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    L'educazione

    all'alterità

    Carmine Di Sante


    Il tema è complesso, soprattutto a causa della categoria dell'alterità che esso chiama in causa: una categoria nuova intorno alla quale non è facile intendersi e che, in assenza di uno sforzo serio di riflessione, corre il rischio di diventare di moda.
    Per questo si rendono necessarie delle precisazioni:

    Non intendo il titolo nel senso di cosa e come fare perché al centro del progetto educativo e dei progetti educativi ci sia l'altro dall'educatore. E' ovvio, e do per scontato, che al centro di qualsiasi progetto educativo
    e .delle sue strategie ci deve essere l'altro: l'alunno, il ragazzo, il giovane: cioè: l'educando e non l'educatore, le esigenze del discente e non del docente; la priorità dl fruitore delle strutture pedagogiche e non dei progettatori. Lo do per scontato, anche se poi scontato non è perché, come ben sappiamo, il lavoro più attento e più vigile per quanti lavorano nell'ambito delle istituzioni, è quello di ricondurle continuamente alla loro dimensione di "servizio". Come è infatti noto, il rischio delle istituzioni è. quello di alienarsi trasformandosi da "strumenti" a "fini". Ma, ripeto, non è questo l'aspetto implicito nel titolo del tema assegnatomi.

    Non intendo il titolo neppure nel senso di come educare il giovane, nel corso del processo educativo, al rispetto dell'altro e degli altri: cioè a come fare perché egli contemperi la sua spinta e volontà di autorealizzazione con la preoenza ed esigenze degli altri: cioè alla socializzazione. Anche questo aspetto lo do per scontato, come un dato già acquisito.

    Intendo invece il titolo in un senso più radicale che provo ad esprimere con questo interrogativo: è possibile un' educazione che invece che dell'io dell'educando faccia dell'altro che gli è estraneo il centro gravitazionale? Una educazione che invece di viversi come sforzo maieutico teso a partorire l'io nella sua forma compiuta, lo metta in questione denunciandone la signoria e proclamandone il ruolo di diaconia? Si tratta di una domanda radicale che comporta lo stesso capovolgimento dell'idea dí educazione intesa non più come autorealizzazione, autocompimento, autodispiegamento e autoritrovamento - dove auto dice il legame costitutivo dell'io con se stesso per cui educarsi è educare il proprio io ad essere sempre più io, secondo le sue potenzialità nascoste chiamate ad esplicitarsi - ma come sua rottura o krisis. Ma se questa è l'educazione all'alterità, nel senso appena accennato di autocostruzione dell'io, allora, in realtà, più che di educazione si tratta dì dis-educazione, di una messa in discussione dell'io e delle sue esigenze primaziali. Educare all'alterità vuol dire, pertanto, decostruire un pensiero incentrato sull'io - sul "Me Medesimo" o "miità" - per metterne in piedi uno nuovo che al suo centro abbia l'altro di cui l'io è l'eletto chiamato ad esserne il responsabile.
    Il mio intervento, che intende il titolo nell'ultima accezione appena indicata, intende offrire un contributo a questo lavoro di de-costruzione e ricostruzione, offrendo 4 piste riflessive. come risposta alle seguenti quattro domande:
    - perché il pensiero dell'alterità sta diventando di attualità?
    - cosa si intende per alterità?
    - perché il pensiero della grecità non conosce l'alterità?
    - è possibile educare all'alterità?
    Come già sarà apparso dalla introduzione, il mio intervento avrà un carattere teorico che non si oppone al pratico ma intende esserne una luce discreta per guidarlo e ripensarlo.

