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    I vissuti degli adulti

    nel rapporto

    con gli adolescenti

    Alcuni nodi critici
    nell'accompagnamento educativo

    Daniele Bruzzone

    Per gli adulti impegnati in campo educativo l'adolescenza costituisce una sfida per antonomasia.
    Le cause vanno ricercate nelle profonde contraddizioni e nei repentini cambiamenti che la rendono un'età «ambigua» e «incompiuta», nella febbrile sperimentazione e spasmodica ricerca di un fragile equilibrio, nel bisogno costante di modelli in base ai quali plasmare l'immagine di sé, nella difficile gestazione di un'identità personale che la frammentarietà della società complessa spesso acuisce enormemente.
    L'adolescenza (e la sua rappresentazione scientifica o di senso comune) è, di fatto, sempre più una fase della crescita essenzialmente «incerta». Drammatica, sofferta, solitaria, incompresa da un lato, epica, mitizzata, rimpianta dall'altro, l'idea dell'adolescenza nell'immaginario del mondo adulto è spesso incoerente ed estrema, in precaria alternanza tra lo spettro di un'età «temuta» e l'ideale inconsistente di un'età «sognata» (1).
    Ed è questa polarizzazione, più che altro, a rendere problematico e incespicante il rapporto tra generazioni: l'una – quella dei ragazzi – scarsamente fiduciosa nelle capacità del mondo adulto di capirla, l'altra – quella dei «grandi» – talvolta distratta e disattenta ai reali bisogni dei più giovani, ma più frequentemente oppressa dai sensi di colpa e costantemente preoccupata della possibilità di commettere errori fatali.
    Se da un lato si moltiplicano, ormai da molti decenni, gli studi sulla condizione adolescenziale e sulla magmatica fenomenologia del mondo giovanile, dall'altro non si è riscontrata, per molto tempo, un'adeguata attenzione alle modalità con cui gli adulti elaborano una teoria (spesso soltanto implicita) degli adolescenti e decodificano i loro comportamenti.
    Eppure la qualità della risposta educativa, ben prima che essere legata all'efficacia dei risultati che ottiene, è commisurata alla correttezza delle rappresentazioni che guidano l'azione. Le persone adulte, infatti, si rapportano all'adolescenza attraverso questo o quel modello di lettura delle situazioni e dei bisogni, che richiede di essere esplicitato e analizzato criticamente. Se dunque i ragazzi devono affrontare compiti di sviluppo tipici dell'età che attraversano, gli adulti che li accompagnano si trovano nondimeno a fronteggiare il difficile e impegnativo compito di decifrare un mondo improvvisamente «altro» e apparentemente ostile, che conserva solo alcune affinità con la propria adolescenza vissuta in altri tempi e in altri modi.
    Pertanto, interrogare gli adulti circa le loro rappresentazioni dell'universo giovanile e loro relazioni con gli adolescenti in qualità di genitori, allenatori, insegnanti, animatori, appare imprescindibile per acquisire una conoscenza delle modalità di approccio con cui il mondo adulto si pone nei confronti della realtà giovanile e costruisce modelli di interpretazione e risposta alle esigenze educative (2).

    L'adolescente come mistero

    Ciascun adolescente si è rivelato un mondo misterioso, spesso complesso, contraddittorio, che ha suscitato in me emozioni e pensieri, preoccupazioni e stupore.

    Nelle parole di questa insegnante si possono identificare sentimenti e percezioni ricorrenti tra gli adulti che si rapportano agli adolescenti, il cui universo appare per molti versi indecifrabile. Condizione, questa, enfatizzata dalla resistenza da parte dei ragazzi ad ammettere nel proprio mondo la presenza dei grandi. Lo esprime con disagio un genitore, quando parla del figlio:

    Il suo mondo interiore è chiuso per noi, non lascia trapelare nulla; solo qualche volta si apre, ma per pochi istanti.

    Spesso l'accesso al segreto dell'adolescenza si guadagna con fatica attraverso un'operazione di sospensione del giudizio, mettendo tra parentesi le convinzioni di senso comune di cui è intrisa la quotidianità e le nozioni teoriche che guidano la lettura della realtà (3). Spesso riuscire a stare in una povertà di strumenti – anche concettuali – permette di porsi in ascolto del concreto evitando di cedere alla tentazione di ricondurlo immediatamente al già noto, al già detto e al già saputo. Un'educatrice osserva a questo proposito:

    Non facevo altro che pensare e ripensare alle mille descrizioni dei tratti adolescenziali che avevo letto sui libri universitari: la ricerca di una propria identità che porta a essere continuamente in lotta con la famiglia e le persone adulte in genere, fino quasi a sentirsi soli contro tutto e tutti; l'amplificazione dei sentimenti; l'identità sessuale; l'esasperazione di ogni divieto; la ricerca dell'autonomia, della libertà. Il peso di questi enormi step che sapevo ognuno di loro doveva compiere, mi impedivano in un certo senso di vedere altro. Progressivamente, però, abbandonando le mie sicurezze mi accorgevo che c'era di più, che c'erano altre considerazioni, a mio parere molto importanti, che si potevano fare.

