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    Le sfide

    della solidarietà

    Carlo Maria Martini e Massimo Cacciari


    Carità ed elemosina, vangelo e testimonianza comunitaria, stato sociale e liberismo economico, democrazia e partecipazione: questi i temi sui quali, qui, esprimono un parere il Cardinale Carlo Maria martini, arcivescovo di Milano, e il filosofo Massimo Cacciari, sindaco di Venezia. Ciascuno dal suo punto di vista, intervenendo alla presentazione della "Biblioteca della solidarietà" rispondono alle sfide culturali, pastorali e socio-politiche che la solidarietà pone alla chiesa e alla società.
    Un incontro-confronto costruttivo e illuminante per quanti, a titolo personale e comunitario, sono responsabili e coinvolti nella promozione e nella costruzione di una società solidale, a fianco dei poveri e dei deboli.

     

    NON SENTIMENTALI MA RESPONSABILI

    Carlo Maria Martini

    Sono lieto di partecipare a questo incontro sul tema: "Solidarietà: una sfida per la chiesa e per la società". Dati i molti impegni di questo periodo, non mi è possibile svolgere una conferenza vera e propria: dovrò limitarmi ad alcune riflessioni introduttive all'intervento del prof. Cacciari al quale rivolgo il mio saluto. Sono in sintonia con lo sforzo della Caritas per riportare l'attenzione pubblica sui temi oggi essenziali per la vita del paese, e su dimensioni vitali del nostro cammino sociale e politico.
    Per prepararmi a questo incontro, qualche tempo fa ho compulsato un compact disk, che contiene tutti gli scritti e i discorsi di Giovanni Paolo II; ho chiesto a questo dischetto le occorrenze della parola solidarietà nei testi del Papa dal 1979 al 1994 e la risposta del computer è stata: aspetta, dopo qualche minuto che il computer continuava a dire attendi, attendi, io pensavo di aver sbagliato tasto, non essendo molto pratico; dopo circa dieci o dodici minuti è venuta la risposta: oltre 64.000 occorrenze di questa parola negli scritti e nei discorsi del Papa, è certamente qualcosa di assai rilevante per una parola, solidarietà, entrata da poco nel vocabolario ecclesiastico; la si trova, nel Vati-cano II, nove volte in tutto e tra queste nove occorrenze è significativa ad esempio quella del documento Apostolicam Actuositatem (n. 14) sull'apostolato dei laici, dove sotto il titolo "Ordine Nazionale e Internazionale" dice così: "Tra i segni del nostro tempo è degno di speciale menzione il crescente e inarrestabile senso di solidarietà di tutti i popoli, che è compito dell'apostolato e di laici promuovere con sollecitudine e trasformare in sincero affetto fraterno". È da un testo come questo nel Vaticano II che emerge la fortuna e l'uso di questa parola nel vocabolario ecclesiastico, in relazione al crescere dell'uso della parola del vocabolario civile degli ultimi due secoli, a partire dal secolo scorso.

