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    L'educatore come

    geografo dell'umano

    L'«osservazione educativa»
    nel lavoro dei servizi educativi
    con bambini e famiglie fragili

    Marco Tuggia *


    Cosa vuoi dire «osservare» la storia di una persona, in particolare quella di un minore nella sua concretezza, e dunque approssimarsi ai suoi vissuti di sofferenza ma anche alle sue aspirazioni? Non è sufficiente la vicinanza fisica o emotiva, perché non è detto che troppo da vicino si veda e si «abbracci» meglio il paesaggio umano in cui il minore si sta muovendo.
    Da qui l'idea che un educatore osserva se si percepisce «geografo dell'umano», che procede nell'esplorazione con uno sguardo prossimo ma distaccato, attento agli indizi senza la pretesa di aver capito tutto, sensibile alla fatica ma soprattutto alle aspirazioni che possono portare bambini e famiglie oltre le fatiche.

    In questi anni di lavoro formativo e consulenziale con gli educatori che operano nei servizi educativi (1) per i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie vulnerabili, ogniqualvolta mi sono trovato a parlare della cosiddetta «osservazione educativa», ho incontrato una serie di criticità che mi impedivano un adeguato approfondimento dell'argomento, ma– al contempo – mi sollecitavano diversi interrogativi sulla figura dell'educatore.
    Credo che affrontare questo spaccato del lavoro educativo possa aiutare ad aprire una finestra sull'ampia questione dell'identità della figura dell'educatore, anche in rapporto ad altri professionisti con cui lavora.

    IL RISCHIO DI INUTILITÀ DELL'OSSERVAZIONE

    Solitamente gli educatori dei servizi educativi per bambini e adolescenti definiscono l'avvio del loro lavoro come «fase di osservazione», la cui durata varia a seconda della tipologia del servizio e delle metodologie.

    Interrogarsi criticamente sull'orientamento

    L'etichetta attribuita mi spinge a porre agli educatori domande del tipo: in questa fase, cosa fate concretamente? quali sono gli strumenti che utilizzate per osservare? Nel rispondere emergono, appunto, alcune criticità.

    • Una prima criticità deriva dal fatto che raramente ho ricevuto risposte soddisfacenti, sufficientemente chiare e concrete, a queste domande; risposte in grado di convincere che effettivamente in questa fase si sta svolgendo un'azione specifica, professionalmente rilevante. Rimane il dubbio se questa fase del processo educativo esista realmente e sia distinta dalle fasi successive.
    • Una seconda criticità nasce dal constatare che nei servizi educativi manca, a volte, una esplicita cornice pedagogica di riferimento da cui ricavare un'adeguata e congruente strumentazione per agire e documentare l'osservazione.
    Un'osservazione avviene sempre a partire da una griglia di riferimento in base alla quale si sceglie di osservare alcuni fenomeni piuttosto che altri odi attribuire importanza e peso ad alcuni. Ora, questa griglia, se non è scelta sulla base di una precisa teoria di riferimento, esiste comunque nella mente dell'educatore e, in ogni caso, svolge la sua funzione orientativa, condizionando il suo sguardo, anche nella sua totale inconsapevolezza.
    Le conseguenze sono molteplici: non solo vi è il rischio di un approccio naif e un pericoloso asservimento dell'educatore al manifestarsi degli eventi nel qui e ora, ma anche che gli strumenti utilizzati possano essere tra loro incongruenti.
    Mi sono trovato a constatare, in diverse occasioni, che le aree su cui era costruita la griglia di osservazione – individuate in maniera intuitiva dagli educatori – non erano le stesse utilizzate per redigere in seguito il Progetto educativo individualizzato (PEI). È come se ciò che viene osservato non avesse nessun collegamento con quello che in seguito si progetta e si decide di fare.
    • Una terza criticità riguarda la curvatura, diffusa nel mondo degli operatori sociali, verso un'attenzione a fattori di rischio, problematiche, disagi presenti nelle situazioni di cui ci si prende cura, piuttosto che a fattori di protezione, potenzialità e risorse. Se questo può trovare una qualche giustificazione in alcune professioni, non la può avere per quella educativa che ha per vocazione la ricerca, cura e promozione di ciò che di positivo vi è nelle persone.
    Perché le «relazioni osservative» degli educatori sono spesso ricche di analisi di fattori di fragilità o malfunzionamento delle famiglie e dei loro figli? Perché i PEI sono prevalentemente costruiti a partire dalla rilevazione dei disagi e non dalla promozione di quei fattori positivi, esistenti o che attendono di essere promossi e sostenuti?