    Il «nuovo pensiero» dell'alterità

    Vorrei partire da una data celebrativa che ha occupato e ancora occupa la stampa nazionale e internazionale di quest'anno: la scoperta delle Americhe di cui ricorre il cinquecentenario. Questa ricorrenza ha dato origine, come è noto. a due atteggiamenti interpretativi diversi e speculari: da una parte quelle di chi, in maniera trionfalistica e acritica, vi vede il realizzarsi di uno straordinario evento espressione dell'Europa civilizzatrice e evangelizzatrice, dall'altra quello di chi, esattamente al contrario. vi vede l'espressione della violenza europea che, incontrando nell'indio il culturalmente diverso, invece di accoglierlo. aprendosi alla sua diversità per farsene arricchire, io ha negato attraverso la duplice figura della aSsimilazione e della cancellazione. Questi due diverse chiavi ermeneutiche hanno dato corpo, come è noto, a due diversi tipi di manifestazioni: celebrativa l'una, anticelebrativa l'altra.
    Voce esemplare della seconda chiave ermeneutica è quella di E. Dussel, un filosofo della liberazione, il cui pensiero si nutre della lunga storia di sofferenza e dipendenza dell'America Latina. traendo proprio da essa lo stimolo e l'alimento per il suo costituirsi ed elaborarsi. Ora, interrogandosi sulla attuale situazione dell'America Latina, Dussel, al di là delle ragioni economiche, amministrative politiche e sociali, vi scorge operante, da filosofo, un motivo più profondo ed originario che è la messa in opera del pensiero europeo: un pensiero che, in tutte le sue oggettivazioni, da quello teologico, a quello filosofico e a quello pedagogico, è incapace di accettare il diverso da se, l'altro da se. Per cui la distruzione dell'indio, è la messa in opera di questa logica, di questo logos, di questo modo di pensare che si organizza nativamente e costitutivamente intorno all'io ed è incapace, nativamente e costitutivamente, di riconoscere l'altro da sé. Scrive Dussel: "il peccato originale della modernità fu di aver ignorato nell'indio, nell'africano, nell'asiatico, 'l'altro' sacro e di averlo cosificato come uno strumento dentro il mondo della dominazione nordatlantica" (Cit. in A.Rizzi, L'Europa e l'altro, in Rassegna di Teologia XXXI/1990, p. 325).
    Ma la critica di Dussel all'Europa di negare l'altro, essendone incapace di accoglierlo e di riconoscerlo. non si ferma qui. Sulla scorta del filosofo francese ebreo E. Lévinas - un'qltro filosofo che, in quanto appartenente alla generazione degli èbrei di Auschwitz. è stato ed è testimone della cancellazione dell'altro secondo una modalità di violenza gratuita mai raggiunta nella storia umana - Dussel individua la radice ultima e giustificatrice di questa violenza distruttrice negli stessi albori del pensiero occidentale che è il pensiero greco, un pensiero che, nel suo stesso sorgere e nel suo stesso costituirsi, non conosce l'altro. Affermando: "l'essere è, il non-essere non è", la grecità istituisce. per Dussel, il principio di esclusione e di violenza: "Al di là della civiltà greca c'è il non-essere, il barbaro, il senza-senso. Il 'non-essere' include di fatto tutti gli uomini che sono situati fuori del mondo del dominatore. dell'aristocratico (l'identico). Quello che non comprendo. che non penso, non è. L'ontologia, e la teologia che in essa si fonda come pensare dominante (e, noi possiamo aggiungere, la pedagogia che ne trasmette le coordinate e i principi attraverso le generazioni). riduce al nulla il povero, l'altro, colui che sta aldiqua dell'orizzonte del mondo del dominatore. Il barbaro non è per Parmenide. come l'indio non è per Fernandez de Oviedo" (ivi, p.326).
    È da questa coscienza sempre più diffusa - della quale, non senza significato. gli interpreti più coerenti sono Lévinas e Dussel, il primo testimone dell'olocausto del popolo ebraico da parte del nazismo, il secondo della cancellazione degli indios da parte dei conquistatori spagnoli - che nasce l'esigenza di questo nuovo pensiero chiamato dell'alterità. Un pensiero che si pone due domande fondamentali: a) perché la cultura occidentale non è stato capace di accedere all'altro in quanto altro; b) come dovrebbe essere un vero pensiero capace di accogliere veramente l'altro?
    Ricapitolando questa prima parte: il motivo per cui si va diffondendo il tema dell'alterità è perché in molti - soprattutto in coloro che assumono seriamente il "rovescio" della storia, che hanno il coraggio di guardarla dal punto di vista degli sconfitti e non dei vincitori - si va facendo strada la coscienza di una violenza della cultura occidentale che non è solo occasionale ma profonda e connaturale, inscritta, prima che nelle sue pratiche e nelle sue istituzioni, nel suo stesso modo di pensare, nel suo stesso logos che tutti i modelli educativi. al di là delle loro diverse impostazioni di metodo e di articolazione, tramandano. I soggetti di questa nuova coscienza sono soprattutto coloro che della cultura occidentale hanno sperimentalo e sperimentano la violenza .mologatrice o cancellante: le voci che dànno voce agli indios, come quella di Dussel, le voci che danno voce alle vittime di Auschwitz, come quella di Lévinas, le voci che dànno. voce a quanti non riescono ad avere voce, come quelle che si fanno interpreti del movimento di liberazione della donna, dei "diversi", degli handicappati, dei marginali e degli emarginati: cioè degli. "schiavi" di ieri e di oggi.

