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    Noi fragili

    e perciò generativi

    Ugo Morelli *


    L'esperienza soggettiva della fragilità può bloccare la capacità di sviluppare un pensiero. Con esiti distruttivi quando tutto ciò porti a senso di impotenza e impermeabilità verso ciò che c'è intorno, se non a cinismo e rancore verso tutto e tutti o a pragmatismo cieco rispetto al senso delle relazioni e delle azioni.
    Questo è vero in non poche situazioni.
    Eppure è anche vero che, lasciandosi permeare dalla fragilità diffusa, molte persone sono giunte a distaccarsi da forme di vita personali e sociali ormai infeconde, per aprirsi in modo sorprendente a forme di vita generative.
    La fragilità è dunque una dimensione che comporta vincoli, ma anche possibilità.

    «Vulnerability is a guardian of integrity» (Anne Truitt)

    Può darsi che la civiltà che abbiamo creato sia parte del nostro problema. È però la via per cercare soluzioni possibili e senza di essa non potrebbe esservi alcuna soluzione. È la cultura – e non basterebbe la natura – a insegnarci a osservare e a ricordare, ad apprendere dai nostri errori, a cooperare e condividere le nostre esperienze e a controllare ed elaborare noi stessi, le nostre emozioni di base e i nostri sentimenti, per quanto ci riusciamo.

    FRAGILI E SAPPIAMO DI ESSERLO

    Giungiamo ad accorgerci della nostra fragilità grazie alla combinazione tra l'evoluzione del nostro corpo-cervello-mente e il processo di civilizzazione; grazie al bricolage tra la nostra storia evolutiva e la nostra esperienza concreta giorno per giorno.
    Essere fragili potrebbe anche essere un fatto naturale, ma sentirsi fragili richiede la cultura. Solo in quanto esseri natural-culturali possiamo accorgerci della nostra fragilità e considerarla. Noi cí rompiamo come tante cose in natura e come tutti gli altri esseri viventi, ma a differenza di loro diamo significato a quella rottura.
    Non è ancora in questo, tuttavia, la nostra distinzione, bensì nel fatto che siamo in grado di concepire la rottura, il nostro frangerci, la nostra fragilità; siamo in grado di temerla e di attenderla; siamo – soprattutto – in grado di sapere che, nel suo esito finale, essa certamente arriverà.
    Allora la fragilità per noi sembra situarsi tra la nostra certezza della sua presenza e la nostra capacità di generare le molteplici azioni per farvi fronte.
    È perché siamo fragili che siamo sensibili agli altri e al contesto. Essere fragili comporta, pertanto, vincoli ma anche possibilità, depressione e generatività.

    Coinvolti relazionalmente

    La nostra esperienza del mondo si presenta allo stesso tempo incarnata, relazionale, multisensoriale e pragmatico-motoria. Questi processi sono tra loro interdipendenti e circolari.
    Noi non ci limitiamo a guardare le cose di fronte a noi, ma immaginiamo allo stesso tempo il tipo di interazioni che possiamo intrattenere con esse mediante il nostro corpo e le sensazioni non puramente visuali che ne derivano – come ad esempio quelle tattili – ancor prima di agire. Così come accade che, se qualcuno sta compiendo un'azione, viviamo quell'azione come se la stessimo compiendo noi stessi.
    Noi adoperiamo, insomma, una serie di risorse psicologiche e neurali sia per interagire praticamente con il mondo, sia per comprendere quanto accade intorno a noi. Siamo coinvolti relazionalmente con gli altri e il mondo, come emerge con evidenza sperimentale da processi di simulazione incarnata (sentiamo gli altri con il corpo e la presenza prima ancora di parlarci) e, in particolare per quanto riguarda le relazioni intersoggettive, da dinamiche di consonanza intenzionale (1): siamo in grado di modulare i nostri comportamenti con quelli degli altri.
    Tutta l'esposizione relazionale con gli altri e il mondo che emerge da queste complesse dinamiche è, allo stesso tempo, condizione della nostra individuazione e fonte di fragilità e rischio. Siamo esseri da «maneggiare con cura», considerata la nostra sensibilità al contesto e agli altri.