    L'apporto dell'educativo al processo valutativo

    Affrontare queste criticità è un'operazione impegnativa, ma è una sfida da raccogliere per evitare che l'osservazione educativa risulti inconsistente e inutile. Le riflessioni che proporrò nascono dalla tesi per cui il processo di valutazione – ossia l'analisi che i servizi sociali effettuano per conoscere la situazione al fine di formulare un progetto di sostegno al nucleo familiare – può essere arricchito se all'analisi sociale e psicologico/psichiatrica se ne aggiunge una di tipo educativo che, come illustrerò, offre un contributo non sostituibile.
    In particolare, cercherò di ridefinire o riscoprire la specificità dello sguardo educativo attraverso la proposta di due rappresentazioni dell'educatore: l'educatore come «professionista della vista» e l'educatore come «geografo dell'umano». Queste due immagini costringono a fare i conti con due figure che rappresentano modi di fare l'educatore non sufficienti: l'educatore «medico» e l'educatore «d'azione».

    IL PROFESSIONISTA DELLA «VISTA»

    Nel 2006 scrissi un breve capitolo all'interno di una pubblicazione (2) in cui proponevo l'idea dell'educatore come professionista della «vista»; un operatore sociale preparato (o che dovrebbe esserlo) a vedere «dentro e oltre l'altro, scorgere tra le pieghe tracce di vita, segni invisibili ma veri di futuro possibile, immagini di un'anima che sta cercando di trovare il suo posto sulla terra».

    Un duro lavoro di allenamento dello sguardo

    Avere la «vista» non è un dono di natura – se non per pochi – ma frutto di duro allenamento, di un impegnativo percorso di apprendimento attraverso il quale, di fronte alle fatiche, agli inaridimenti, alle incompetenze e alle colpe, sino alle soglie del male, l'educatore impara a non farsi offuscare la vista dalla nebbia di ciò che non funziona o di ciò che manca.
    Egli invece è capace di buttarsi a capofitto nella ricerca di ciò che di positivo vi è nelle persone, anche se nascosto, soffocato, distorto; di quel po' di terreno fertile su cui ri-seminare una speranza di un futuro possibile. Come dice Ivo Lizzola:

    «La possibilità non è vissuta come il contrario dell'impossibilità, da quest'ultima negata. È invece sinonimo di potenzialità dell'umano che sa fronteggiare il non più possibile, le limitazioni specifiche che ogni persona incontra». (3)

    Per far questo ci vuole coraggio: il «coraggio è forza e volontà di scegliere nella notte, cioè nel bel mezzo di difficoltà (4). Proprio lì, nel mezzo delle difficoltà, l'educatore ha il coraggio di ricercare segni di speranza perché «l'atto di coraggio avviene sì nella notte, ma ha la forza dell'illuminazione, di un Fiat Lux, di un faro che indica la via da percorrere per un'umanità vera».
    Cercare l'insperato non è un'esclusività dell'educatore. Anche altre professioni non possono permettersi uno sguardo miope che limita la propria ricerca al cattivo funzionamento delle persone e delle loro relazioni. Ciò che sostengo è che per l'educatore questo sguardo sul positivo è una necessità professionale; è ciò che contraddistingue il suo lavoro rispetto ad altre professioni; è il suo quid, lo specifico contributo che può portare alla conoscenza.

    L'immaginazione del cambiamento possibile

    D'altro canto, a cosa può servire un educatore che ricerca gli elementi che confermano l'analisi sociale dell'assistente sociale? A cosa può servire un educatore che si cimenta in pratiche pseudo-psico-diagnostiche per contribuire all'analisi psicologica?
    Un educatore che si muove su questi piani è un educatore che ha perso la vista e con essa ha smarrito lo specifico della propria professione. Ad altri professionisti con cui collabora non resta che relegarlo nel ruolo di esecutore di analisi e progetti da loro definiti.
    Di ben altro spessore è l'educatore la cui particolare vista consente a sé e agli altri professionisti di vedere, come proiettata in una parete, l'immagine di ciò che quel bambino e i suoi genitori potranno essere, diventare e fare. Non un'immagine falsa o edulcorata della realtà, bensì un'immagine di una direzione di cambiamento possibile che nasce dai germi (i fattori di protezione) di ciò che già oggi si può vedere.

