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    Formazione

    permanente

    e modello

    dell’integrazione

    Amedeo Cencini

     

    La rivista è più volte ritornata sui punti deboli dell’attuale concezione e prassi formativa [1]. In questo articolo tentiamo - in positivo - di indicare alcune prospettive che si aprono dinanzi a noi, sul piano sia dell’interpretazione del concetto di formazione che della sua operatività. Senz’alcuna pretesa di completezza e definitività. Ma con la consapevolezza che la formazione è destinata oggi e sempre più a giocare un ruolo decisivo e strategico.
    In concreto concentreremo la nostra attenzione e la proposta che ne segue attorno a due elementi: la cultura della formazione permanente e il modello dell’integrazione. In qualche modo queste due proposte rispondono a quelle che potremmo considerare le …sette piaghe della formazione oggi, che abbiamo visto nel mio articolo già citato.

    Formazione permanente

    Al primo posto in questo sguardo verso il futuro mi sembra si ponga l’idea della formazione permanente (FP). Non è una novità, oggi si parla moltissimo dell’argomento. Ma si è ancora ben lontani da una mentalità o da una cultura in tal senso, o permangono concezioni confuse e riduttive al riguardo, come quando ci si accontenta –nel migliore dei casi- semplicemente di prolungare la formazione ai primi anni successivi all’ordinazione presbiterale o alla professione perpetua, e poi più niente o qualcosa «una tantum».
    Partiamo da una constatazione che, crediamo, non possa essere smentita da alcuno: se la nostra vita non è FP, è frustrazione permanente. Senza FP va in onda il processo contrario: la de-formazione progressiva, con tutti i fenomeni conseguenti di stanchezza, ripetitività, sciatteria, trascuratezza generale, inerzia, appiattimento, pensionamento precoce, perdita di credibilità (e a volte di dignità personale), inefficacia apostolica… La formazione permanente è quella disponibilità costante ad apprendere dalla vita - da ogni situazione e relazione umana (=docibilitas) - che si esprime in un insieme di attività ordinarie, e poi anche straordinarie, di vigilanza e discernimento, di ascesi e orazione, di studio e apostolato, di verifica personale e comunitaria..., che aiutano quotidianamente a maturare nell’identità credente e nella fedeltà creativa alla propria vocazione nelle diverse circostanze e fasi della vita. Fino all’ultimo giorno. O, più in sintesi: la FP è la libertà intelligente e intraprendente di lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita.
    L’obiettivo verso il quale tendono presbitero e consacrato è, infatti, obiettivo che non può esser esaurito nell’arco d’un tratto limitato di vita e di formazione; è l’obiettivo dell’identificazione con i sentimenti del Figlio Buon Pastore [2] o del Figlio Servo [3], per una sequela, dunque, che non può fermarsi all’aspetto esteriore, a una generica imitazione, ma che va in profondità, si estende a tutto l’essere e proprio per questo abbraccia anche tutto il tempo della vita.

    Cultura della formazione permanente

    Cerchiamo, allora, oltre la definizione, di entrare nella mentalità, nella cultura della FP, perché questa è la nuova frontiera della formazione oggi, e lo facciamo chiarendo ciò che non è (=i tanti preconcetti che ne distorcono il senso) per capir meglio ciò che è [4].
    La FP:
    1- non è ciò che viene dopo, ma ciò che viene prima. La FP è grembo e ideamadre dell’idea di formazione, su un piano psicopedagogico; l’idea originaria di formazione è subito idea di qualcosa che per natura sua abbraccia tutta la vita. È a partire da questa idea che poi si può suddividere l’esistenza in fasi successive di formazione, da quella iniziale a quella che poi scandirà ogni fase esistenziale. In concreto ciò implica che l’autentica FP comincia nel tempo della prima formazione.