    Cos'è l'alterità

    Accennato al motivo per cui il discorso dell'alterità si sta facendo attuale, passerei al secondo punto che riguarda il concetto stesso dell'alterità: cosa si intende per "altro"? Cosa vuol dire che il pensiero dell'alterità pone al suo centro l'altro a differenza del pensiero della grecità che vi pone l'io? E qual è questo "altro" di cui esso parla?
    .Quando si parla di "altro" o di "alterità" si fa uso di un& terminologia i cui significati sono riconducibili almeno a tre tipologie:

    Immaginiamo di uscire per strada e di incontrare un amico con il quale mi fermo a lungo a parlare. Incontro un "altro" da me. l'amico: ma di quale alterità si tratta? Di un'alterità che si muove nell'orizzonte del mio io. Infatti, per quanto lontano geograficamente o anche ideologicamente, l'amico è da sempre presente ai mio io; la sua lontananza si esercita all'interno di una presenza che precede e impedisce ogni assenza . Qui l'altro è l'altro-per-me, l'altro-per-l'io, dove il per dice l'irrinunciabile legame "egocentrico", istituito dall'io e finalizzato ad eco.

    Immaginiamo di camminare sul marciapiede e di scorgere ai lati un giovane che, seduto per terra, mostra un cartoncino con la scritta: "ho fame". Anche questa volta incontro un "altro", ma un "altro" diverso dall'altro precedente. E la differenza consiste in questo: che questa volta questo "altro" è veramente altro da me nel senso che, a differenza dell'amico che faceva già parte del mio mondo prima ancora di incontrarlo, egli resta totalmente e radicalmente al di fuori del mio io. Ciò che caratterizza questa alterità è che essa non entra nel mondo dell'io - allo stesso modo di una penna che, pur altra dalla mano, ne costituisce però il prolungamento, o allo stesso modo di una persona amata che, pur altra dall'amante ne costituisce l'appagamento - ma vi rimane fuori, extra, radicalmente e irriducibilmente. Qui l'altro è non è l'altro-per-me, come nella tipologia precedente, ma L'altro-da-me, o l'altro-al-di-fuori-di-me, s-legato da me, irrelato da me. non abitante la mia "terra" ma "straniero" in essa.