    L'EDUCATORE «MEDICO» E L'EDUCATORE «D'AZIONE»

    Dobbiamo ora capire come la competenza della vista possa essere esercitata per raggiungere lo scopo che ci sfamo prefissi, ossia individuare i fattori di protezione presenti all'interno di un nucleo familiare.
    Innanzitutto ci chiediamo se vi sia un atteggiamento professionale che possa favorire questo. Nella mia esperienza ho trovato, tra gli educatori, il prevalere di due atteggiamenti che possiamo rappresentare come poli estremi (e volontariamente estremizzati) di un medesimo continuum: da un lato l'educatore «medico» e dall'altro l'educatore «d'azione».
    L'educatore «medico» è il professionista che ha fatto proprio, spesso inconsapevolmente, il modello medico della valutazione, di stampo positivista.
    Il sogno di questa tipologia di educatore è di avere una strumentazione che gli consenta di mantenere una distanza tale dal suo «oggetto» di osservazione – ad esempio la relazione esistente tra il bambino e i suoi genitori – per poter formulare così una «diagnosi oggettiva e vera» della situazione e prescrivere infine la «giusta cura» per risolvere i problemi.
    Egli utilizza il tempo per osservare un oggetto e da questa sua azione ricavare gli elementi che gli servono per compilare le sue griglie di osservazione, attraverso le quali produrre un suo piano d'azione: il PEI. In tutto questo movimento, l'attore protagonista al centro della scena è l'educatore: è lui che predispone, osserva, valuta, interpreta, progetta e prescrive.
    L'educatore «d'azione», invece, è l'educatore che si immerge nel contesto, lo osserva sentendolo empaticamente e comincia al più presto a darsi da fare, a occuparsi di quel che c'è bisogno: intervenire, rimediare, raddrizzare, correggere, compensare, migliorare. Il tempo dell'osservazione, ín realtà, si dissolve rapidamente nel tempo dell'azione. Ciò che egli osserva e su cui agisce deriva da ciò che appare nell'immediatezza, nell'evolversi della situazione e della relazione interpersonale. Anche l'educatore «d'azione» è al centro della scena con le sue idee, le sue intuizioni, i suol sentire, le sue azioni, le sue speranze dí risolvere i problemi.
    A ben vedere, queste due diverse tipologie di educatore hanno alcuni elementi in comune assai poco educativi ed efficaci:
    • con il loro protagonismo, si propongono entrambi come una figura professionale che agisce su e non con le persone;
    • ciò che essi osservano è loro stessi: nel primo caso, la validità delle loro diagnosi, nel secondo caso, l'efficacia delle loro azioni;
    • le loro osservazioni rischiano di non aggiungere niente di nuovo a ciò che può essere già conosciuto dagli altri professionisti che si occupano della situazione;
    • sono entrambe figure solitarie che possono agire indipendentemente dall'esistenza di un'équipe di lavoro poiché perseguono prevalentemente il loro fine professionale. Mi chiedo: è possibile superare questi modelli? È possibile scoprire o ri-scoprire un atteggiamento educativo congruente con il pensiero che stiamo generando?

    L'EDUCATORE COME GEOGRAFO DELL'UMANO

    Ho avuto la fortuna di leggere il testo Geografie di prossimità (5) in cui ho trovato delle sorprendenti similitudini tra la descrizione dell'atteggiamento del geografo sul campo illustrata nella pubblicazione e l'atteggiamento dell'educatore che sto cercando di delineare.

    L'uscita dal proprio campo ideologico

    Gli autori parlano dí prossimità geografica immaginata per descrivere quella fase precedente all'entrata del geografo in un determinato territorio che si è prefisso di conoscere. In questa fase entra in gioco il suo «campo ideologico», ossia l'insieme delle conoscenze, teorie, percezioni, che
    concorrono alla costruzione dell'immagine che il geografo avrà di quel territorio prima
    di entrare in contatto diretto con esso. Nel momento in cui il geografo inizia il suo
    lavoro di campo, entrando fisicamente nel territorio, prende avvio una seconda fase
    definita dagli autori prossimità geografica temporanea, in cui avviene l'incontro - scontro tra quanto era stato immaginato e quanto si vive nell'incontro con gli attori e gli spazi reali di quel territorio.
    In questa fase il geografo dovrebbe

    «vivere il lavoro di campo più attraverso un mettersi in cammino con il territorio che non un semplice percorrerlo, osservarlo o visitarlo, accettando di correre il rischio di sbagliare strada, di smarrirsi, dal momento che non si tratta di seguire un itinerario già noto, ma di aprirsi una via per la quale disponiamo tutt'al più di tracce appena segnate.
    Proprio per questo diventa essenziale l'attenzione alla strada nel suo intrecciarsi e i segnali che, qua e là, è possibile cogliere lungo il tragitto».