    Soltanto uno sguardo scevro da precomprensioni stereotipate, capace di cogliere la singolarità di ciascun individuo e di interrogarsi sul significato irreperibile della sua esperienza personale, consente di mettere in atto gesti di cura sintonizzati sulla situazione – al di là delle generalizzazioni astratte e poco aderenti alla realtà effettiva di cui i saperi teorici sono impregnati:

    Ho dovuto imparare a conoscere ciascuno secondo il proprio carattere e a saper rispondere di conseguenza, ovvero a cercare un metro personalizzato per sapermi riferire a ciascuno nel modo più corretto possibile, rispettando la personalità di tutti, ma soprattutto spronandoli a raggiungere obiettivi consoni e sempre più elevati.

    Tra dipendenza e autonomia

    Nelle rappresentazioni degli adulti sembrano convivere vissuti ambivalenti rispetto al mondo adolescenziale, in gran parte dovuti all'ambiguità tipica di questa fase della crescita, segnata in particolare dalla difficoltà nel processo di identificazione.

    L'esperienza con i miei tre figli e i loro amici mi ha fatto scontrare con gli adolescenti di oggi. Devo dire che la cosa che mi ha colpito in positivo è la limpidezza d'animo, mentre in negativo è la totale mancanza del senso di trasgressione. Non riesco a spiegare bene questa sensazione ma, anche quando fanno cose riprovevoli, sono senza malizia e senza secondi fini e se questo da una parte è bello, dall'altra diventa ancora più difficile arginarli perché è come se non sapessero dove sta il male e dove sta il bene. Forse fanno cose da grandi quando ancora emotivamente sono bambini. Ritengo che noi genitori in questo senso potremmo fare qualcosa.

    Ciò che prevale nelle descrizioni dei genitori e degli educatori è la percezione di una profonda confusione e di una fondamentale fragilità – acuita dalle contraddizioni del nostro tempo – che disorienta e rende incerto l'agire educativo.

    In questi anni i miei figli e i loro amici che frequentano la nostra casa, mi hanno confermato la sensazione generale che i ragazzi d'oggi siano molto fragili e confusi, che non sappiano tollerare le frustrazioni. Con il senno di poi posso dire che al di là della società dove è importante solo apparire e dove i miti sono le veline e i calciatori, io come genitore ho contribuito non poco a rafforzare queste debolezze. Come madre li ho sempre protetti, ho risolto i loro problemi, senza lasciare loro la libertà di sbagliare (almeno entro certi limiti) e non ho dato regole a cui attenersi. Tutto ciò con il primo figlio si è concretizzato con una mancanza di senso di responsabilità e di capacità ad adattarsi alle regole della comunità. Quando ha dovuto scontrarsi con gli inevitabili insuccessi della vita non è stato in grado di gestirli e così è entrato in depressione.

    Per gli adulti, quindi, avere a che fare con il mondo adolescenziale significa abbandonare l'isola felice dell'infanzia per avventurarsi sul terreno insidioso del confronto con un'età segnata da cambiamenti repentini e profondi turbamenti. Il passaggio è perlopiù segnato da una profonda fatica emotiva, soprattutto da parte dei familiari.

    La situazione attuale è così peggiorata rispetto a quella precedente che suscita rimpianti e nostalgie.

    Essi lamentano anzitutto la difficoltà di comunicare con una condizione radicalmente diversa, fino ad apparire indecifrabile. Da un lato, tale difficoltà è dovuta all'appartenenza a diverse età della vita.

    Fai parte del mondo degli adulti ed è inutile negarci che questo mondo è guardato dall'adolescente con diffidenza e distanza.

    Dall'altro, è accentuata dalle situazioni di stress emotivo e, talvolta, dai sintomi di un disagio latente, quasi carsico e, nondimeno, sofferto, come dice questa madre a proposito della figlia adolescente.

    Io e mio marito ci accorgemmo che non potevamo più sopportare oltre, era necessario porre dei limiti, chiarire quanto faceva male quel suo modo di fare, invitarla a riflettere sul suo comportamento, indagare sull'origine del suo malumore...

    In un certo senso, ciò che salva il rapporto con il giovane, anche nelle situazioni limite, è l'ostinazione dell'amore, capace di subire la frustrazione senza arrendersi.

    Non riuscivo a lasciar perdere, era mia figlia e volevo cercare di capire cosa le stava capitando.