    Immaginiamo, infine. di salire su un autobus e di accorgerci. una volta scesi. di essere stati derubati. Anche in questo caso incontriamo un altro. Ma anche questa volta si tratta di un altro la cui alterità non è riconducibile né alla prima - dove l'alterità era l'altro per me - né alla seconda - dove l'alterità era l'altro da me - ed è di altro tipo: l'alterità di chi è contro me: non l'altro per me, né l'altro da me ma l'altro contro di me. Si tratta di un'alterità che non solo è estraneità all'io ma sua minaccia, una estraneità doppiamente tale che alla lontananza aggiunge la volontà di offesa, nel senso etimologico di colpire, "ferire", nuocere, uccidere, ecc.
    Quando si denuncia la cultura occidentale incapace di farcì spazio all'altro non ci si riferisce al primo tipo di alterità, dove l'altro è riconducibile all'io come suo prolungamento, e neppure, rigorosamente parlando, al terzo tipo di alterità (dove l'altro, facendosi minaccia per l'io, non può non sollecitare da questi una risposta, anche se una risposta speculare che è quella della violenza), ma al secondo tipo di alterità dove l'altro non è per l'io né contro l'io, ma gli rimane extra, fuori del suo mondo. La vera alterità è quella dove l'altro è così altro dall'io che non vi è ricatturabile né a livello desiderativo -perché piace, è valore, attrae - né a livello progettuale - perché è utile, funzionale, strumentale.
    Ma anche questa tipologia dell'alterità - l'alterità irriducibile. all'io - merita ancora di essere approfondita, presentandosi attraverso almeno tre figure che, in alcun modo devono essere omologate:

    1. La prima figura è quella che potremmo chiamare "l'altro" di Tzvetan Todorov, l'autore di un libro fortunato che ha come titolo La conquista dell'America e per sottotitolo Il problema dell'altro (Einaudi. Torino 1884). L'altro - per Todorov e, ho l'impressione, per la maggior parte di quanti, oggi, parlano di alterità - è il diverso inteso culturalmente, colui o- coloro i cui modelli culturali intesi in senso dell'antropologia culturale (modi di pensare, comportamenti, istituzioni e pratiche) sono altri dai propri. Todorov assume l'indio come l'immagine esemplare di questa radicale diversità culturale - appunto perché il modo di essere e di pensare degli indios era totalmente diverso da quello europeo - che l'Europa conquistatrice invece di riconoscere ed accogliere facendovi spazio ha prepotentemente omologato e, dove l'omologazione non riusciva vincente, cancellato. Il peccato dell'Europa è, per Todorov, in questa sua incapacità di riconoscere il culturalmente diverso, sostituendo al riconoscimento della diversità dell'altro la sua omologazione- o la sua cancellazione. Questa incapacità di riconoscimento nei confronti del diverso culturalmente ha trovato nello sterminio degli indios il suo atto fondativo per poi ripetersi, quasi coattivamente, nella storia europea. contro le altre categorie di diversità di volta in volta emergenti: la donna, gli immigrati, gli zingari, gli omosessuali. l'ebreo, ecc. Se questa è l'alterità - l'alterità come diversità culturale - un nuovo pensiero (e, quindi, una nuova pedagogia) è quello che si apre all'accettazione delle diversità culturali degli altri, mettendo da parte il proprio etnocentrismo, vera malattia dello spirito, rinunciando alla pretesa che una cultura possa essere in grado dí guidare un'altra e optando per un prospettivismo (cioè relativismo culturale) da vivere non come impoverimento ma come arricchimento.

    2. La seconda figura è quella di Lèvinas, il filosofo francese che, come nessun altro, ha denunciato la struttura egocentrica del pensiero occidentale, pensiero definito del Me Medesimo e della miità, capace solo di omologare l'altro ignorandone e cancellandone la diversità. Ma quale diversità? Qui la risposta del filosofo francese è del tutto diversa da quella di Todorov; egli infatti non parla dell'altro in quanto diverso culturalmente ma dell'altro in quanto "volto", "povero", "straniero" o "nomade". La differenza è notevole ed è importante sottolinearla.
    E la differenza è questa: che l'alterità di Todorov è una diversità culturale che chiede di essere riconosciuta perché positiva, perché. vista in sé e non da un punto di vista esterno (quello etnocentrico), non è un disvalore ma essa stessa valore che, appunto perché tale, non si ha il diritto di negare. Al contrario l'alterità di Lévinas è l'alterità dell'altro in quanto esser di bisogno, in quanto carenza, in quanto privazione che, in quanto tale, non è un positivo da riconoscere ma un negativo da promuovere. Da notare ancora che questa differenza non riguarda solo l'ordine delle idee ma coinvolge soprattutto quello etico del comportamento: infatti mentre l'alterità culturale coinvolge, nei confronti dell'altro, solo la dimensione cognitiva, riconoscendo che il suo modo di essere ha valore come il proprio, l'alterità di Lévinas coinvolge la responsabilità soggettiva, ponendo il proprio io e la propria stessa economia a suo servizio, come si narra nella parabola lucana del buon samaritano.