    Il valore della Parola

    Noi sappiamo bene che quando una parola viene utilizzata molte volte in molteplici contesti, si espone al rischio di genericità e di ambiguità. Rischia di diventare un appello vano, puramente verbale. Ciò non toglie che questo vocabolo, malgrado tante discussioni e scetticismo al proposito, sia ancora oggi portatore di una grande capacità allusiva, tanto che è difficile trovare qualcuno che si dichiari essere contro la solidarietà, se non nel senso di essere contro gli abusi che si possono fare
    arietà to sociale di questo termine, per coprire forme di assistenzialismo o addirittura di spreco; ma il valore ideale della solidarietà rimane in sé ancora fra i valori universalmente riconosciuto: la parola fa da sigla e riferimento sintetico di un'unità e interdipendenza, che l'umanità è chiamata a riconoscere preliminarmente alle diversificazioni in cui essa si articola.
    Mi pare che in questo senso la parola solidarietà sia partecipe del destino di altre parole e categorie di respiro universale, come i diritti umani; parole pensate espressamente con l'intento di un'elevata condivisibilità, entro un contesto di laicità e di un ampio pluralismo di idee, il che tuttavia non risolve il problema della loro possibile ambiguità tanto teorica quanto pratica, e mi pare quindi insita una prima sfida a livello culturale-religioso, prima che in senso etico e sociale, contenuta in questa solidarietà.
    Lo stimolo a prendere e pensare le ragioni di interdipendenza, che non possono essere affidate a singole parti del corpo sociale, ma esigono un contesto il più possibile approfondito e diffuso. Penso all'interno della storia del nostro paese, a quel momento di grande solidarietà che si è attuato, pur tra forze di ispirazione sociale e politica molto distanti fra loro e che pure hanno trovato convergenza nel momento costituente, dove la significatività del progetto costituente non risiedeva soltanto nelle garanzie offerte dal dettato costituzionale, ma forse molto di più in quel consenso comune, profondo, radicato nella coscienza di un popolo che ricercava vie di rinascita e di autentica crescita civile. Per questo non è inutile l'appello a una singolare cautela nell'approccio a temi come questi che, dietro l'appello generico della solidarietà, possono nascondere non di rado ottiche estremamente parziali.
    I casi più clamorosi si hanno quando la solidarietà è invocata ad esempio solo a proprio vantaggio, come dovere di altri verso se stessi e il proprio gruppo, o quando la solidarietà è intesa come legame corporativistico di alcuni uniti per tutelare meglio il proprio interesse nei confronti di altri, e così via. Per questo occorre una rilettura seria e approfondita, come quella che la Caritas propone con questa "Biblioteca della solidarietà".

    Solidarietà e farsi prossimo

    Mi limiterò qui a richiamare due icone bibliche particolarmente significative su questo tema: quella della parabola del Buon Samaritano (Luca 10) e quella del Giudizio Finale (Matteo, capitolo 25). È noto infatti che nella Bibbia non ricorre come tale la parola solidarietà, tuttavia l'idea e le sue istanze possono contare su numerosi riferimenti.
    L'intera vicenda di Israele può essere letta alla luce della solidarietà di Dio che fa causa comune con i destini di quello che chiama ad essere il popolo, e suscita in esso la coscienza di un'unità del tutto inedita, radicata nell'alleanza.
    Ma vorrei concretare la mia attenzione sul brano di Luca 10-25,37, che mi sembra adatto per riflettere su una figura di solidarietà: quella che si attua nella forma di immediatezza, dei rapporti brevi, delle relazioni faccia a faccia, dell'incontro con il volto dell'altro. Su questo testo abbiamo riflettuto a lungo in un biennio del cammino dedicato a farsi prossimo.
    Vorrei sottolineare qualche aspetto simbolico dell'icona biblica. Anzitutto la vicenda narrata dalla parabola si svolge su una strada, quella che collega Gerusalemme, città santa, a Gerico, simbolo della città secolare; la strada fra le due città è il luogo della distanza, ma anche del collegamento. Su questa strada camminano gli uomini, simboli dell'una e dell'altra città: cammina il rapinato e il samaritano, che probabilmente erano due commercianti che viaggiavano per i loro affari, camminano il sacerdote e il levita, uomini di religione. La strada è quella realtà della vita comune dove tutti si ritrovano, ma è anche il luogo degli scontri, degli egoismi di gruppo, che giungono alla violenza, come quella dei rapinatori. È il luogo degli egoismi privati o forse motivati da pretesti culturali, come quello del sacerdote e del levita; la stessa strada è anche il luogo della prossimità vissuta, come quella del samaritano. Perciò è nella vita quotidiana, nei rapporti della vita di ogni giorno, al di là delle ideologie e dei ruoli, che si gioca anzitutto la solidarietà; essa richiede di uscire dai ruoli, di dimenticare le convenienze per accorgersi di essere semplicemente uomo o donna, essere umano.
    La parabola dice di più notando che il samaritano si fermò presso il ferito non perché professasse principi di solidarietà sociale o teorie sull'uguaglianza di tutti gli uomini, su ciò tace il racconto, ma perché, dice la parola evangelica: "Passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione, lo guardò nel volto e ascoltò il suo cuore". Nella conclusione della parabola, alla domanda chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti, la risposta suona così: "Chi ha avuto compassione di lui", anche se la parola compassione è oggi anch'essa sospetto e non è volentieri messa in rapporto con la solidarietà. L'espressione biblica indica che quest'uomo lasciò parlare il cuore, sentì dentro di sé fremere quel senso di comunione, di esigenza di prendersi cura dell'altro, che è nel fondo di ciascuno di noi, quando non è soffocato da infrastrutture che accumulano diversità, pretesti, difese, e mi pare che ci venga detto qui che la solidarietà faccia appello alle forze più profonde, più native che sono dentro di noi, che superano tutti i confini storici, culturali, razziali, religiosi per toccare le persone dal loro fondo.