    La relazione interpersonale, non più scontata e in alcuni casi estremamente difficile, diventa luogo di un sofferto processo di cambiamento da parte del mondo adulto, obbligato, in un certo senso, ad accettare la distanza come espressione di un'alterità e di una diversità che esigono di essere rispettate e che, per affermarsi, hanno spesso bisogno di contrapporsi o di allontanarsi. Lo esprimono bene le parole di una madre nei confronti della figlia che non corrisponde più all'immagine custodita negli anni dell'infanzia e della fanciullezza e che chiede, in modo imperioso, di essere riconosciuta nella sua individualità.

    L'immagine che ho di mia figlia è quella di una «bambina» un po' insicura, molto ubbidiente, che chiede sempre il parere della mamma «esperta» prima di decidere se fare o non fare qualcosa. Questa immagine però non corrisponde più alla realtà. Elisa mi chiede di non invadere il suo mondo, di essere rispettata nella sua autonomia di scelta; nel dialogo con me usa spesso la frase «Io sono una persona diversa da te».

    Un'altra madre descrive così i tentativi – falliti – di avvicinare la figlia adolescente nonostante i mutamenti l'abbiano resa più introversa e apparentemente più refrattaria alle manifestazioni d'affetto:

    Troppo spesso facevo nei suol confronti quello che, in una situazione analoga, avrebbe fatto piacere a me: apprezzare quando una persona cara ti distoglie da uno stato d'animo depresso o triste e ti distrae aiutandoti a rivolgere i pensieri altrove. Il fatto è che non avevo di fronte una persona uguale a me, ma una ragazza adolescente che voleva essere lasciata in pace nel suo isolamento.

    La solitudine adolescenziale – o almeno il progressivo estraniamento dall'ambito familiare – è guardata dagli adulti con preoccupazione e rammarico. Tra questi ultimi prevale spesso il sentimento di chi si sente «tagliato fuori», esautorato, quasi che l'esistenza dei figli possa fare a meno dei genitori.

    Mia figlia è totalmente rivolta all'esterno. Il suo baricentro si è spostato dalla famiglia al mondo delle relazioni amicali. Da lì vengono comportamenti, valori, modi di interpretare la realtà. Tutto quello che proviene dalla famiglia è sottovalutato, trattato superficialmente, negato; ma senza discussione, come dato di fatto. La cosa importante è stare con gli amici, essere vestiti come loro, frequentare i locali giusti, essere apprezzata come «una del gruppo». Cultura e società non esistono in una vita che è solo «qui e adesso», senza passato, senza futuro.

    Tuttavia, il conflitto adolescenziale è razionalizzato dagli adulti e attribuito perlopiù al tentativo convulso, da parte dei ragazzi, di trovare una propria dimensione, di sperimentare gradualmente (ma sempre più con impazienza e talvolta con qualche azzardo) la libertà personale e l'autonomia individuale, pur con tutti gli scompensi dovuti ai disequilibri di una fase evolutiva instabile e talora tormentata.

    Questo modo di pensare, che ha al suo centro l'affermazione della propria autonomia, convive con evidenti incapacità, sottovalutazione dei rischi, atteggiamenti infantili. Ho l'impressione che il processo di crescita non avvenga coerentemente nei vari aspetti della personalità, ma che in alcuni sia molto avanti e ín altri immaturo.

    L'ambigua appartenenza dell'adolescenza a una sorta di limbo, tra la dipendenza dell'infanzia ormai abbandonata e l'autonomia della maturità non ancora raggiunta, è all'origine dell'incertezza degli adulti nella definizione del codice comunicativo da usare con i giovani. Così una mamma può dire della figlia:

    Ci sono momenti in cui la considero adulta, altri invece una bambina. Questa ambivalenza che esterno non è altro che la mia insicurezza.

    Il diffuso sentimento di incertezza che coglie l'adulto di fronte all'universo in buonaparte enigmatico e imprevedibile dell'adolescente sembra esasperato dall'ambivalenza che, a livello affettivo ed emozionale, caratterizza un rapporto altalenante per definizione.

    Il comportamento che più mi invita alla riflessione è l'alternanza dell'umore, ossia le sue richieste d'affetto e il mio coinvolgimento nelle sue emozioni, frutto delle relazioni amicali soprattutto con i coetanei di sesso opposto che contrastano con l'atteggia vento di freddezza emotiva che assume subito dopo; questa situazione provoca in entrambe sofferenza e dispiacere soprattutto perché siamo consapevoli che da un lato è una condizione normale di crescita, dall'altro, però, ci allontana da una reciproca dipendenza tipica dell'età della fanciullezza.

    Il primato della relazione

    Se, come si è visto, l'adolescenza è un tempo di turbamento per i giovani, lo è nondimeno per gli adulti che li accompagnano, dal momento che la reciproca contaminazione emotiva connota come «fase di transizione» non solo la condizione del minore ma anche quella dell'adulto chiamato a educarlo. Per questo motivo, qualcuno può dire, a proposito della sua esperienza con i giovani:

    Mentre conosci e ti rapporti all'altro, la relazione ti influenza e devi essere disposto a lasciarti modificare, a imparare dalla vita dell'altro.