    3. Accenno ad una terza figura di alterità che potrebbe rientrare nella seconda ma che a me, a causa del suo peculiare sviluppo che ha conosciuto nel canone neotestamntario, mà pare vada differenziata, anche se non contrapposta: si tratta dell' alterità più radicale che non riguarda né l'altro come il diverso culturale. né l'altro come il soggetto di bisogno ma l'altro come il nemico che mi offende e al cui gesto di violenza rispondo non con il gesto della controreazione violenta (rispondendo al male con il male) ma con il gesto gratuito del perdono. Qui, in questa terza figura di alterità, la diversità dell'altro non è data nè dal suo modello culturale divergente, nè dalla sua realtà di essere dí bisogno ma dalla sua volontà di male che solo il gesto del perdono può colmare. Infatti, se la diversità culturale può essere annullata con un gesto di intelligenza illuminata e quella del bisogno con il gesto del servizio responsabile, la diversità costituita dall'offesa può essere annullata solo dal gesto asimmetrico del perdono, il gesto per eccellenza della gratuità.
    Di queste tre figure di alterità, sono le ultime due quelle più radicali: non riconoscimento passivo della diversità dell'altro ma promozione del suo negativo ponendo a suo servizio la propria progettualità e la propria stessa volontà perdonante.

    Perché per la grecità non esiste l'alterità

    Abbiamo visto come il nuovo pensiero nasca dalla coscienza della incapacità del pensiero tradizionale a fare spazio all'alterità dell'altro e dalla esigenza di superarlo.
    A tale scopo, per riuscire in questo sforzo dì superamento, è necessario chiedersi quale sia la ragione profonda per la quale il pensiero tradizionale - al cui interno sono nate le nostre pedagogie e della cui linfa si alimentano - non è in grado di fare spazio alla differenza dell'altro, cioè alla sua alterità.
    Ora il motivo profondo per cui il pensiero occidentale è incapace di accedere all'alterità dell'altro va ricercato nella concezione peculiare che esso, fin dalle origini, ha avuto dell'essere umano e dì ogni essere: la concezione secondo cui il senso dell'essere -- vegetale. animale divino - è nel suo realizzarsi, nel suo compiersi. e nel suo ritrovarsi. In questa prospettiva la vita - ogni vita - è e può essere solo automantenimento e autoconservazione, secondo la celebre formulazione spinoziana che la definisce conatus esse sui conservandi: la spunta irresistibile e, per questo, inarrestabile tesa 'al mantenimetto del proprio essere. Dio stesso, in questa prospettiva, è l'essere che, creando, si automanifesta principio e paradigma dell'autorealizzazione di ogni essere. 
    Ma se l'uomo è, per definizione ultima, autorealizzazione e autolegamento - l'essere irremissibilmente, come vuole Lévinas, "incatenamento all'io" - ogni suo movimento verso l'altro può solo avvenire all'interno del movimento originario dell'io alla ricerca dell'autocompimento. Ciò vuol dire che l'altro entra in questo movimento solo e a misura che, in un modo o nell'altro, contribuisce alla realizzazione dell'i, solo e a misura che è portatore di un valore - bellezza, intelligenza, bontà, saggezza, ricchezza, santità ecc. - che per l'io è "seduzione", nel senso etimologico dell' "at-trazione". Ma dove l'altro non è più valore ma bisogno, vuoto e carenza, cioè dis-valore che non attrae, egli rimane "estraneo". in una estrema e irraggiungibile lontananza che ne trasmuta il volto in "barbaro". "selvaggio", "incivile", "incolto", "perverso" "malvagio". ecc. come sta a testimoniare la lunga storia di violenza dell'Occidente (Su questo aspetto rimando al mio articolo Dall'etica del medesimo all'etica della prossimità, Testimonianze 343/1992. pp. 48-49).