    Solidarietà e giudizio finale

    Voglio fare un accenno alla seconda icona che ho ricordato, quella del Giudizio Finale, e in particolare, in questa icona così nota di Matteo 25, allo stupore di entrambe le categorie, quella della destra e quella della sinistra, di fronte al fatto, alla parola del re che dice: "Ciò che avete fatto, o non avete fatto, a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto o non l'avete fatto a me".
    Leggo in questo stupore non soltanto una profonda dottrina teologica, su cui non insisto qui, ma anche uno stimolo simbolico a riflettere ulteriormente su un aspetto della solidarietà che supera quello della parabola del Samaritano: in essa si vede il volto dell'altro sofferente, qui si supera il volto immediato per estendersi a ciò che esso significa e, simbolicamente, a tutte quelle situazioni in cui non si vede più, se non in qualche modo, il volto dell'altro. È il campo vastissimo delle relazioni sociali, di carattere mediato e istituzionale. Infatti, dentro una relazione in qualche modo istituzionale, ad esempio di tipo politico-amministrativo-economico-finanziario-lavorativo, comunque mediata da grandi istituzioni sociali, non è possibile vedere l'altro con immediatezza, incontrarlo, stabilire con lui un dialogo, lasciarsi commuovere da un volto. Non è possibile vedere l'esito del nostro operato. Tutto ciò potrebbe farci pensare che solo nell'immediatezza effettiva di un rapporto possa essere davvero vissuta la solidarietà.
    È un concetto abbastanza comune che la solidarietà sia dei volontari, di quelli che agiscono di buon cuore. la società come tale è altro. Mi pare che proprio in una società come la nostra nasca questa sfida formidabile, quella di mostrare che anche l'agire faticoso e spesso frustrante di chi non riceve un riscontro immediato per la sua opera a favore di altri, abbia un senso, anzi sia d'assoluta necessità. penso all'uomo politico onesto che rischia di non vedere in che senso e in che misura il suo servizio possa effettivamente essere opera di solidarietà; quindi all'uomo tentato di lasciare la propria sfera di responsabilità pubblica, per altri settori di operatività più immediati e promettenti, dove le proprie convinzioni gli sembrano poter trovare espressioni in forma quasi più pura e non di compromessi. Penso anche a chi vive in modo esemplare ogni responsabilità di carattere secondario nella società: dal ricercatore coscienzioso che mette i frutti delle sue conoscenze a servizio del bene di tutti e non di se stesso; penso a chi esercita responsabilmente un lavoro manuale parcellizzato e spersonalizzato, senza poter vedere che anche la qualità del proprio prodotto può essere intesa come servizio di solidarietà effettiva con l'altro e la società. Occorre quindi a mio avviso estendere la considerazione delle forme di solidarietà possibile anche a queste, forse meno immediate e appariscenti, ma non meno preziose per la crescita della società tutta, che necessità di solidarietà a tutti i suoi livelli mediati ed immediati; anzi, dobbiamo dire che le forze della solidarietà concernenti il secondo livello, quello mediato, vanno viste come indispensabile completamento del primo. Si tratta di due aspetti complementari di un'unica solidarietà.

