adatto a definire uno stile di vita non autentico nel quale la persona, ignara di ciò che avviene nel proprio mondo interiore, si sottrae agli impegni presi con sé stessa, tende a mettere la propria vita tra parentesi, conferendole un carattere di precarietà, sottraendosi all'assunzione di scelte e impegni dal carattere definitivo [124].
    L'uomo ha il compito invece di sondare la propria interiorità per non vivere sempre proiettato verso l'esteriorità anche se questo significa prendere atto di «zone insondabili» dentro di noi, l'uomo, infatti «resta sempre un mistero di cui si possono spiegare molte cose, ma che non è possibile conoscere interamente. Per questo non deve sorprendere che vi siano aspetti della sua intimità che la nostra ragione non riesce a cogliere» [125].
    Come abbiamo avuto modo di rilevare nei passaggi precedenti del nostro percorso, l'interiorità può essere intesa sia come spazio simbolico della persona, sia come quel complesso di sentimenti, pensieri, atti, che concorrono a definire la vita spirituale di un individuo.
    In altri casi il termine interiorità è inteso come sinonimo di ricchezza psicologica, di intima profondità, che caratterizza la personalità di un soggetto. Romano Guardini afferma in proposito: «Ciò che di più profondo vi è in noi, è il modo delle nostre intenzioni» [126]. In tal senso l'interiorità è il luogo della responsabilità personale ed implica la capacità di sapersi leggere dentro, di guardare nel fondo della propria personalità evitando di lasciarsi catturare dai condizionamenti e dalle ansie dell'agire sempre e comunque ad ogni costo.
    Se l'interiorità è il nostro luogo più intimo dove si raccoglie la persona effettivamente per quello che è e non per le sue maschere, l'educazione è chiamata a saper raggiungere tale luogo simbolico per far sì che la persona possa non soltanto essere pienamente se stessa, ma possa anche trovare in sé le motivazioni ad un agire responsabile, capace cioè di prendere decisioni a partire da se stessi e dalla propria coscienza.
    Purtroppo l'interiorità tende ad essere considerata qualcosa di astratto rispetto alla vita reale nella quale ogni cosa è chiamala ad avere una visibilità e spendibilità immediata sul piano delle dinamiche di gratificazione messe in atto dal soggetto. L'interiorità e l'esame del proprio interno possono allora profilarsi come antidoti alla superficialità e alla dispersività e al superamento di quella angoscia che abbiamo visto essere uno dei tratti connotanti la condizione contemporanea. Una angoscia da affrontare non tanto nei termini di riflesso sociologico della decadenza e della crisi della società, ma in particolar modo in relazione alla presenza di un'angoscia di carattere essenziale che accompagna l'uomo e che ha attinenza con la sua esistenza personale, con il mistero della sua libertà e della sua vita, quella che Mounier indica come «vertigine della profondità» che l'uomo tenta di mascherare perlopiù ricorrendo a stratagemmi diversi che vanno dall'assumere atteggiamenti di indifferenza, di finzione, identificandosi con false sicurezze, ricercando un atteggiamento di accomodamento per la propria vita, e in tal modo allontanandosi dalla possibilità di intravedere dei percorsi :autentici per la propria esistenza, così come di avviare dei percorsi di ricerca spirituale intorno a se stessi.
    Un'educazione all'interiorità non ha senso se cerca di prendere avvio da una definizione dell'io interiore come presupposto dal quale ricavare direttamente le modalità e i metodi per orientarlo, come se la sua stessa essenza personale sia in grado di restituirci la chiave per accedere alla sua natura intima. Rileva a tal proposito Merton: «Un'idea del genere significherebbe un fraintendimento totale della realtà esistenziale di cui stiamo parlando. L'io interiore non è è un parte del nostro essere, come un motore in una macchina. È la nostra stessa realtà sostanziale nella sua completezza, al suo livello più alto, più personale, più esistenziale» [127]. Non è da intendersi come un oggetto, non è una cosa, anche se occorre in ogni caso indagare su di esso, così come occorre che esso riesca a manifestarsi in noi.

    (Da: Pedagogia della persona educabile. L'educazione tra interiorità e relazione, Vita & Pensiero 2010, pp. 209-223) 

    NOTE

    81 M. BUBER, Io e tu, in Il principio dialogico e altri saggi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, p. 61.
    82 Ibi, p. 65.
    83 Ibi, p. 64.
    84 Ibi, p. 70.
    85 D. NOVARA, L'ascolto si impara, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1997, p. 87. Ibidem.
    87 R.M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti, Milano 1982, pp. 2-3.
    88 Ibi, pp. 3-4.
    89 R.M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, Mondadori, Milano 1997, p. 44.
    99 Ibi, p. 38.
    91 Ibi, p. 40.
    92 Ibi, p. 49.
    93 Ibi, pp. 65-66.
    94 Per una panoramica sul tema della consapevolezza di sé in rapporto agli altri, si confrontino i seguenti contributi: M.M. DAVY, L'uomo interiore e le sue metamorfosi, Ancora, Milano 1995; G. LIOTTI, La dimensione interpersonale della coscienza, Carocci, Roma 2005; A.M. SCOTFORD, La conversazione interiore: come nasce l'agire sociale, a cura di P. Donati, Erickson, Gardolo (Tn) 2006.
    95 J. LISS, L'ascolto profondo. Manuale per le relazioni d'aiuto, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2004, p. 104.
    96 Ibi, p. 15.
    97 Ibi, p. 16.
    98 Ibi, p. 17.
    99 G. RICONDA, Pensiero tradizionale, personalismo, interiorità, in AA.VV., Interiorità: principio della filosofia, p. 22. L'autore citato, riprendendo le linee principali del personalismo di carattere ontologico di Luigi Pareyson, è dell'avviso che il discorso sull'interiorità debba essere affrontato aprendosi ad una ermeneutica che aiuti ad identificare le condizioni in base alle quali l'interiorità possa essere affermata come principio, superando quelle involuzioni di carattere intimistico e giustapposizioni eclettiche in nome del richiamo all'esperienza religiosa a cui ha dato luogo un certo spiritualismo e personalismo che pur dell'interiorità hanno fatto uno dei loro richiami principali.
    100 Ibi, p. 20.
    101 Ibi, p. 22.
    102 Ibi, p. 23.
    193 E. HILLESUM, Diario. 1941-1943, Adelphi, Milano 1993, p. 48.
    104 Ibi, p. 49.
    105 Ibi, p. 60.
    106 Ibi, p. 57.
    107 Ibi, p. 69.
    108 Ibi, p. 93.
    109 Ibi, p. 100.
    110 Ibi, p. 166.
    111 Ibi, p. 201.
    112 Mi, pp. 223-224.
    113 R. GUARDINI, Lettere dal lago di Como, p. 102.
    114 Ibi, P. 110.
    115 E. MOUNIER, Il personalismo, p. 79.
    116 Ibi, p. 83.
    117 Ibidem.
    118, Ibi, p. 74.
    119 Ibi, p. 76.
    120 Ibi, p. 83.
    121 M. MARTÍ GARCÍA, L'intimità. Conoscere & amare la propria ricchezza interiore, Edizioni Ares, Milano 2004, p. 26.
    122 Ibi, p. 44.
    123 MOUNIER,  Il personalismo, p. 82.
    124 Ibi, p. 59.
    125 Ibi p. 74.
    126 R. GUARDINI, Lettere sull'autoformazione, Morcelliana, Brescia 1958, p. 9.
    127 T. MERTON, L'esperienza interiore. Note sulla contemplazione, Edizioni San Paolo, Milano 2005, p. 31.


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