    Il rovesciamento delle ipotesi iniziali

    Questa «attenzione alla strada» domanda una grande capacità d'ascolto che non si limita alla raccolta d'informazioni, a svolgere verifiche e valutazioni, bensì si traduce nel «fare esperienza», che significa accorgersi di avere assunto come valide rappresentazioni, magari condivise da molti, ma in cui la distanza tra í diversi territori esistenti, pensati, desiderati, voluti e realizzati, può portare a rovesciare le ipotesi iniziali.

    «"Fare esperienza" è rendersi conto di aver imboccato un vicolo cieco e di dover ricominciare. Ed è in questa «capacità di inciampare» che si costruisce e si misura tutta la competenza del chercheur de terraín nel poter osservare ciò cui non è preparato, lottando contro l'ordinaria propensione a trovare quello che sta cercando, e quindi nel produrre nuove letture che l'obbligheranno a modificare le ipotesi di partenza».

    Si tratta di preziose sollecitazioni che ci provengono dall'esperienza della scienza geografica e che mi hanno indotto a immaginare la figura dell'educatore come un geografo dell'umano: l'educatore è simile a un geografo che si mette in cammino con un determinato territorio (il che, fuori di metafora, significa mettersi in cammino con una famiglia).
    Questa sua ricerca può essere dunque scandita da alcune fasi di osservazione che richiedono l'assunzione di precisi atteggiamenti e l'utilizzo di adeguati strumenti: la prossimità umana immaginata, la prossimità umana temporanea, la prossimità umana condivisa.

    LA PROSSIMITÀ UMANA IMMAGINATA

    In una prima fase del lavoro, che chiameremo «prossimità umana immaginata», l'educatore si costruisce un'immagine della famiglia e del bambino/adolescente sulla base delle informazioni, conoscenze, esperienze, valutazioni e interpretazioni fornite da chi lo ha preceduto nella conoscenza della famiglia. È una prima tappa di avvicinamento, un approssimarsi al mondo di questa famiglia, che richiede di essere percorsa con grande professionalità:
    • ascoltando con attenzione, rispetto e partecipazione i racconti degli altri colleghi, sollecitandoli, se opportuno, ad approfondire le loro descrizioni;
    • collocando in maniera precisa tali informazioni all'interno del proprio quadro di riferimento, aiutandosi con alcuni strumenti (ad esempio una scheda di raccolta della segnalazione/richiesta);
    • studiando il materiale cartaceo (relazioni sociali, valutazioni diagnostiche) eventualmente fornito dagli altri professionisti;
    • valutando infine l'insieme di queste conoscenze e individuando le aree che possono richiedere un surplus di ricerca.
    La delicatezza di questa fase di lavoro sta nel fatto che quanta più cura l'educatore ripone nel costruirsi un'immagine dell'umanità che andrà a incontrare, tanta più attenzione dovrà avere nel ricordarsi che si tratta, appunto, solo di un'immagine: ovvero la ricostruzione dell'insieme delle informazioni ricevute operata dalla propria mente sulla base del proprio framework, fatto di teorie esplicite – ma anche implicite – di cui potrebbe non essere consapevole.
    Tanto la costruzione di questa immagine è professionalmente necessaria – perché, come tutti gli schemi percettivi e i processi di categorizzazione, ci aiuta a orientarci nella realtà – tanto più la sua potenza può diventare pericolosa nel momento in cui dovesse essere considerata più vera della realtà.
    In questo caso l'educatore correrebbe il rischio di condizionare la propria osservazione nella ricerca, nella realtà, di quegli indizi che possono confermare l'immagine che egli si è costruito, canalizzando le relazioni con le persone secondo le indicazioni fornite dal proprio schema (6). Schema a cui l'educatore si è così affezionato da apparirgli come una riproduzione perfetta della realtà.

    LA PROSSIMITÀ UMANA TEMPORANEA

    Quando invece l'educatore riesce a iniziare il suo viaggio con un bagaglio «leggero», può entrare in contatto con il mondo della famiglia e del bambino/adolescente disponibile a un incontro a 360 gradi.
    In questa seconda fase, diventa indispensabile sapersi muovere tra la «rigidità» di una tabella di marcia, con tempi certi e limitati/vincolanti, e la «flessibilità» di una metodologia di lavoro che tenga conto delle esigenze, dei bisogni, delle nuove domande che in itinere si presenteranno. (7) »
    Come abbiamo visto, la strada da seguire non è né quella dell'educatore «medico», che si limita a osservare il suo oggetto di conoscenza, né quella dell'educatore «d'azione» che, dimentico del compito di questa fase, inizia a darsi da fare.
    È il momento invece dí «fare esperienza», accettando di correre il rischio di «inciampare» su eventi a cui non si era preparati e che possono stravolgere le proprie rappresentazioni. Ma fare esperienza significa anche attivare la «vista», il desiderio di accogliere lo sconosciuto, di ricercare quel positivo che – abbiamo detto – da qualche parte è annidato. In ultima analisi, fare esperienza vuol dire quindi «fare con», fare qualcosa insieme con i genitori, con i bambini/adolescenti finalizzata alla conoscenza reciproca.
    Dobbiamo ricordare che, nella fase che stiamo approfondendo, non si sta realizzando un vero intervento, nel senso che non abbiamo ancora un progetto. Siamo ancora in una fase conoscitiva, di raccolta di quelle informazioni necessarie e utili alla formulazione di un progetto e quindi alla scelta dell'intervento più adatto in quella specifica situazione.
    Poiché l'educatore entra in casa d'altri, nell'intimità della vita di una famiglia, sono necessarie alcune attenzioni operative per evitare di essere percepiti come degli invasori da cui è necessario difendersi:
    • alla famiglia va spiegato con cura che l'educatore si recherà presso l'abitazione non per realizzare un intervento, bensì per potersi conoscere reciprocamente e arrivare, quando possibile, a scegliere un progetto condiviso;
    • le ore e le giornate in cui l'educatore si recherà presso la famiglia devono essere concordate con essa e le attività osservati-ve che penserà dí realizzare devono essere spiegate alla famiglia in maniera facilmente comprensibile;
    • deve essere inoltre spiegato alla famiglia che l'educatore non svolgerà la propria attività solo presso l'abitazione, ma incontrerà anche tutte le persone che costituiscono l'ambiente di vita del bambino, dagli insegnanti ai vicini di casa, dagli allenatori ai catechisti.

    VERSO UNA PROSSIMITÀ UMANA CONDIVISA

    La terza fase è la prossimità umana condivisa. Il «fare con» di cui stiamo parlando merita due ulteriori precisazioni.

    La cura di tre dimensioni della vita di una famiglia

    La prima scaturisce da quello che ci ha insegnato la teoria bioecologica dello sviluppo umano secondo cui la crescita di un bambino avviene all'interno di diversi sistemi interconnessi gli uni agli altri (8).
    Dí conseguenza, il processo di analisi, per essere il più completo possibile, deve comprendere l'osservazione di almeno tre dimensioni della vita di una famiglia: il bambino/adolescente, chi si prende cura di lui e il suo ambiente di vita.
    • «Fare insieme» al bambino o all'adolescente significa, innanzitutto, condividere «fisicamente» i diversi momenti e le diverse attività della sua vita quotidiana, come il risveglio, l'alimentazione, l'igiene personale, lo studio, il gioco, l'interazione con i suoi genitori, con i fratelli, con gli amici e con le persone presenti negli ambienti da lui frequentati, ecc. Allo stesso tempo significa anche proporgli delle attività, utilizzando strumenti finalizzati a fare emergere il suo punto vista rispetto a quello che egli sta vivendo (9).
    • «Fare insieme» a chi si prende cura del bambino/adolescente, sia che si tratti dei suoi genitori, di altri parenti o di figure sostitutive, significa, anche in questo caso, condividere alcune occasioni della loro vita quotidiana, ma anche proporre loro delle attività specifiche per raccogliere il loro punto di vista, la loro idea di genitorialità, i bisogni dei loro figli e le loro competenze per rispondervi. Anche in questo caso, a titolo di esempio, pensiamo all'efficace kit «Sostenere la genitorialità» (10).
    • Infine, «fare insieme» all'ambiente di vita significa dedicare del tempo per attraversare fisicamente il territorio dove si svolge la vita del bambino e dei suoi genitori. In questa attività la differenza professionale con il geografo si dissolve: si tratta infatti di incontrare i suoi insegnanti, i suoi educatori (sportivi, parrocchiali, ecc.), e dove possibile tutti gli adulti (il pediatra, i vicini di casa) che a vario titolo hanno a che fare con lui e la sua famiglia. Lo scopo è ascoltare il loro punto di vista e la loro conoscenza della situazione.

    La condivisione di un'ipotesi di progetto

    La seconda precisazione riguarda il fatto che l'insieme delle attività che sono state ora accennate producono nuove informazioni, idee e conoscenze che richiedono dí essere condivise con i genitori del bambino/adolescente, rimettendole in circolo immediatamente. Questa scelta, che è anche di tipo metodologico, non è fatta solo per evitare che nuove rappresentazioni si annidino e fossilizzino nella mente dell'educatore. Il motivo principale sta nel fatto che l'obiettivo finale dell'osservazione educativa è avvicinarsi il più possibile a una valutazione condivisa con í genitori – e con i loro figli – della situazione vissuta nella loro famiglia, favorendo così la nascita di una prossimità umana condivisa che diventa la porta di accesso per la costruzione di un'ipotesi di progetto condiviso.
    Questo perché uno dei migliori predittori di successo degli interventi sociali è la partecipazione delle famiglie alla valutazione della situazione e alla costruzione di un progetto che sia mirato al benessere dei suol membri. Come osservano Serbati e Milani (11):

    «I percorsi di valutazione realizzano tutto il loro potenziale formativo e trasformativo quando costituiscono contesti di apprendimento non solo per gli operatori, ma anche per le famiglie stesse, che durante il percorso di intervento si trovano impegnate in percorsi di costruzione di significato per "vivere meglio"».

    L'apertura di nuovi scenari

    L'approccio presentato, a mio avviso, apre a degli scenari assai interessanti per la figura dell'educatore.
    La chiarezza della specificità del suo sguardo e del contributo che egli può offrire agli altri professionisti potrebbe stimolare questa professione a ricercare nuovi strumenti educativi di analisi, a condividere e comunicare con maggior convinzione le proprie buone prassi, a rinvigorire l'entusiasmo e a rinforzare l'identità professionale.
    Le tre fasi dell'osservazione educativa – ossía la prossimità umana immaginata, temporanea e condivisa – rappresentano tre tappe di un processo di lavoro che, come abbiamo visto, richiedono degli importanti cambiamenti di prospettiva e che mi sembrano ben sintetizz abili con il seguente racconto paradigmatico:

    «Un maestro indù mostrò un giorno ai discepoli un foglio di carta con un puntino nero nel mezzo. "Che cosa vedete?", chiese. Ed essi: "Un punto nero!". "Come?" disse deluso il maestro. "Nessuno di voi è stato capace di vedere il grande spazio bianco tutt'attorno?"».

    * Marco Tuggia, educatore e pedagogista, è membro di LABRIEF (Laboratorio di ricerca e intervento in educazione familiare) dell'Università di Padova: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

    NOTE

    l Mi riferisco in particolare alle Comunità educative, sia diurne, che residenziali, al Servizio di educativa domiciliare e territoriale, ai Centri diurni.
    2 Tuggia M., L'educatore un po' mentore, in Mazzuchelli F. (a cura di), Viaggio attraverso i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, FrancoAngeli, Milano 2006.
    3 Lizzola I., Sei gesti profondi nel chinarsi sulla vita fragile, in «Animazione Sociale», 293, 2015, pp. 15-23.
    4 Manicardi L., Coraggio non temere, Edizioni Qiqajon, Magnano 2013.
    5 Bertoncin M., Pase A., Quadrida D., Geografie di prossimità, FrancoAngeli, Milano 2014.
    6 Utile a riguardo è la lettura di Arcuri L., Conoscenze sociali e processi psicologici, il Mulino, Bologna 1985.
    7 Bertoncin M. et al., op. cit.
    8 Bronfenbrenner U., Ecologia dello sviluppo umano, il Mulino, Bologna 1986; Idem, Rendere umani gli esseri umani. Bioecologia dello sviluppo, Erickson, Trento 2010; vedi anche Milani et al., Il quaderno di PIPPI Teorie, metodi e strumenti per l'implementazione del programma, Becco Giallo Lab, Padova 2014.
    9 Si possono consultare gli strumenti proposti in Milani P. et al., op. cit.
    10 Laviguer S., Coutu S., Dubeu D., Sostenere la genitorialità, Erickson, Trento 2011.
    11 Serbati S., Milani P., La tutela dei bambini; Carocci, Roma 2016.

    (Animazione sociale n. 297, 1/2016, pp. 77-85)


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