    Solidarietà, virtù sociale fondamentale

    È proprio la logica del farsi prossimo anche là dove il mio prossimo è distante, o addirittura non realisticamente incontrabile fisicamente, pensiamo fino all'ambito dei rapporti internazionali, a farsi attivamente ed efficacemente presenti. Occorre riconoscere il valore profetico realizzato dalle forme di solidarietà immediata verso gli ultimi, le forme riconoscibili nelle molteplici attività di volontariato esistenti; ma penso che la logica di profonda solidarietà, inscritta entro quest'espressione di grande gratuità e d'indicazione consapevole dell'altro, debba diventare non appannaggio esclusivo di questa attività, ma provocazione effettiva, perché non venga a mancare alla società intera, in tutte le sue molteplici espressioni, questo apporto non superfluo, ma essenziale e sempre più urgente.
    Trovo una risposta a queste cose da Giovanni Paolo II nella sua enciclica Sollicitudo rei socialis, forse in questi anni uno dei testi più significativi per la società: "Quando l'interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta come atteggiamento morale e sociale, come virtù, è la solidarietà. Questa non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine e lontane, al contrario è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune, ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siano veramente responsabili di tutti". Si noti come, stando a questa definizione, la solidarietà tenda ad assumere il ruolo tradizionalmente assunto dalla giustizia, la virtù orientata per eccellenza al bene comune, assorgendo quindi la solidarietà quasi al ruolo di virtù sociale fondamentale. In questa luce vorrei concludere: solo se anche le trame complesse e articolate delle strutture economiche-giuridiche-sociali e politiche di un paese saranno innervate dal riconoscimento delle solidarietà possibili, quindi doverosamente praticabili, la solidarietà, come atteggiamento morale, espressione comune e condivisa dall'attenzione dell'altro in ogni suo apparire, potrà dispiegare al massimo grado tutte le sue potenzialità. Ringrazio ancora la Caritas che si impegna per
    l'approfondimento delle mete ideali. Ringrazio voi tutti per la vostra attenzione.

    * * *

    NON "IDIOTI" MA SOLIDALI

    Massimo Cacciari

    L'incontro di oggi ci invita a riflettere sul valore, sul termine solidarietà, come una sfida. Vorrei iniziare tentando di mostrare come effettivamente si tratti di una sfida molto impegnativa, perché nessun elemento, nessun fattore dell'attuale sviluppo economico-sociale, di per sé porta naturalmente ad una qualsiasi indicazione pratica su come poter svolgere, mettere in pratica questo tema, cioè se il nostro modello di sviluppo economico-sociale continua a muoversi nel presupposto, quasi mai dichiarato esplicitamente ma sempre evidenziato nei fatti, che ciò che interessa è il ciclo di produzione-consumo, ciò che sta a monte o a valle del ciclo è variabile dipendente, e che intanto può essere affrontato in quanto non disturba questo ciclo fondamentale. Se questo rimane il senso comune del significato nell'accezione più forte del termine, è assolutamente impensabile dal punto di vista razionale del calcolo economico, così come delle politiche sociali, affrontare in modo convincente il tema della solidarietà.

    Solidarietà, ieri e oggi

    Non sempre è stato così: per qualche decennio, soprattutto nel corso del secondo dopoguerra, ma anche in precedenza, si era pensato all'opposto, che questo modello economico-sociale centrato sulla considerazione del ciclo produzione-consumo, naturalmente attraverso armonie invisibili e prestabilite, avrebbe condotto ad una progressiva soluzione dei problemi connessi al nostro tema di oggi. S'era pensato che un processo di relativa crescita dell'uguaglianza, di diminuzione di differenziali fra soggetti e soggetti all'interno del mondo dominato da questo modello economico-sociale, tale progressiva crescita di uguaglianza sarebbe stata il prodotto di questo stesso modello di sviluppo. Da questo sogno ci siamo svegliati da poco tempo, circa da 15/20 anni. Fra 15/20 anni tutti gli indicatori economici, quelli su cui i nostri amici economisti si basano, rovesceranno l'illusione, il sogno precedente. Sono dati impressionanti, perché rovesciano illusioni, calcoli, previsioni.
    Abbiamo dati attendibili per gli Stati Uniti d'America, meno per gli Stati europei; però quei pochi che abbiamo dall'Europa sono perfettamente convergenti con quelli analitici di cui disponiamo per gli Stati Uniti.
    Nell'ultimo quindicennio il 20% più povero degli Stati Uniti ha visto diminuire in termini reali il proprio reddito del 5%. Il 20% più ricco l'ha visto aumentare del 10%. Il 20% più ricco della popolazione dell'America riceve il 60% del reddito complessivamente prodotto, il 20% più povero il 3,7%. L'America è un trend che rovescia quello precedente, del secondo dopoguerra fino alla fine degli anni settanta. Attualmente gli europei, che certamente vivono al di sotto di un livello del reddito accettabile, cioè in povertà, sono 50 milioni, cifra che va crescendo. In Europa oggi c'è, grosso modo, 1/5 della popolazione che vive in modo agiato, 3/5 arrampica, sospesi fra la condizione di agiatezza e di indigenza. Non è che siano stabili in questa condizione di sospensione, ma vanno e vengono, da relativa agiatezza a indigenza. 1/5 non solo sta male, ma vede negli ultimi 15 anni peggiorare la propria situazione; questo per quanto riguarda la metropoli, per ciò che riguarda il rap-
    porto fra metropoli e paesi terzi, i dati sono più impressionanti.
    Il rovesciamento delle attese, delle illusioni di politiche di sviluppo economico che avrebbero ridotto i differenziali, l'economia occidentale, è vissuto di queste illusioni, per circa 50 anni. Il rovesciamento di queste attese è oggi ancora più prepotente, violento.
    Negli anni 60 i paesi più ricchi erano mediamente più ricchi dei paesi più povere di trenta volte. Nei primi cinque anni degli anni 90 si calcola che questa proporzione sia raddoppiata, che i paesi più ricchi siano più ricchi di quelli poveri di 60 volte. L'ammontare degli aiuti tra questi paesi 99 volte mediamente più ricchi dei paesi più poveri, corrisponde attualmente allo 0,3% del prodotto dei donatori, e questo molto rozzamente corrisponde ad una politica di solidarietà pratica.

    Solidarietà e Sud del mondo

    Si calcola che se solo i paesi più ricchi togliessero le barriere doganali esistenti, le esportazioni dei paesi più poveri aumenterebbero del doppio rispetto all'attuale ammontare degli aiuti. Questi aiuti non sono altro che una miserrima copertura di una politica egoistica del paesi più ricchi, che hanno visto aumentare a proprio favore il differenziale del doppio degli ultimi trent'anni, contro tutte le previsioni che avevano fatto gli economisti, che come tutti sanno sono specialisti nel non prevedere.
    Il trucco degli aiuti è noto e bisogna denunciarlo in modo chiaro. Abbiamo assistito negli ultimi trent'anni ad un trasferimento massiccio di risorse dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Non è una politica di aiuti, ma una rapina verso i paesi più poveri. Praticamente la totalità dei profitti ottenuta nei paesi più poveri è stata trasferita in quelli più ricchi. I profitti sono stati integralmente trasferiti. In realtà gli aiuti sussidiano le imprese dei paesi metropolitani e le classi dirigenti dei paesi più poveri; questa è stata la politica di aiuti: una politica di sussidio alle classi dirigenti dei paesi più poveri, permettendo a volte il formarsi di profitti, che venivano integralmente trasferiti nei paesi più ricchi. Un fallimento totale delle politiche di solidarietà, sia a livello internazionale che all'interno delle stesse metropoli.
    Questa è la situazione incontestabile da un punto di vista dei programmi politici. Politica cieca, qui mi avvio alla seconda parte del mio breve intervento in cui vorrei affrontare questioni di principio.
    Politica cieca, egoistica, perché non fa altro che moltiplicare le tensioni, le ragioni del conflitto, sia all'interno dei paesi metropolitani, che fra metropoli e terzo mondo, con conseguenze di crescente instabilità e ingovernabilità del villaggio planetario, che alla fine non potranno che tradursi in difficoltà di crescita di sviluppo all'interno degli stessi paesi metropolitani, perché sono in una situazione attuale dove il controllo, la polizia mondiale, garantita dai due grandi blocchi contrapposti, è venuta meno. In un modo, che sì è villaggio planetario, ma multicentrico e lo sarà sempre di più; in questo modo, l'assenza di una politica di solidarietà, sia all'interno delle metropoli che fra metropoli e terzo mondo, alla fine non può che generare costi suppletivi, conflitti, un habitat e un contesto assolutamente non funzionale alle stesse ragioni di quel mercato, di quella produzione, di quel consumo che vorrebbe invece proteggersi, o pretenderebbe di proteggersi attraverso politiche così miopi e cieche. Non è questione di profezie apocalittiche, ma di puro calcolo, di ragionevolezza.
    Per i paesi metropolitani non convengono (bisognerebbe fare un calcolo utilitaristico sulla questione solidarietà) politiche egoistiche chiuse di questo genere, che hanno determinato gli sconquassi che prima citavo, queste politiche non convengono più nemmeno ai loro soggetti, ai loro autori, o per lo meno alla lunga. Ma alla lunga, che è ormai tempo breve, medio, non converranno più, perché genereranno condizioni complessive di instabilità e ingovernabilità. Bisognerà parlare ai governanti, ai ceti politici delle metropoli, anche se non sanno riconoscere altro, se non sanno fare discorsi diversi, se non posseggono valori diversi (e io credo che attualmente non li posseggano), dobbiamo parlare a costoro sulla base di un calcolo utilitaristico, che comprendano che a loro non conviene che una politica di aiuti reali, che rovescia il sistema dei rapporti all'interno delle metropoli con il terzo mondo dominante almeno negli ultimi venti anni, stia creando un mondo invivibile ai loro stessi interessi.

    Solidarietà e ragioni etiche

    Naturalmente il mio discorso sulla solidarietà non si limita a queste considerazioni, ma ritengo che esse siano importanti perché dobbiamo essere, su questi temi, armati a tutti i livelli, perché dobbiamo dialogare con persone, soggetti ed enti che hanno linguaggi diversi. Dobbiamo riuscire ad entrare in comunicazione con questi diversi soggetti, perché è drammaticamente urgente farlo, impararne la lingua, se vogliamo influenzarli in qualche modo. Saranno interventi, discorsi deboli se non riusciamo insieme a rintracciare una ragione etica, più fondamentale, più originaria a sostegno del nostro impegno solidaristico.
    Il ragionamento "utilitaristico" lo ritengo forte soprattutto nei confronti delle ragioni attualmente sbandierate, soprattutto dai paesi metropolitani e dai loro governanti, sono ragioni convenzionali e alla fine deboli. Noi dobbiamo rintracciare ragioni più sostanziali per questo impegno, dobbiamo declinare questo termine di solidarietà secondo un valore più originario.
    Prima Sua Eminenza il Cardinale parlava di compassione, mi sembrava dicesse, sulla scorta delle parole del Papa, che la compassione non può limitarsi ad essere commozione sentimentale; può essere il primo colpo di fronte al volto dell'altro che soffre. Compassione significa che non solo vedo quel volto soffrire, ma lo sento in me, lo comprendo in me. Non si può separare astrattamente il livello della compassione da una dimensione di "intelligenza" dell'altro. Non posso veramente compatire se non mi sforzo di comprendere in qualche modo quella passione; quando compatisco comprendo in me quella passione, devo iniziare ad intelligerla; se non è mera commozione sentimentale, vuoi dire che sento l'obbligo, il dovere di fronte a quella compassione, di comprenderla, di patire con essa; ma per patire con essa, patirla in me, patirla io stesso, devo averla compresa.
    Vi è un problema per sviluppare il termine di solidarietà nel senso della compassione, di intelligenza, comprensione, di sforzo cognitivo. Entra in gioco una dimensione di Amor Intellectualis, non soltanto di puro e immediato amore. Non ritengo che vi sia una solidarietà immediatistica: il termine stesso di solidarietà se lo coniugo con il termine di compassione implica una dimensione di intelligenza, di conoscenza, una volontà di conoscere. Potrò veramente compatire, stare con quella passione, se conosco l'altro che soffre, se intendo conoscerlo, se mi sforzo di comprenderlo; questa è la dimensione che già risuonava nelle parole del Card. Martini.
    Ma questa intelligenza non può essere inerte, perché ciò che comprendo quando sono di fronte all'altro che soffre, chiama ad un'azione, non può essere una conoscenza speculativa, puramente intellettiva, è Amor Intellectualis, cioè un'attesa, un rivolgersi pratico nei confronti di quell'altro, non è una speculazione dell'altro. Questa intelligenza deve essere pratica, non intelligenza inerte, deve essere intelligenza e pratica; bisogna conoscere l'altro, comprendere le esigenze, comprendere le ragioni e fare. Quella dimensione che risuona cosìprepotentemente nell'espressione evangelica: "Voi dovete essere costruttori di pace".
    Questa dimensione davvero pratica, ma di una pratica intelligente, non sentimentale, non di un correr dietro all'altro nel tentativo dilettantesco di fargli del bene, bisogna saperlo l'altro e sapere come gli si fa del bene. Questo ci porta ben al di là di aiuti, o pseudosolidarietà di cui questo mondo è abitato, ancora non basta. Credo che nemmeno in queste icone si possa trovare un fondamento dell'idea di solidarietà.
    Proviamo a sviluppare ancora il nostro ragionamento: solidarietà implica una visione dell'altro che ci colpisce, un comprendere le ragioni per cui tale visione ci colpisce, sentire in noi quella sofferenza, un leggere dentro pratico per tentare di guarire quella sofferenza.

    La solidarietà e il volto dell'altro

    Ma in tutto questo discorso, cos'è in gioco? Il problema del rapporto con l'altro. Tutto questo ragionamento sta in piedi se noi possiamo dare una risposta fondata a questo quesito: perché l'altro deve riguardarci? Questa domanda non è stata tematizzata, esplicitata. Una persona di fede potrebbe rispondere con il suo testo, con la sua Rivelazione, un filosofo non può farlo; allora dobbiamo arrestarci qui? Qui c'è una differenza insormontabile? Non credo, anche il filosofo nella sua miseria, che la parola stessa indica, può fondare una ragione per cui l'altro deve riguardarci, non può non riguardarci, anche quell'altro che non ci ha fatto nulla, anche il postero; la famosa battuta di Woody Allen: "Ma perché dovrei curarmi dei posteri, cosa hanno fatto i posteri per me?".
    Il postero è una figura per eccellenza dell'altro, ciò che non è a mia disposizione, ciò che non mi è visibile, ciò che non mi è afferrabile, cattura-bile; il postero mi sfugge, ma mi deve riguardare: perché? Quella persona ferita per strada che cosa aveva fatto al suo samaritano? Non c'è nessuna lògica di scambio, nessuna logica economica. Perché ci deve riguardare? Non può non riguardarci perché, a priori da ogni altra considerazione, dobbiamo comprendere che l'altro è in noi, a priori da ogni considerazione su come trattiamo l'altro: sia che l'amiamo, sia che l'odiamo, l'altro è in noi.
    Questo è il fondamento di ogni idea di solidarietà, che il mio socius essenziale, cioè me stesso è un altro. Io non sono un io semplice, un io indiviso, un io individuo: in me c'è una società di individui che hanno bisogno l'uno dell'altro, che si dividono l'uno con l'altro, fanno la guerra e la pace l'uno con l'altro. Io non posso ignorare l'altro, l'altro deve riguardarmi perché io sono l'altro, io mi sono straniero, lo straniero non è quello che mi sta di fronte, non sta lì, posso riconoscere lo straniero in quanto straniero, posso avere un'idea dello straniero, dire che quello è un altro perché io lo conosco in me, non potrei predicarlo fuori di me, riconoscerlo fuori di me. Questo rapporto di alterità con un altro fuori di me è possibile trascendentalmente, perché l'altro è il mio socio essenziale, quello da cui non posso distaccarmi, me stesso.
    Questa è la rivoluzione antropologica-etica necessaria per considerare la solidarietà al di fuori di pragmatismi, tutt'altro che disprezzabili, se volti intelligentemente. La condizione è riconoscere che per essere noi stessi dobbiamo essere con l'altro; siamo noi stessi in quanto coabitiamo necessariamente e continuamente con l'altro che siamo. L'altro che è in noi è condizione del nostro essere noi stessi: non un altro di comodo, a nostra disposizione, non una convivenza semplice, pacifica, garantita, assicurata, ma proprio l'altro, lo straniero, colui col quale possiamo essere in pace, col quale siamo sempre arrischiati; l'altro non è la proiezione di una vuota identità, un gioco di specchi: è davvero autonomo, ha le sue ragioni. Il rapporto con lui è arrischiato, non è mai uno scambio equivalente. Tale rapporto ha sempre un aspetto di gratuità, di dono; mai possiamo essere garantiti che ciò che gli diamo ci possa tornare, questo vale nel rapporto con l'altro, che è lì di fronte a me, perché vale in me, nell'altro che è il mio socius essenziale, non posso essere garantito di lui, essere assicurato di ciò che farà o non farà. Mi rivolgo a lui arrischiando sempre, ma mi rivolgo a lui, mi riguarda essenzialmente: non posso essere senza di lui.

    Il privatismo "idiota"

    Questa è l'idea che può fondare un discorso di solidarietà, anche al di fuori di una prospettiva prettamente religiosa. Un'idea di individualità totale, io sono un individuo, ma totale. Nella mia individualità c'è questa relazione, comunità di assolutamente distinti, che si riguardano essenzialmente e se mi riconosco come individualità totale, non posso non riconoscere come essenziale a me il volto dell'altro. Questo rapporto con l'altro non è occasionale, frutto di buona volontà, cessa ogni psicologismo, diventa un rapporto ontologicamente fondato, sottratto adogni casualità; ma perché diventi un rapporto necessario, perché l'altro mi riguardi essenzialmente, devo comprendere che l'altro è in me, lo straniero è in me, è me stesso, in tutta l'ampiezza del termine, cioè che me stesso quando è in pace con me, è esattamente come quando è in guerra con me.
    Ragionare in questa prospettiva comporti, a mio avviso, una sorta di conversione, rispetto ai valutati dominanti del sistema politico-economico-sociale, rispetto alla solidarietà che è ridotta a commozione sentimentale, alla quale mi rivolgo con tutto il mio rispetto, ma comprendendone la radicale insufficienza a combattere la battaglia contro il senso comune, che è l'opposto dell'individualità totale che prima richiamavo. Individuo non ha nulla a che vedere con individualismo, io lo chiamerei privatismo: non 'è l'individuo ma il privato, che in greco si dice l'idiota, che ha inflazionato la propria privatezza. Uno dei drammi cui assistiamo non è la riduzione dell'individuo a privato, quanto l'inflazione della personalità dell'idiota, che ha inflazionato la propria personalità ad una dimensione soltanto: il proprio interesse diretto, immediato.
    Cosa hanno fatto i posteri per me, cosa ha fatto il passato? L'altro non esiste in nessuna dimensione, tanto meno in quella che ho cercato di fondare. Quello che è più impressionante è l'inflazione delle pretese senza valore, che sono condotte ad un'inflazione incontrollabile, ingovernabile; tutto ciò, se non inauguriamo una scuola di resistenza (come quella che questa biblioteca mi sembra indicare) all'inflazione della personalità dell'idiota, nelle sue pretese senza valore, affidate a puri valutati, se non inventiamo una scuola di resistenza, laici e cattolici, cercando di fondarla rigorosamente nei limiti del proprio linguaggio, tradizione, in modo non convenzionalistico, perché non ci sarebbe sufficiente a resistere al senso comune, una pura fondazione convenzionalistica: utilitaristica dell'idea di solidarietà non basterebbe, laici e cattolici devono cercare una fondazione forte.
    Se non riusciremo in questo compito, che io vedo oggi come il più urgente, quello che in qualche modo ingloba in sé tutti gli altri, la prospettiva è segnata anche per l'idiota. L'idiota è tale perché alla fine non conosce realmente il proprio interesse, le sue pretese senza ragione e fondamento. L'idiota oggi, nella sua totale mancanza di riconoscimento dell'altro e dei valori della solidarietà, minaccia di distruggere se stesso e di portare alla catastrofe tutto il suo mondo che è naturalmente anche il nostro.

    (Testi non rivisti dagli autori)

    Documentazione Caritas 1995/2


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