    Come educare all'alterità

    In questa ultima parte vorrei fare un rapido confronto tra il pensiero dell'alterità e l'educazione, rispondendo a questa domanda: il pensiero dell'alterità cosa ha da dire alla educazione, sia intesa come teoria che come pratica? La pedagogia e le scienze sorelle che l'accompagnano (quali la psicologia e la didattica) cosa hanno da imparare dalle sue critiche e dalle sue istanze?
    Consapevole che, in questa ultima parte toccherò un ambito che non mi è familiare e che anche qui il mio contributo conserva il suo carattere teorico, suggerirò tre piste riflessive:

    1. Per quanto riguarda l'alterità nel senso di Todorov - l'alterità come diversità culturale - educare all'alterità è e deve significare educare alla tolleranza, al non giudizio emarginante e al rispetto di modelli culturali e comportamentali non omogenei ai propri; educare a quel mondo che, con un linguaggio recente non privo, a volte, di un pizzico di retorico, viene definito planetario, pluralistico, multietnico, multirazziale, ecc. Sicuramente a questo livello, anche in prospettiva di un 'Europa unita non solo economicamente ma idealmente, l'educazione si trova di fronte ad un grande compito e una grande sfida, essendo chiamata a contribuire come nessun altra voce alla creazione di un' Europa e di un mondo senza frontiere, Casa veramente Comune. Sappiamo che le frontiere più difficili da abbattere non sono quelle geografiche ed economiche - anche se queste restano determinanti - ma quelle che si iscrivono nella profondità delle strutture psicocollettive che prendono corpo in atteggiamenti e in comportamenti sostanziati di pregiudizi, di. stereotipi; di paura e di odio contro "il diverso", come sta a dimostrare l'ondata di xenofobia e di antisemitismo che ha ripreso a percbrre non poche nazioni europee. Il futuro della educazione si giocherà su questo terreno: sulla sua capacità di decostruire la paura per l'altro e per il diverso culturalmente e di costruire percorsi di accoglienza e di pace.

    2. Per quanto riguarda l'alterità nel senso dì Lévinas, il compito educativo dovrebbe essere quello di educare ad un ethos - cioè a scelte e comportamenti - che, con un termine derivato dalla pagina lucana del buon samaritano, vorrei chiamare l'ethos della prossimità, l'ethos che al movimento dell'io verso l'altro per prenderlo e comprenderlo, cioè confiscarlo e possederlo, sostituisce il movimento dell'io verso l'altro per coglierne il bisogno e colmarlo.
    Educare all'ethos della prossimità è educare, pertanto, a guardare in maniera nuova l'altro: non come colui che, portatore di un valore - perché intelligente, buono o ricco - è appetibile e riconducibile all'io, ma come assoluto - nel senso di "sciolto", estraneo al mio mondo - che, in quanto tale, lo misura detronizzandolo e costituendolo diaconia.
    Se si volesse ricorrere alla categoria centrale di Lévinas -il filosofo per eccellenza dell'alterità - si dovrebbe dire che educare all'ethos della prossimità è educare e educarsi a cogliere l'altro come "volto": ma non il volto inteso esteticamente, come figura di tratti armoniosi da contemplare, bensl il volto come evento il cui tratto costitutivo è di infrangere l'orizzonte della comprensione: "Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell'espressione, il sensibile che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie all'apertura dei una nuova dimensione (...). L'espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere ma il potere di potere..."(Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1990, p. 203).
    Se invece si volesse ricorrere alla categoria centrale della bibbia - che per gli educatori cattolici resta imprescindibile -educare all'ethos della prossimità è educare all'attenzione al "povero", nelle sue molteplici figure di "cieco", "zoppo", "malato", "emarginato", ecc. Educare, cioè, a cogliere l'essere umano non dove egli è portatore di valore che, in quanto tale, è appetibile e prensibile, ma dove egli, come ogni io, è bisogno o vuoto che chiede di essere colmato e invoca compagnia di pane e di perdono. Educare all'etica della prossimità è educarsi allo sguardo di pathos del samaritano che, cogliendo la negatività del malcapitato sulla strada, vi si china per eliminarla investendovi la sua volontà, la sua intelligenza e i suoi soldi, cioè la totalità del suo io.
    Ma a parte se ricorrere alla metafora del volto levinasiano e del povero biblico, credo che una cosa debba essere chiara: che educare all'ethos della prossimità - del farsi prossimo - è educare ad un qualcosa che non si iscrive nell'ordine della spontaneità e della affinità, cioè dell'ordine naturale del già dato, me su quello della libertà che seglie di farsi principio di responsabilità, nel senso etimologico di rispondere. Per cui, educare all'ethos della prossimità è educare, paradossalmente, alla bontà, intesa non come la trasfigurazione dell'eros ma come sua interruzione e risignificazione: cioè come amore che non va verso l'altro in quanto portatore di valore per colmarsene ma si china sull'altro in quanto portatore di un disvalore o negativo che mi chiama a superarlo.
    Ma è. possibile educare all'evento della bontà? Se l'educazione è formare l'io mentre la bontà o il volto costituiscono la sua messa in questione, non ci troviamo di fronte ad una versa aporia?