    Oppure, con la saggezza di chi ha capito che l'esistenza è un processo continuo e che l'educazione non è un'azione meramente asimmetrica e unidirezionale.

    Insieme abbiamo imparato a «coltivarci» a vicenda e a crescere.

    Nell'immaginario di molti genitori si tratta di una separazione sofferta, quasi di una nuova nascita, espressa dalla metafora del «rompere il cordone ombelicale» che simbolicamente ancora li lega ai figli, seppur assottigliandosi di giorno in giorno. Ciò nondimeno significa che, accanto alle ragioni dell'inevitabile discontinuità – che rende comprensibile anche la rottura più dolorosa – esiste la percezione di un legame che persiste e che chiede di essere difeso e, forse, rifondato su nuovebasi. Ciò sembra persuadere molti educatori della necessità di non rinunciare al proprio compito e di affinare la capacità di cogliere l'esigenza, ancorché non palesemente manifesta, di mantenere vivo il dialogo e il confronto.

    Ho scoperto nei giovani il desiderio dell'autonomia e parallelamente l'esplicitazione del bisogno di un confronto con l'adulto, la tendenza di bastare a se stessi e il grande bisogno di affetto, il gioire per le proprie conquiste e la necessità di avere conferme.

    Per questo motivo, gli adulti maggiormente «competenti» nel rapporto con i giovani trovano anzitutto un'essenziale gratificazione e un inestimabile guadagno di senso nel semplice (ma non facile) fatto di esserci – nell'essere disponibili a condividere, nell'ascoltare, nel comprendere, nel confrontarsi.

    L'aspetto più bello e soddisfacente del rapporto che si è creato è che io rappresento davvero per loro un riferimento, sono qualcuno da contattare quando tutto va bene per ridere insieme, ma anche a cui poter dire che ci si sente male, che le cose non vanno. Qualcuno con cui parlare e che non banalis7a niente di quello che provano o pensano, un adulto a cui chiedere di stare con loro, di vivere insieme alcune esperienze.

    Anzi, molti adulti vivono il loro restare accanto ai ragazzi come una sorta di «missione», un compito quasi «di frontiera» in cui resistere strenuamente alla tentazione ricorrente del pessimismo e della rinuncia.
    Le qualità richieste per svolgere un tale compito educativo vengono quindi rapportate innnanzitutto alla personalità dell'adulto, alla sua stabilità emotiva, alla sua maturità personale, alla sua capacità comunicativa.

    Indubbiamente, un insegnante deve essere preparato nella sua materia, ma sono soprattutto la sua personalità, il suo equilibrio, la sua disponibilità verso i ragazzi a renderlo un buon educatore. Ci vorrebbe un'infinita pazienza, una forte capacità di resistere ai ricatti, un vero interessamento e affetto per gli alunni, una grande coerenza interiore, una profonda sincerità nel rapporto.

    Pur mettendo al primo posto le ragioni dell'incontro e del dialogo, però, sono frequenti negli adulti i dubbi relativi all'opportunità e all'efficacia di assumere stili relazionali troppo simmetrici che, per garantire in qualche misura la complicità, rinuncino a esercitare qual-siasi ruolo orientativo. Per molti di essi il problema maggiore consiste nel dover essere riconosciuti come una figura adulta di riferimento e non come un pari.

    Autorità o permissivismo?

    Nell'attuale generazione di mezz'età, in particolare, sembra essere in atto una radicale revisione dei modelli educativi non direttivi e permissivi che, a suo tempo, erano stati ritenuti preferibili per correggere l'autoritarismo, connotato da un senso di incomprensione intergenerazionale e da una rigidità di ruoli che aveva segnato l'esperienza dell'adolescenza di chi oggi è adulto.

    Il ricordo dei continui «No, non puoi» ha forse influenzato un certo permissivismo nei confronti dei miei figli, perché ricordo con dolore la mancanza di fiducia riposta nei miei confronti da parte dei miei genitori.

    Oggi gli adulti sono più inclini a ritenere che gli errori del permissivismo si pagano cari, e tendono a rivalutare la funzione orientativa e, in qualche caso, direttiva degli educatori.

    Se prima ritenevamo che solo il dialogo fosse utile per la loro crescita, oggi abbiamo imparato che la fermezza a volte può essere più importante. Il fatto che siano cresciuti non significa che non abbiano ancora bisogno di punti fermi e autorevoli.

    Agli occhi dei grandi gli adolescenti appaiono sempre più fragili, insicuri e confusi, incapaci di scegliere, di progettarsi a lungo termine, di inserirsi nel tessuto sociale accettandone le regole, di rinunciare o rimandare la gratificazione dei bisogni e dei desideri. Essi devono quindi 

    trovare nell'adulto l'autorità o, meglio, l'autorevolezza, una figura capace di dire anche «No», perché quei «no» aiutano a diventare grandi. Ovviamente, bisogna saper dire anche «Sì» e «Bravo», sostenerli, incoraggiarli nei loro progressi, nei loro successi.

    Naturalmente la postura direttiva presenta un costo emotivo difficile da tollerare e da mantenere nel tempo. Assicurare un ruolo di guida comporta anche il compito di superare le proprie fragilità e le proprie insicurezze, di discernere di volta in volta il meglio anche rischiando di sbagliare, di sopportare il conflitto e le reazioni emotive negative, di elaborare i sensi di colpa e, soprattutto, di incarnare la difficile virtù della coerenza.

    Prestiamo grande attenzione a tutto quello che fa, e talvolta cerchiamo di forzare anche i suoi comportamenti con regole precise, per esempio se fa tardi la sera. Questo atteggiamento cí costa fatica, è un modo pesante e a volte logorante dí vivere il rapporto con un figlio; per questo non sempre c'è voglia e tempo per seguirlo, per discutere, per accettarlo anche davanti ad atteggiamenti spesso illogici e irrazionali. Quando per frenare certi eccessi siamo costretti a imporre dei comportamenti, questa continua fatica alla fine lascia una tensione, e viene la tentazione di lasciar perdere e assecondarlo. Ma cerchiamo di tener duro.

    Appare piuttosto diffusa, quindi, la persuasione che, in un'epoca di accresciuta libertà personale, la responsabilità possa essere educata soltanto esercitando una funzione autorevole. Come testimonia un'insegnante:

    L'adolescente è interiormente assai fragile, perciò occorre trattare con lui in modo molto prudente. Egli ha certo bisogno di comprensione e tolleranza quando sbaglia, ma in maniera misurata perché si aspetta dai docenti fermezza e severità. Ho sempre cercato di concordare con gli alunni comuni regole di comportamento da rispettare nel corso del cammino scolastico. Da parte mia, mi impegnavo a preparare con cura gli argomenti da analizzare, cercando di cogliere i loro interessi e di rendere le lezioni più divertenti. Poiché sapevo che i ragazzi aspettavano con ansia il giudizio, mi sforzavo di rispettare i tempi stabiliti della correzione e di personalizzare la valutazione con commenti di incoraggiamento o di gratificazione. Pretendevo in cambio impegno e lealtà, anche nell'ammettere gli sbagli o le negligenze.

    Per molti adulti, in particolare per i genitori, il fallimento del giovane è percepito come un fallimento personale, come la prova della propria inadeguatezza e, non di rado, è vissuto con logoranti sensi di colpa.

    Ritenevo sufficiente uno stile di vita onesto e laborioso e non intaccato da alcun compromesso con le varie farse che si incontrano. Vivendo con questa certezza mi è sembrato ancor più traumatico Io scoprire, verso i miei cinquant'anni, il vuoto che si era venuto a creare all'intemo della mia famiglia. L'avere scoperto che mio figlio (di 24 anni) faceva uso di sostanze, sicuramente per sopperire a uno stato di disperazione esistenziale, ha generato in me un gran senso di colpa che tuttora vivo.

    Sembra che la funzione educativa debba accompagnarsi a una costante assunzione del rischio — primo fra tutti, il rischio di sbagliare — e alla consapevolezza del proprio limite.

    Quanti errori si possono commettere, sia come insegnanti che come genitori. Ma d'altronde anche questo fa parte della vita, per cui è necessario riconoscere gli sbagli, talvolta anche discuterne coi ragazzi, ma poi andare avanti e perdonarsi senza eccessive colpevolizzazioni.

    I vissuti di inadeguatezza di alcuni adulti nei confronti degli adolescenti sono accentuati dal confronto: i più giovani appaiono ipercritici in rapporto ai grandi, ne smascherano facilmente e impietosamente le contraddizioni, ne spiano gli errori.

    I suoi sguardi critici e indagatori mi mettevano a disagio e avvertivo chiaramente che a ogni lezione Giulio mi metteva alla prova.

    E per molti adulti l'errore primario consiste esattamente nel non comportarsi, appunto, da adulti.

    I migliori giudici del nostro operato sono proprio i ragazzi che, nella maggior parte dei casi, sono perfettamente in grado di valutare. E non chiedono lassismo, buonismo, come tanti possono pensare. Sono spesso i primi a chiedere giustizia, talvolta anche severità, ma sempre guidata da attenzione, rispetto, affetto.

    A se stessi, quindi, i grandi chiedono fondamentalmente di essere tali: di non sottrarsi al proprio compito educativo (benché sia reso infinitamente più problematico dalla società complessa in cui viviamo) e di sopportare
    ruolo, talvolta ingrato, di chi guida, ammonisce e corregge. Certo, non si tratta semplicemente di un ritorno al passato. L'autorità richiamata nelle narrazioni di questi adulti è diversa da quella di un tempo, è più flessibile, aperta, problematizzata. Gli adolescenti hanno bisogno di risposte, ma non pare che le risposte più adeguate siano già predefinite.

    Gli adolescenti sono ottimi osservatori, sono molto sensibili agli stimoli offerti e cercano confronto e dialogo con il mondo adulto, un confronto a cui spesso quest'ultimo si sottrae perché il raffronto è serrato, spesso fa addirittura paura poiché porta ad abbandonare le proprie convinzioni a priori e a ricercare sempre una risposta chiara, forte, ma allo stesso tempo flessibile e personalizzata.

    In questo dilemma tra guidare o lasciar fare, la questione del coinvolgimento emotivo viene da alcuni percepita come un ostacolo all'esercizio di un'autentica autorevolezza. Lo dice, per esempio, questa insegnante:

    Il ruolo di genitore mi appare ancor più arduo, perché assai maggiore è il coinvolgimento emotivo e questo ostacola l'equilibrio interiore, la serenità di giudizio.

    Prossimità e coinvolgimento

    La maggior parte dei genitori e degli educatori sembra aver assimilato il principio secondo il quale l'affettività - lungi dal rappresentare un ostacolo - può costituire una vera e propria risorsa nell'agire educativo (4).

    Come madre, spesso mi pongo in qualità di «esperta» cioè come colei che sa ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in ogni momento e in ogni scelta, creando, a volte, maggiore distacco e suscitando un atteggiamento di ribellione e rifiuto per ogni cosa. Quando, invece, osservo mia figlia con maggiore attenzione nonché consapevolezza del suo stadio di crescita, riesco a relazionarmi con lei con maggior serenità, umiltà, disponibilità e atteggiamento non giudicante; è proprio questa mia personale condizione che aiuta entrambe a ritrovare quella sintonia emotivo-affettiva che talvolta si altera.

    In alcuni casi, la condivisione dei sentimenti e la partecipazione emotiva sono accolti come un segnale di efficacia. La qualità della relazione interpersonale (5), in questo caso, sembra garantire l'efficacia del contatto:

    A volte mi sono trovato a commuovermi con loro: soprattutto questo è avvenuto di fronte al riconoscimento di un percorso compiuto, di una conquista. L'accogliere i loro pianti e le loro gioie è stato riferito al fatto di trovarmi presente, di esserci di fronte a ogni avvenimento.

    In qualche caso, anzi, le esperienze di prossimità e di coinvolgimento emotivo sono guardate come «esperienze culmine» di un rapporto sofferto, spesso problematico, ma non privo di gratificazioni.

    Alla fine di un pomeriggio di studio Paolo, vincendo la sua timidezza, mi guarda fermo negli occhi e commosso fino alle lacrime mi dice: «Grazie prof., nessuno aveva mai fatto per me quello che lei ha fatto». Ci siamo abbracciati, anch'io ero commossa: a me sembrava di avere fatto solo il mio lavoro.

    Attrezzarsi della necessaria competenza emotiva, sviluppare le abilità relazionali, affinare le proprie strategie comunicative diventa, pertanto, la preoccupazione primaria di molti educatori. La comunicazione emozionale consente, infatti, di raggiungere il giovane laddove le visioni stereotipate o superficiali non sanno coglierne il mistero.

    Ho scoperto che è anche molto importante il non giudizio e il non pregiudizio: non ci si può fermare di fronte al linguaggio, al modo di vestire, a determinati atteggiamenti. Il mio desiderio è sempre stato quello di incontrarli nella dimensione più profonda.

    Lo sforzo di realizzare una comunicazione da persona a persona e di mettere in atto una vera comprensione empatica risulta capace di mutare i luoghi e le occasioni di aggregazione informale dei giovani — ma spesso anche gli spazi istituzionali formalmente deputati alla loro educazione — in veri e propri luoghi di incontro con gli adulti. A patto che essi siano disposti a mettersi in gioco non per quello che hanno o per quello che sanno, ma anzitutto per quello che sono.

    La svolta decisiva nel rapporto tra me e i ragazzi c'è stata solo quando ho capito che era fondamentale che loro si fidassero di me e comprendessero che potevano contare su un adulto che non era né un genitore né soprattutto un'insegnante a cui dovevano dimostrare qualcosa. Il fatto di rendermi complice della loro vita ha creato finalmente un rapporto vero, fino a quel momento rimasto molto superficiale e distaccato soprattutto a causa mia, perché avevo interpretato il ruolo di educatrice limitandomi semplicemente a svolgere un compito senza lasciarmi coinvolgere emotivamente e senza mettere in gioco la mia vita personale.

    La ricerca di un clima di fiducia

    L'autenticità sembra emergere quindi in molti casi come un valore di riferimento importante. Essere autentici significa non soltanto essere veri o sinceri nella relazione, ma anche pensare, parlare, agire a partire da sé (6), evitando di rappresentare in maniera impersonale e amministrativa una qualche autorità esterna o di incorrere nel comportamento seduttivo di chi vuol rendersi tanto simile all'altro da non poterlo più aiutare. Così un educatore racconta la sua esperienza:

    È vero che il mondo giovanile si muove e cambia alla «velocità della luce», ma è altrettanto vero che sono cambiato anche io. Ricordo un tempo in cui emergeva la parte più «giovanilista» di me, per cui fl linguaggio, gli ambienti che si frequentavano erano gli stessi e non mi faceva problema andare a incontrarli là dove loro si radunavano. A un cambiamento per un trasferimento è corrisposto anche un cambiamento nel mio modo di pormi con gli adolescenti, dovuto alla coscienza di non essere soddisfatto dei rapporti che avevo costruito e al fatto che forse quel modo di essere non corrispondeva più a ciò che portavo dentro. Sono cambiati certamente il linguaggio, la confidenza. Non mi interessava più entrare in contatto «a tutti i costi», quanto essere me nel rapporto che sí veniva a creare.

    Essere se stessi produce in genere l'effetto di permettere all'altro di essere se stesso; si superano così le barriere comunicative dovute alle maschere e ai ruoli prefissati, e rinsalda un legame che sempre più sembra doversi fondare non su ragioni estrinseche ma sulla conquista della fiducia e della stima reciproca.

    Più io riesco a essere disponibile e a condividere con loro la mia vita e le cose che mi accadono, più loro mostrano curiosità e conseguentemente si aprono con me.
    Mi mettevo in gioco come essere umano, senza paura di confessare le mie debolezze e i miei fallimenti, anche intellettuali. Credo che la mia sincerità lo abbia conquistato e finalmente mi abbia offerto la sua stima, che a quel punto è diventata incondizionata.

    Essere adulti autentici riguarda, quindi, la capacità di prendere posizione, di rendere ragione delle proprie scelte, di rappresentare i propri valori e, nondimeno, l'umiltà di ammettere i propri errori, i propri limiti, di mettersi in discussione: l'una non esclude l'altra.

    Ho cercato di interessarmi alle loro vite, facendo in modo che loro conoscessero la mia attraverso i miei comportamenti e le mie parole. Ho cercato di esserci e di dare qualche strumento di lettura della realtà per trasformare in esperienza ciò che vivevano. Ho ascoltato e parlato molto, ma credo d'aver saputo prendere decisioni ferme quando è stato necessario, ho ammesso qualunque discussione «saltasse fuori» e ho accettato di avere torto.

    Memoria e riflessività

    Dato l'alto tasso di problematicità (e l'intrinseca fallibilità) del rapporto educativo con gli adolescenti, molti adulti avvertono l'esigenza di dotarsi di strumenti che rendano il loro incedere meno incerto e meno esposto al rischio. Se, a livello di senso comune, ancora persiste l'illusione di poter trovare risposta ai propri interrogativi di senso nelle formule astratte della scienza rappresentata dagli esperti (che, heideggerianamente, parlano di «tutti» e quindi di «nessuno» in particolare), negli adulti «competenti» appare nettamente un'altra inclinazione di diversa natura: il tentativo, cioè, di capitalizzare l'esperienza acquisita.
    In molti di essi è ín atto un dispositivo di riflessività che li induce a interrogare il proprio vissuto per trarne un sapere dell'esperienza al quale attingere in futuro, non come a un insieme cristallizzato di regole e principi educativi, bensì come a una sorta di patrimonio personale significativo.
    Da un lato, aderire alla realtà e alla concretezza dell'istante significa rapportarsi a ciò che di irreperibile e non prevedibile è insito in ogni persona e in ogni singola situazione.

    Le conoscenze e le esperienze precedenti – «Ho già un altro figlio molto più grande» – sembrano non dare alcuna risposta positiva ai problemi presenti.

    Dall'altro lato, però, quello che sembrerebbe di primo acchito un fattore di debolezza – la precarietà del sapere che non è sempre trasferibile – diviene un elemento di forza nel senso che permette continuamente di imparare dalla vita senza imbrigliarla a priori in ciò che già si sa o si dice. Emblematica, a questo proposito, l'esperienza di due genitori:

    Avendo due figli adolescenti ci siamo accorti che sono uno l'opposto dell'altro e abbiamo imparato che lo stesso modo di agire non va bene per entrambi. Il primo figlio, che ha fatto uso di sostanze, era mitizzato nei nostri pensieri perché fin dall'inizio della scuola lo vedevamo come un ragazzo che non aveva difficoltà ad apprendere e la sua esuberanza e voglia di essere sempre in compagnia di amici non ci aveva fatto vedere fino in fondo la sua fragilità e la sua paura di crescere e affrontare il mondo degli adulti. La seconda figlia, al contrario, quando era piccola la vedevamo fragile e la sua continua ricerca delle nostre attenzioni (voleva essere sempre rassicurata e sapere che noi le volevamo bene) ci preoccupava. Oggi che sta crescendo e ha 17 anni la vediamo più sicura di sé, ha affrontato il problema del fratello in modo che non d sa-remino mai aspettati, ha sofferto molto, ma ha reagito e ci ha aiutato anche nei momenti di sconforto.

    Una fonte di sapere significativa per alcuni sembra esser rappresentata dalla propria storia di formazione: non perché le dinamiche di altri soggetti situati in altri contesti possano essere lette meramente alla luce di ciò che è accaduto a se stessi in altri tempi e in altre situazioni, ma perché lo sforzo di recuperare e mettersi in ascolto dell'esperienza vissuta della propria adolescenza e della propria giovinezza permette di decentrarsi e di riguadagnare chiavi di lettura e, in generale, una consapevolezza talvolta perduta o semplicemente offuscata con il passare del tempo.

    Il dover raccontare i miei vissuti mi ha fatto ricordare come ero io alla loro età, quello che allora ritenevo giusto e cosa sbagliato, quali erano le mie aspirazioni e i miei interessi, le emozioni e le preoccupazioni, e quindi è aumentata in me la «pazienza» nei loro confronti e la comprensione di molti dei loro atteggiamenti.

    Il confronto e la cura di sé

    Nel processo di costruzione del sapere dell'esperienza a partire da sé, appare significativamente presente il riferimento alla condivisione dei vissuti e alla riflessione intersoggettiva messa in atto all'interno della coppia:

    Ne abbiamo parlato molto di più tra noi genitori, discutendone, sostenendoci, capendo che questa per noi è una difficoltà reale che non si risolverà tanto presto.

    Ma la riflessione è potenziata anche dall'esperienza di condivisione e confronto dialogico all'interno di contesti omogenei di adulti in situazioni analoghe (per esempio, gruppi di auto-mutuo aiuto).

    Abbiamo incentivato gli scambi di opinioni con altri genitori che hanno un figlio adolescente (non aiuta a risolvere ma dà un grande sostegno morale).

    Su questo fronte, molte testimonianze convergono ad affermare il valore del supporto e del confronto tra adulti, ín cui si condividono problemi, si esprimono emozioni e si mettono a disposizione risorse. Soprattutto da parte di chi ha dovuto affrontare situazioni critiche, come nel caso di figli tossicodipendenti.

    Non sapevo quali fossero i comportamenti da adottare per aiutarlo e ristabilire una buona relazione con lui. Capivo che dovevamo cambiare noi genitori ma non sapevo in che modo. Il modo di cambiare l'abbiamo individuato, non senza grosse resistenze da parte nostra, frequentando un gruppo di auto-aiuto in contemporanea con nostro figlio.

    Nonostante la difficoltà di un rapporto educativo problematico, reso più difficile dal disorientamento collettivo e dalle incertezze diffuse, gli adulti convergono in massima parte nel considerare il proprio impegno a favore degli adolescenti come una risorsa inestimabile, anche per la propria crescita personale.

    Ho preso la decisione di andare in pensione con serena convinzione, consapevole che sia stata una giusta scelta; tuttavia non nascondo il mio rammarico, perché comunque i ragazzi, con la loro ottimistica presenza, mi hanno sempre trasmesso allegria e tanta voglia di fare.
    Può, forse, essere tanto quello che ho dato, ma certamente è tanto quello che continuamente ricevo: il mettermi in gioco, il mantenere accesa una vivacità interiore, una giovinezza di spirito, una costante coscienza su ciò che abita il mio cuore.

    È significativo che venga menzionata la consapevolezza di sé come esito di un costante tentativo di interpretare l'altro e di accompagnarlo nel cammino della vita: la cura di sé, intesa come «accurata coscienza di ciò che abita nel proprio cuore», è forse lo strumento più prezioso – ma insieme il più difficile da apprendere e da custodire – per entrare in relazione con ciò che «abita» nel cuore altrui.

    NOTE

    Il presente articolo nasce da una ricerca realizzata dall'Università cattolica di Piacenza, in collaborazione con alcune istituzioni e associazioni piacentine.

    (1) Cfr. Scaparro F., Pietropolli Channet G., Belletà. Adolescenza temuta, adolescenza sognata, Bollati Boringhieri, Torino 1993. 
    (2) Cfr. Csv-Piacenza, Associazione «La Ricerca», Università cattolica di Piacenza, Adulti in... ricerca. Ricerca esplorativa sulla rappresentazione dell'adolescenza e della relazione educativa nel mondo adulto, Piacenza 2006.
    (3) Cfr. Husserl E., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002.
    (4) Cfr. Iori V. (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l'esistenza. Orientamenti fenomenologici nel lavoro educativo e di cura, Guerini, Milano 2006.
    (5) Cfr. Bruzzone D., Carl Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo, Carocci, Roma 2007.
    (6) Cfr. Diotima (a cura di), La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996.

    (Animazione sociale, novembre 2007)


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