    Non è dunque da favorire quella mentalità secondo la quale la formazione iniziale è istituzionale, mentre l’altra no [5].
    2- non è pedagogia, ma soprattutto teologia. Se la formazione mira a plasmare nel discepolo i sentimenti del Maestro, allora la formazione non è più solo pedagogia, ma è addirittura un modo teologico di pensare la vita presbiterale o consacrata, che infatti è in se stessa essenzialmente formazione o potrebbe essere definita come un lento processo formativo dei sentimenti del Figlio.
    3- non è progetto umano, più o meno subìto, ma opera del Padre, dunque grazia. Prima di esser programma organizzato dalla solita commissione nominata dal Vescovo (e spesso subìta dalla base) la FP è grazia già in atto nella vocazione che è una chiamata quotidiana, nella Parola-del-giorno, nell’Eucaristia-del-giorno, nella Liturgia e nell’anno liturgico, ma anche in ogni evento, come qualcosa che il Padre-Dio già mette in atto continuamente per me.
    4- non mira semplicemente all’aggiornamento pastorale né si riduce a funzione del ministero, ma si integra con esso e se ne arricchisce. La FP tende a plasmare nella persona l’uomo nuovo, quello creato secondo il progetto del Padre, non solo ad aggiornare l’apostolo. D’altronde il ministero è risorsa per la FP, poiché il ministero è esattamente la dimensione reale della vita del discepolo. Nel ministero stesso ogni apostolo trova ragioni e contenuti di nutrimento spirituale e di riflessione teologica.
    5- non è realtà straordinaria ed eventuale, ma ordinaria e quotidiana. È gestita attraverso le cose e le persone che mi vivono accanto, sante e meno sante, che io non ho scelto e da cui non sono stato scelto, e che comunque sono mediazione dell’azione formativa del Padre, attraverso l’orario, le occupazioni e i fastidi di sempre. «Tutto è grazia» perché tutto è FP!
    6- non è realtà universale e scontata, ma frutto della decisione del singolo. La formazione è permanente solo se e quando la persona ha dato una prospettiva definitiva o compiuta alla propria vita, scegliendo di seguire il Signore, e solo a partire da quel momento; non necessariamente quand’è finita la fase cosiddetta iniziale. Per questo motivo per qualcuno la FP è cominciata molto presto, per altri non è mai cominciata, anche se hanno celebrato 25 o 50 anni di sacerdozio.

    7- non è in funzione di un adattamento iniziale e progressivo alla situazione pastorale, quanto applicazione continua e personalizzata di una precisa metodologia educativo-formativa. In più di qualche diocesi o istituto religioso vi sono lodevoli iniziative di FP, ma praticamente solo per i più giovani e nei primi anni dopo l’ordinazione o professione, come abbiamo detto. Ma questa è solo una sorta di prolungamento della formazione iniziale, il cui termine è solo spostato in avanti per favorire l’inserimento graduale nel ministero. FP, invece, significa la messa in atto costante e quotidiana di un sistema pedagogico autoformativo, divenuto come stile di vita. Continuazione ma anche innovazione.
    8- non è mai terminata, perché c’è sempre in noi una parte dell’io meno libera di crescere. Di fatto nessuno è interamente e interiormente libero di lasciarsi formare tutta la vita; c’è in ciascuno di noi una parte, una qualche dimensione dell’io, una pulsione istintuale, un atteggiamento o attesa inconscia… che resta fuori da questo cammino, ove siamo rigidi e chiusi, o sordi e muti e insensibili di fronte alla realtà esterna (e alla stessa Parola di Dio), come una specie di zona anestetizzata o paralizzata. A volte, purtroppo, non è circoscritta a se stessa, ma come una cellula cancerogena tende ad estendersi e infettare il resto del nostro mondo interiore. Ci vuole molta attenzione e vigilanza in tal senso. La FP è quest’attenzione vigile.
    9- non è solo autoformazione, né solo eteroformazione, ma l’una e l’altra.
    Autentica FP significa il massimo della responsabilità personale che si salda con il massimo della disponibilità a lasciarsi formare dalla vita e dagli altri, dai confratelli come dalla gente della parrocchia.
    10- non è subito ben accetta e ben interpretata da un certo tipo di prete, ma chiede subito una precisa conversione dell’immagine del presbitero. Il prete d’una certa mentalità, maestro e dottore della legge, formato e istruito dopo lunghi anni di formazione, non accetta di buon grado l’idea della FP. Non è da meravigliarsi delle resistenze dinanzi all’idea d’una formazione che deve durare tutta la vita, oppure sarà da attendersi un’interpretazione riduttiva e parziale, che la limita all’aspetto esteriore. Importante non demordere.
    Questa sorta di decalogo aiuta senz’altro a modificare e chiarire l’idea di FP.
    Ma forse la prospettiva ideale centrata sul singolo non basta.

    Prospettiva istituzionale: un Centro per la FP

    Forse non è esagerato dire che siamo in un’epoca storica simile a quella in cui la chiesa istituì i seminari per la formazione dei presbiteri. Oggi certamente la prima preoccupazione dev’esser quella di creare una mentalità nuova, ma proprio per questo, per creare cultura della FP, è forse necessario affrontare il problema anche a livello di strutture, di persone e comunità (nelle diocesi e congregazioni) che si facciano carico della FP di tutti, per quanto questa dipende dall’istituzione.
    In alcune diocesi già esistono strutture in tal senso. