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    Nel passato questo era pacifico, per noi non lo è, perché con l’esperienza della secolarizzazione giunta a livello radicale, l’ateismo è una tentazione continua; cioè la messa in crisi della nostra immagine di Dio è una componente essenziale del cammino spirituale e quindi del cammino di fede. Prima non c’era questo, è un’esperienza abbastanza recente. Quel libro che vi ho citato di Armando Matteo, ‘La prima generazione incredula’, esprime precisamente questa novità.
    Anche nel periodo classico, cioè anche al tempo dei Romani, anche al tempo di Gesù c’erano alcuni ambienti in cui alcuni filosofi, alcuni pensatori erano giunti ad una posizione atea, proprio perché i processi di secolarizzazione erano già avviati da secoli – almeno da cinque secoli. Però nella stragrande maggioranza della gente non c’era il dubbio di questo, per cui quando dicevano “Io mi affido a Dio creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili…” esprimevano proprio un atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio.
    Mentre oggi quando noi diciamo “io credo” intendiamo “Io ritengo per vero”. Riguarda cioè il nostro modo di accettare delle verità, mentre la fede non è accettare delle verità, la fede è esercitare una fiducia. Quando il bambino si affida senza riserve alla madre, al braccio del padre, e vive questa esperienza di fiducia totale, è pieno di vita. Non sa chi è il padre, può darsi che non ne sappia neppure il nome, non è in grado di capire che lavoro fa… eppure è nella stessa avventura, nella stessa storia. Quindi noi non sappiamo cos’è Dio, però possiamo abbandonarci con fiducia alla sua azione, alla sua presenza e farla fiorire in noi in novità di vita.
    Capite allora la riduzione della fede alla credenza, cioè all’accettare per vere determinate cose. Invece quando parliamo della fede in Dio, della fede teologale, non ci riferiamo alla credenza, ci riferiamo all’atteggiamento di fiducia, che è quello stesso che sviluppa il bambino: tutti noi quando siamo nati abbiamo cominciato la nostra esistenza con l’atteggiamento di fiducia; che non è istintivo, è indotto dall’amore degli altri. Quando noi nasciamo non abbiamo di per sé l’atteggiamento di fiducia, tanto è vero che se non incontriamo amore ci chiudiamo in noi stessi e rifiutiamo la vita. E’ l’amore degli altri che suscita in noi la fiducia.
    Questo è vero anche per la fede vitale: quando diciamo che la fede è un dono, vogliamo dire che è suscitata dagli altri, che ci è offerta; non vuol dire che alcuni ce l’hanno e altri no, perché tutti quelli che vivono hanno ricevuto una grammo di fede. Non è fede in Dio, ma sviluppandosi nella vita giunge ad essere fede in Dio, quando scopriamo che non bastano i genitori, che ci sono i limiti, le insufficienze, che ciò che promettono tutte le creature sono illusioni, perché non bastano mai a quello che noi cerchiamo. Pian piano questo atteggiamento di fede giunge all’orizzonte teologale.
    Questo è tutto un gioco che richiede adesione e libertà. Quindi è chiaro, non tutti vi pervengono allo stesso modo, con gli stessi ritmi e nello stesso tempo; ma è un cammino che ha come verifica fondamentale, come traguardo finale, la morte, perché la morte senza dubbio ci chiederà di esercitare una fiducia tale da saper consegnare tutto. Occorre fidarsi interamente per morire e tutta la vita è una preparazione a quell’atto supremo di fede che è la nostra morte. Quindi capite che è una dinamica vitale.
    Certo, non è che sempre possiamo vivere nell’orizzonte teologale. L’ideale però è chiaro: è imparare a vivere di fronte a Dio, abbandonandoci con fiducia a quell’energia, a quella forza che ci può condurre là dove la vita ci chiama. Questo è il dato essenziale, che cresce nel tempo e che troverà nella morte proprio la sua verifica fondamentale. L’esercizio ultimo della nostra fede è il morire. Nelle diverse forme: per esempio uno può morire già dieci anni prima di morire, nel senso che poi non è in grado di prendere coscienza. In ogni caso c’è un momento decisivo in cui la vita ci chiede di dare una fiducia tale da saper morire. Questo vale per tutti.
    Capite perciò che quando parliamo della fede teologale non parliamo di qualcosa che si aggiunge alla fede vitale: è una modalità particolare di esercitare la fede vitale, quella fede che tutti dobbiamo esercitare per vivere. In questo senso allora vedete che siamo tutti nella stessa avventura, c’è una comunione profonda in questo tra tutti gli uomini.

     

    La speranza

    La speranza teologale non è il semplice attendere Dio che viene, nel senso di poter realizzare i propri progetti. No, la speranza teologale riguarda Dio, cioè è Dio che viene nella nostra vita. E’ cioè l’azione di Dio che in noi può diventare ‘gloria’, se vogliamo usare la formula di Ireneo “la gloria di Dio è l’uomo vivente”. Allora sperare vuol dire attendere Dio che viene.
    Voi potreste dire: “Perché non viene subito?”. Viene subito anche, ma viene in modo frammentario, per cui ogni volta che noi accogliamo un dono di Dio ascoltiamo una promessa di un dono successivo, per cui c’è sempre da attendere.
    In questo senso la speranza ha due ambiti: la storia e il dopo morte. La storia, nella quale noi attendiamo Dio che viene giorno per giorno, istante per istante, cioè la sua azione che in noi può fiorire in modo nuovo. Vivere teologalmente per esempio significa che al mattino dovremmo chiederci: “Cosa oggi di nuovo l’azione di Dio esprimerà in me, che io non ho mai conosciuto, che non ho mai accolto, che non mi è stato mai possibile percepire?”.
    Capite che acquista un’altra dinamica, non è: “mi capiterà qualcosa che corrisponde al mio bene”. No, può darsi che mi capiti una sventura, ma che io possa attraversarla e viverla in modo da crescere come figlio di Dio. Perché Dio viene anche lì. Non perché quella sventura o quell’incidente o quel fallimento l’abbia voluto Dio - perché può essere anche contro il volere di Dio - ma mi capita. Una persona mi odia. Non è che io posso dire: “Questo è contro la volontà di Dio”. Sì, è contro la volontà di Dio, ma io lo vivo. Non è che noi dobbiamo vivere solo ciò che corrisponde al volere di Dio. Se dovessimo vivere solo ciò che corrisponde al volere di Dio noi non vivremmo mai, moriremmo subito per andare alla vita eterna, quello corrisponde al volere di Dio.
    E’ questo il punto: l’oggetto della speranza nella storia non è che ciò che accadrà corrisponde al mio bene. No, l’oggetto della speranza è che ciò che accadrà io lo posso vivere in modo da crescere come figlio di Dio. Questo è l’oggetto della speranza nella storia.
    Poi per il dopo morte è la speranza definitiva, che noi chiamiamo ‘il nome scritto nei cieli’, ‘la nostra identità definitiva di figli di Dio’, ma non sappiamo qual è il contenuto di queste espressioni. E’ poi la duplice dimensione del Regno di Dio, perché anche la formula ‘regno di Dio’ ha due possibili referenti: la storia e il dopo morte. Non per nulla in alcuni periodi della storia della Chiesa quando si diceva ‘regno di Dio’ si voleva dire il Regno celeste, il Regno dei cieli. Non è questo il senso della formula, anche se ha pure questo riferimento. Sì, il regno di Dio è anche il regno definitivo, il regno di pace, di giustizia, ecc. nel mondo a venire. Quindi sono due gli aspetti: il regno nella storia e il regno nel compimento.
    Questo è l’oggetto della speranza, è il regno di Dio che viene nella nostra vita.
    Ricordate che in Ap.1,8 si dice: “Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, colui che è, che era e che viene”. Vedete che ritornano le tre dimensioni del tempo: il Dio che è, che è il dato iniziale; che era, che noi ricordiamo attraverso la memoria; e il Dio che viene.
    Sono metafore, perché Dio è presente. La presenza è la relazione in atto, ma la relazione ha contenuti sempre nuovi. Qui è il punto. Perché noi non siamo in grado di accogliere tutto in un istante, siamo tempo. Dio è eternità, è pienezza compiuta, noi siamo frammento dopo frammento, per cui dobbiamo attendere Dio che viene. Per necessità. E’ imparare a vivere il tempo - che è una condizione essenziale per la vita spirituale - senza lasciarci dominare dal passato, né lasciarci invadere dal futuro, per vivere intensamente il presente. Ma un presente che fa memoria del passato, raccoglie le sue ricchezze, redime le sue insufficienze e attende costantemente il futuro. Questa è la nostra struttura interiore di creature.
    Credo che allora sia chiaro che quando parliamo di speranza non parliamo semplicemente di attendere del bene, dei traguardi, dei successi ecc. E’ attendere Dio che viene, per rendere possibile il suo futuro in noi. Perché noi possiamo impedire il futuro. Questo è il dramma della nostra vita: noi possiamo impedire il futuro, assolutizzando il presente o il passato, per cui non attendiamo più nulla.
    Quello che dicevo prima della fede vale anche per la speranza: La morte è il luogo decisivo dell’esercizio della speranza teologale, perché occorre fidarsi così di Dio da saper perdere la vita. E questo è chiesto a tutti, non solo ai martiri. Ai martiri in un modo specifico per la fede, ma a tutti noi è chiesto di fidarsi così di Dio, da saper perdere la vita per Lui, per diventare figli. Perdere vuol dire proprio morire, cioè ci sarà chiesto di morire.
    La speranza teologale non è facile da esercitare, perché spesso noi la identifichiamo con i nostri progetti, con i nostri traguardi e pensiamo di attendere Dio che viene. Il problema è che Dio viene in un’altra direzione, viene in un altro luogo.

    L’agape

    Qui il discorso è ancora più difficile, perché siccome tutti facciamo esperienze di amore, di misericordia, di benevolenza, crediamo di sapere cos’è amare e quando diciamo che si tratta di rivelare l’amore di Dio pensiamo “io so cos’è l’amore, perché io amo, ho amato i genitori, amo gli amici…”. Allora partiamo dalla presunzione di sapere cos’è l’amore teologale.
    Invece l’amore teologale è una scoperta da fare. Guardate che è stata la scoperta fondamentale dei discepoli di Gesù: quella per cui hanno giocato la vita è stata proprio la scoperta della nuova modalità di amore. Ad un certo momento hanno scoperto di vivere i rapporti in un modo completamente nuovo. Era un dato, non è che hanno cercato, non è che hanno detto: “Dobbiamo, perché Gesù ci ha detto che questo è la somma della legge”. No, ciò che hanno espresso in questo modo era l’esperienza che vivevano, com’era stata l’esperienza di Gesù, che era giunto ad una qualità nuova di amore. Quando Gesù ha cominciato a rivelare Dio in modo nuovo non ha fatto altro che esprimere l’esperienza di amore che faceva, per cui è diventato lui rivelazione di Dio. In quel modo che era possibile, fino a quel traguardo a cui l’umanità finora è arrivata. Ci saranno altri traguardi che dobbiamo raggiungere, perché sono ritmi, questi, che richiedono millenni; però è sicuro che oggi l’umanità soffre perché il tipo di amore oggi necessario per la storia umana non è ancora diffuso tra gli uomini, per cui soffriamo proprio di incapacità di amare.
    Guardate, non è un’aggiunta che dobbiamo fare, è proprio un’esigenza di vita, perché man mano che la storia avanza il grado di amore necessario per vivere quella stagione è nuovo, cresce. Questo lo vediamo bene nella nostra vita personale. E’ chiaro: il grado di amore che è necessario per un bambino piccolo nel vivere i rapporti con i suoi genitori è abbastanza semplice, è indotto dall’amore dei genitori e questo è un processo che avviene senza eccessive difficoltà. Però pian piano, man mano che gli anni passano, l’amore che è richiesto ai genitori per far crescere i figli e ai figli per accogliere l’azione di vita dei genitori, e quindi l’intensità del rapporto, deve crescere. Per cui non è che l’amore del piccolo è sufficiente. No, è sufficiente allora, ma dopo deve crescere e deve crescere corrispondentemente all’amore dei genitori nei suoi confronti, all’offerta di amore della comunità nei suoi confronti.
    Questo riusciamo a intravvederlo nella crescita della persona, per cui quello che dicevo prima della fede e della speranza vale anche per l’amore. La morte ci chiederà una qualità di amore, una capacità di misericordia e di gratuità, una capacità di consegnare tutto, che prima mai avevamo esercitato. Certo, ci sono anticipazioni di morte nei nostro cammino vitale, sono quelle anticipazioni nelle quali cominciamo a sperimentare cosa la morte ci chiede e quindi anche a esercitarci. E’ una fortuna, questa, perché se dovessimo arrivare alla morte senza nessuna avvisaglia ci troveremmo incapaci di fede, di speranza e di amore, perché è un grado tale, che deve essere maturato nella sofferenza, nell’incomprensione, nella malattia, nelle diverse situazioni nelle quali ci è chiesto di esercitare fiducia in Dio e quindi di accogliere il suo amore per rivelarlo.
    Se non giungiamo a questa capacità di amore, noi non siamo capaci di morire. Moriamo lo stesso, ma la morte diventa una rapina, cioè ci assale: “è come un ladro”, diceva Gesù. Allora viene come un ladro e ti porta via quello che non vuoi dare. Invece la morte è un fatto di vita, è l’atto supremo della vita: noi siamo viventi proprio per essere in grado di morire. Quando diventiamo capaci di morire, allora vuol dire che siamo in grado di consegnare tutto e di non trattenere più nulla per noi.
    L’agape, allora, l’amore teologale, in che cosa consiste? Consiste nell’accogliere così l’azione di Dio, da sapere consegnare tutto. Accogliere così l’azione di Dio, da rivelare in noi la grandezza del suo amore. Nei limiti della nostra capacità, perché è chiaro, c’è sempre qualcosa di più grande nell’amore di Dio, nell’azione di Dio, però noi dovremmo giungere a questa capacità.
    Per cui quando per esempio qualcuno ci offende, l’amore teologale consiste nell’esprimere benedizione per quella persona, nell’esprimere benevolenza per quella persona, nell’esprimere quella forza di vita per cui può uscire dal suo male. Perché facendoci del male fa male anche a se stesso, e noi dovremmo essere in grado di offrirgli quel bene per cui annulla poi il male che ha fatto in se stesso.
    Questo è l’ideale che Gesù propone. Molti dicono che la proposta di Gesù – porgere l’altra guancia, amare i nemici e così via – è una proposta utopica, irrealizzabile. In realtà non è così, è realizzabile, solo che è il traguardo supremo del cammino dell’amore. Il traguardo supremo non si può raggiungere in poco tempo, però è possibile pervenirvi.
    Questo noi lo possiamo sperimentare in piccole situazioni. Non cominciamo con le grandi, perché se cominciamo con le grandi è chiaro che non siamo capaci, ma nelle piccole espressioni - p.e. qualcuno che ha espresso disistima o sfiducia nei nostri confronti – può darsi che riusciamo a benedirlo, cioè a esprimere il bene per lui. Un giorno potremmo giungere ad essere grati a qualcuno che ci ha fatto del male, essere grati per il bene che l’azione di Dio è stata in grado di suscitare in noi in quella situazione. Sono dinamiche reali queste, che è possibile verificare, cominciando appunto dalle piccole situazioni.
    Questo così come è sorto è specifico del cristianesimo, ma questo non vuol dire che sia esclusivo: specifico vuol dire che il compito che il cristiano ha di fronte al mondo è quello di diffondere per induzione queste dinamiche. Questo è il compito. Ciascuna religione ha un suo compito: alcune religioni hanno il compito di diffondere l’interiorità o le tecniche di meditazioni o la compassione o altre espressioni. L’amore teologale è una dinamica specifica. Ripeto: specifica non vuol dire esclusiva, perché deve diventare comune a tutti.
    Questa è un’esigenza avvertita oggi in tutte le parti del mondo. Come tradizione ancora non c’è, però come esigenza è avvertita, perché l’orizzonte planetario dell’esperienza umana oggi richiede una qualità di amore di questo tipo. Gli ebrei e i palestinesi non potranno giungere mai a vivere la pace se non giungono ad esprimere dinamiche di questo tipo. E’ necessario, è urgente oggi per l’umanità, altrimenti l’umanità si distrugge: la posta in gioco è proprio la distruzione dell’umanità. Siamo in ritardo e il ritardo dell’umanità in questo senso - lo dobbiamo riconoscere - è colpa di noi cristiani, che avevamo il compito di diffondere questo stile di vita e invece abbiamo diffuso stili di guerra.
    Capite allora l’importanza di pervenire, proprio fra di noi, nelle nostre case, nelle nostre comunità, al livello di amore oblativo e gratuito che è proprio dell’agape, cioè dell’amore di Dio rivelatosi nelle creature. Questo è fondamentale. Quindi è un compito nostro non è – lo voglio ripetere – una qualità esclusiva, ma è una specificità da diffondere, perché diventi propria di tutti gli uomini e di tutte le culture. Perché la storia umana è un processo, è uno sviluppo, ciò che oggi è richiesto per l’amore tra gli uomini prima non era richiesto: non era possibile e non era necessario. Oggi è diventato necessario ed è reso possibile dallo sviluppo delle strutture e così via.
    Vedetelo in questa prospettiva, per cui capite il compito che abbiamo come discepoli di Gesù di mostrare la concretezza del suo messaggio d’amore, che è l’amore teologale, l’amore che nasce dal rapporto con Dio accolto.

    (29 giugno 2012, Corso di esercizi spirituali all’Abbazia di Maguzzano)


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