    Penetrabili dal mondo e dagli altri

    Se non fossimo vulnerabili non saremmo raggiungibili dagli altri e dai segni del mondo, ma dal momento che lo siamo risultiamo anche esposti e fragili. Se non fossimo penetrabili dal mondo e dagli altri e flessibili alle sollecitazioni non saremmo generativi, ma dal momento che lo siamo rischiamo a ogni momento di romperci e spesso ci rompiamo.
    C'è una dimensione ambigua nella fragilità – quindi – e ad essa dobbiamo l'esposizione che ci rende permeabili e creativi, aperti e capaci di emanazioni generative. Ma da essa ci deriva anche la nostra esposizione ad andare in pezzi, ognuno a seconda della propria storia e della propria personalità; a seconda del fatto che gli altri ci «maneggiano con cura» o ci sbattono a destra e a sinistra, magari senza accorgersi che lo stanno facendo, o facendolo invece in modo deliberato e intenzionale, con indifferenza, per vedere l'effetto che fa.

    ELABORATORI DELL'IMPERFEZIONE

    Il primo e forse più impegnativo sentimento di fragilità ci viene dalla conoscenza. Noi non solo sappiamo, ma sappiamo di sapere, e il sapere non svolge più per noi – ammesso che lo abbia mai fatto – una funzione rassicurante.
    Un tempo, quello della corrispondenza tra le parole e le cose, la spiegazione razionale di un fenomeno ci consentiva di ricondurlo alla normalità, acquietandoci rispetto a un allarme derivante da una percezione anomala. Oggi accade sempre più spesso che una spiegazione di un fenomeno strano introduca elementi ancora più strani e inquietanti del fenomeno stesso. Come ci suggerisce un grande scrittore:
    C'è stato un tempo in cui credevamo di saperlo. Credevamo che quando il testo diceva: «Sul tavolo c'era un bicchiere d'acqua» ci fosse davvero un tavolo e sopra il tavolo un bicchiere d'acqua e ci bastava guardare nello specchio di parole del testo per vederli. Ma tutto questo è finito. Lo specchio di parole si è infranto irreparabilmente, a quanto pare».(2)
    L'infrangersi di quello specchio ci pone innanzi alla constatazione non solo della criticità del linguaggio, ma anche della natura imperfetta delle cose, che tale risulta fin dal loro nascere, come verifichiamo prima di tutto a proposito dell'origine della materia di cui siamo fatti. Scrive Guido Tonelli, uno degli scopritori del bosone di Higgs: (3)

    «Tutto è precario. La condizione umana è fragile come le strutture gigantesche dell'universo, anche quelle che ci sembrano immortali».

    Non solo siamo di fronte alla fragilità delle conoscenze, ma alla nostra fragilità nell'elaborare l'imperfezione e l'instabilità dei paradigmi, impegnati da una continua esperienza di angoscia epistemofilica (4). Impegnati come siamo nella «conquista dell'abbondanza», come ha detto con pertinente chiarezza P. K. Feyerabend (5), nell'accogliere e selezionare gli abbondanti e spesso prevaricanti segnali del mondo, noi ci scopriamo fragili. C'è una sofferenza nella conoscenza.
    Lo spazio dell'immaginazione e del significato, quello stesso spazio che ci distingue e rende umani, è alimentato direttamente dai vissuti di fragilità: quello spazio ci procura l'autoelevazione semantica che ci fa umani, quella particolare capacità che ci fa cercare i significati di ogni cosa e dà vita alla nostra creatività e ci spinge a comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali i repertori del mondo; ma è lo stesso spazio che ci fa vivere la fragilità di contenere i significati emergenti e di fare i conti con la nostra finitudine.

    LA GENERATIVITÀ DEL LIMITE

    «Come si presenta questa sofferenza della conoscenza che ci rende fragili?
    Noi conosciamo e sappiamo immaginare e narrare la morte, diversamente dagli altri animali che, per quello che ne sappiamo, muoiono. Noi conosciamo e narriamo l'amore, le sue gioie e le sue pene, diversamente dagli altri animali che si accoppiano.
    Noi conosciamo il significato dell'opera associata al lavoro, mentre gli altri animali agiscono per procurarsi il cibo.
    Partiamo dalla più impegnativa delle esperienze che conosciamo: la morte, per poi considerare l'amore e – infine – il lavoro.

    Senza quel che aveva prima cercando quel che non aveva ancora

    «Correva nel mattino, sotto una pioggerella fine che pareva nebbia. Correva a perdifiato. Il viottolo fino alla via era scivoloso in quel giorno di settembre che anticipava l'autunno. Sentiva la sua anima di bambino scivolargli dal petto mentre cercava di lasciarsi alle spalle la paura, che però era davanti a lui. Paura di cosa?
    Non riusciva a farsi una ragione di quel vago eppure acuto sentore di perdita che gli chiudeva la gola e la bocca dello stomaco. Da quando la mamma, due giorni prima, lo aveva accompagnato a casa della nonna materna, aveva vissuto in quella sospensione. Non perché la casa della nonna fosse lontana. No. La ragione era che il suo bisnonno, a cui lui era molto legato, quello stesso bisnonno che gli scaldava le mani nella prima memoria che aveva, non parlava più, non gli rispondeva più, non gli sorrideva più, e lui non capiva perché. Aveva cinque anni e nella sua vita non c'era mai stato niente di simile. Sentiva che qualcosa di terribile e senza ritorno stava per accadere e che la mamma non voleva che lui la vivesse da vicino.
    Nelle notti dalla nonna, non aveva dormito pensando al bisnonno che non parlava, che non gli rispondeva più, che non sorrideva e respirando a fatica guardava fisso nel vuoto. Si era allora ricordato degli animali che aveva visto morire e l'angoscia l'aveva travolto. Quando aveva sentito, quella mattina, la nonna materna dire che sarebbero andati tutti ad accompagnare il bisnonno, aveva capito.
    E allora si era messo a correre a perdifiato: voleva tornare a casa e trovarvi il bisnonno per l'ultima volta. Il pianto gli riempiva gli occhi e il nodo in gola stringeva sempre più. Correva e non riusciva a pensare al mondo senza il bisnonno. Pensava a un altro mondo dove raggiungerlo se non lo avesse trovato a casa.
    Si perdeva però nella vaghezza dei suoi stessi pensieri, mentre continuava a correre. Non trovò nessuno, ma solo la casa chiusa. Si sedette allora sul primo scalino della scala esterna, quello dove stava col bisnonno che fumava la pipa e gli parlava dei suoi viaggi in America.
    Stringendo le mani alle ginocchia pensò al mondo che da quel momento gli si parava innanzi e a come viverci senza quello che aveva prima e cercando tutto quello che non aveva ancora».

    Non si sente capace se non di attenderla

    «Non conosce quello che sta vivendo. Non lo ha mai sentito, né pensa che sia condivisibile. Spesso si chiede persino se sia vero, o se non sia solo lui a credere in quella verità a cui si è consegnato completamente. Fino a quel punto non è mai arrivato; non ha mai messo in gioco tutto il suo mondo. Non che abbia mai vissuto senza inquietudine; ma era una questione di respiro almeno provvisorio, di distensione seppur minima. Ora no.
    Il pensiero e lo scorrere del tempo sono cadenzati dalla presenza o dalla mancanza di lei. O c'è o manca, e se lei manca, allora sa solo vivere aspettandola. Calcola i secondi, pesa le parole, si perde nei suoi gesti e attende la sua espressione successiva. Sa che non potrebbe mai farcela a stare al mondo senza di lei. Ha paura, certo. Come si potrebbe non aver paura di perdere quello che si ritiene essere tutto.
    A dubitare però non ce la fa, seppure il dubbio spesso si presenti, sulla verità di lei. Ricaccia il dubbio perché non può permetterselo. Non conosce appagamento e non basta mai tutto quello che lei è e fa. Si sospende a se stesso non appena la saluta e si ritrova quando i suoi passi riappaiono. Non si sente capace se non di attenderla e viverla e non vorrebbe altro che quello che vive, anche se quando si sente vuoto e perduto lontano da lei trova la vita insopportabile.
    Quando lei gli vive accanto si sente forte; diventa fragile fino alla disintegrazione non appena sente una distanza o lei si allontana. Scava nelle parole e negli sguardi, nella vicinanza e nella lontananza e si perde nella ricerca di lei. Sente al limite la sua capacità di tenere, ma null'altro vorrebbe o potrebbe fare. D'altra parte quella estrema sollecitazione che tanto lo tiene sulla corda è anche la più intensa delle esperienze che lo fa sentire vivo».

    Forse il risultato le sarebbe venuto incontro

    «Aveva finito prima del tempo e con una certa serenità d'animo e non poche aspettative aveva chiesto un appuntamento al proprio capo per mostrargli il lavoro appena fatto. Sapeva di aver creato qualcosa di inatteso. Quello spazio incompiuto, quella situazione imperfetta, di fronte a cui si era trovata, l'avevano inquietata non poco. Avevano però sollecitato in lei una tensione che aveva sentito generativa fin dall'inizio. Aveva fatto un grande sforzo per non avvicinarsi troppo alla cosa che sentiva di concepire, per paura di romperla prima di riuscire a farla nascere.
    Le era spesso venuta in mente in quelle situazioni di ricerca e di attesa la condizione della farfalla e dell'artista di cui aveva letto da qualche parte: l'artista gioca con l'immediato come la farfalla con la fiamma. La farfalla non può che avvicinarsi quanto più possibile alla fiamma, sfiorare il suo calore bruciante e giocare alla lettera col fuoco. Solo se sa astenersi dall'avvicinarsi troppo vivrà l'intensità dell'esperienza del fuoco senza bruciarsi. Doveva saper attendere e forse il risultato le sarebbe venuto incontro. Un po' artista e un po' farfalla aveva visto nascere quel risultato e ora sapeva che era quello che ci voleva per far fare un salto di qualità all'intero progetto a cui stavano lavorando.
    Come sempre il capo, al suo ingresso nella stanza, non aveva alzato la testa dalle carte, né le aveva detto di sedersi. Lei, stando in piedi, gli aveva allungato il foglio con il risultato del suo lavoro e glielo stava commentando. Appena finito, sempre con la testa abbassata, il capo aveva sussurrato un «bene» quasi impercettibile. Lei, pur sentendo di sbagliare, aveva voluto replicare dicendo che quel risultato era la chiave per realizzare l'intero progetto. il capo a quel punto l'aveva guardata e, con un gesto eloquente della mano, le aveva sottolineato che aveva fatto soltanto il suo dovere».

    L'INFELICITÀ DELLA FELICITÀ SUPREMA

    «Nulla è più fragile e cedevole dell'acqua – scrive Laozi nel Daodejing – eppure è la materia migliore per distruggere ciò che è forte e duro». L'acqua che ci costituisce, ci nutre e ci avvolge come una carezza, scava la dura roccia per millenni. Ancora una volta la forza della fragilità si presenta a noi, come, del resto, accade con Eros.
    Se infatti Eros, quale è descritto nel Simposio platonico, è quella figura dí vagabondo sempre in cerca, fragile e instabile, ma intenso e determinato allo stesso tempo, mai pago e volutamente ai margini, da dove però vede e scruta meglio, lontano dalle verità confezionate e rassicuranti, amante dei cammini imprevisti e devianti, mai a casa, ebbene ne possiamo ricavare un'erotica della fragilità che è forse il timbro più pregnante della sua consistenza.

    Il fallimento di ogni immunizzazione

    La fragilità costitutiva di noi è la prova del fallimento di ogni tentativo di immunizzazione e di negazione della finitudine. La vita per noi esiste in quanto la alteriamo con la nostra tensione a trascenderla, non in quanto tentiamo – cosa che pure facciamo – di purificarla dalla sua stessa costitutiva molteplicità. Nell'alterazione e nell'impuro a cui la nostra fragilità ci espone e dispone, troviamo l'unica fonte di senso per la nostra azione. La fragilità si connette strettamente, in questo modo, alla vulnerabilità. Se l'incompletezza ci caratterizza, è solo da quella fragilità che ne deriva che può nascere il bene.
    All'esistenza umana può essere attribuita una distinzione che è tale in quanto è fragile. È stata forse Martha Nussbaum a individuare al meglio la trama complessa e ambigua di questa distinzione:
    La bellezza di un vero amore umano non è la stessa dell'amore fra due dei immortali, soltanto più breve. ll cielo che raccoglie gli uomini e circoscrive le loro possibilità dona a questo mondo un rapido e scintillante splendore che non ci aspettiamo di trovare nel paradiso degli dei. L'eccellenza umana viene vista nell'ode di Pindaro come qualcosa che non può essere reso invulnerabile senza perdere la sua peculiare bellezza. Odisseo scelse l'amore di una donna mortale e destinata a invecchiare invece dello splendore immutabile di Calipso» (6).
    La bellezza del contingente è fatta di fragilità. L'amore degli umani è bello perché è rischioso e mutevole. Incanta e fa soffrire, è forte perché può rompersi. Impegnati a neutralizzare i dubbi, gli amanti sentono alimentata la ricerca reciproca anche dal dubbio. Il vuoto che si apre nei vissuti di fragilità può portare a perdersi, può diventare un «vuoto a perdere», ma è allo stesso tempo generativo di ricerca di possibilità: in quel gioco vuoto/pieno può esprimersi – e di fatto si esprime – una dinamica della fragilità che è costitutiva di quello che siamo e diventiamo.

    Il fragile, fonte di perdita e fonte di generatività

    La fragilità sembra svolgere la propria funzione nella nostra esperienza tanto più intensamente quanto più elevato è il coinvolgimento delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti, sia in quanto è generativa dell'esperienza, sia come fonte di rischio e di perdita.
    Nelle esperienze che coinvolgono con elevata intensità emozionale («amore e lavoro sono i due poli importanti della vita», ha sostenuto Sigmund Freud) vale quello che Vladimir Jankélévitch (7) dice dell'amore:

    «L'amore, invece, è indifferente ai dettagli minuziosi e alle particolarità materiali; è la sua stessa generosità che gli conferisce questa apparenza evasiva, negligente e talvolta un po' approssimativa. L'amore non seleziona dei caratteri, ma accoglie la persona per intero grazie a un'elezione globale e indivisa. L'amore non vuol sapere nulla su ciò che ama; quel che ama è il centro della persona vivente, perché questa persona è per lui fine in sé, ipseità incomparabile, mistero unico al mondo».
    L'ambiguità del fragile assume le caratteristiche, per certi aspetti paradossali, di porci di fronte alle più significative esperienze della vita in una posizione in cui viviamo la più elevata felicità e l'angoscia più alta. La morte ci può donare l'inestimabile valore della vita, ma ci propone anche l'angoscia estrema e insuperabile. Il lavoro può darci una delle esperienze più estensive della propríocezione e dell'individuazione relazionale e soggettiva, mentre sperimentiamo il rischio primario del mancato riconoscimento. L'amore ci può donare, proprio perché fragile, uno spazio ineguagliabile di tensione all'oltre e di profondità esistenziale. Scopriamo così le nostre potenzialità generative e la nostra finitudine, allo stesso tempo. La fragilità, più di tutto, forse, ci fa scoprire e riconoscere l'infelicità della felicità suprema e la sua natura ambigua e ineliminabile.

    * Ugo Morelli è docente all'Università di Bergamo e fondatore di Polemos, scuola di formazione sul conflitto: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.


    NOTE

    1 Gallese V., Embodied simulation: From neurons to phenomenal experience, in «Phenomenology and the Cognitive Sciences», 4, 2005, pp. 23-48.
    Gallese V., Intentional attunement: A neurophysiological perspective, in «Brain Research», 1079,2006, pp. 15-24.
    2 Coetzee J. M., Elizabeth Costello, Einaudi, Torino 2005.
    3 Tonelli G., La nascita imperfetta delle cose, Rizzoli, Milano 2016.
    4 Weber C., Paura della conoscenza e angoscia epistemofilica, il Mulino, Milano 2015.
    5 Feyerabend P. K., Conquista dell'abbondanza, Cortina Editore, Milano 2002.
    6 Nussbaum M. C., La fragilità del bene, il Mulino, Bologna 1996.
    7 Jankélévitch V., Berlowitz B., Da qualche parte nell'incompiuto, Einaudi, Torino 2012.

    (Animazione sociale n. 299, 3/206, pp. 12-18)


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