    3. Il pensiero dell'alterità rappresenta una provocazione paradossale per le scienze educative (paradossale nel senso etimologico che va contro la doxa comune e che, per questo, sorprende e inquieta): una provocazione. mi sembra di poter dire, non su questioni marginali o secondarie ma su una questione sostanziale -che chiama in causa la stessa definizione di educazione. Se infatti questa, come si ricordava all'inizio, è la plasmazione riuscita dell'io del soggetto, teso all'autorealizzazione, e se l'autorealizzazione è la parola chiave e magica del cammino educativo, dove l'auto non indica soltanto l'io come principio ma anche come fine e termine dello stesso processo educativo, il pensiero dell'alterità rappresenta veramente un pensiero paradossale perché pone in discussione questo movimento. Per il pensiero dell'alterità, infatti, il senso dell'io - cioè del soggetto umano - non è quello di dispiegarsi verso il suo fiorire e la stia maturità come un seme, bensì quello di limitarsi, ridursi ed appartarsi per fare spazio all'altro. Come, per la bibbia, Dio creando non si autorealizza ma si autolimita per fare essere l'altro, così, per il pensiero dell'alterità, il soggetto umano trova il suo senso non nell'affermare se stesso, autoespandendosi, ma nel dimenticarsi, autospogliandosi.
    Ne consegue che, entro il pensiero dell'alterità, la vera educazione - se per educazione si intende l'affermarsi dell'io - può solo consistere in un processo di "dis-educazione", come si anticipava già all'inizio: un processo, cioè, che, invece di potenziare ed espandere il soggetto, lo riporti al suo ruolo di "servitore". secondo l'etimo del termine che vuol dire, appunto, "sottoposto", "assoggettato". In questo orizzonte, pertanto, educarsi è dis-educarsi, educare è dis-educare e il discorso educativo, nel suo dirsi, è chiamato, continuamente a disdirsi.
    Non so se è possibile pensare un modello educativo come questo, che al proprio centro abbia non più l'io ma l'alterità dell'altro, un modello educativo la cui metafora eloquente non sia più l'Ulisse greco che parte dalla sua terra per poi, dopo averla abbandonata. dopo mille peripezie, vi ritorna; ma sia invece l'Abramo biblico che parte dalla sua terra per una nuova dove non vi farà più ritorno e che è quella dell'alterità. Sono però convinto che il pensiero dell'alterità può almeno aprire gli occhi con maggiore disincanto sui danni di una cultura autocentrata sull'io e. di sollecitare una scienza pedagogica che ne ridimensioni le pretese e offra il suo contributo alla costruzione di una "casa comune" - non solo europea ma planetaria - il cui logos non sa quello della violenza che omologa e cancella le diversità ma quello dell'amore che le rispetta e le assume nella responsabilità.

    (Conferenza tenuta a Palermo il 17 ottobre 1992)


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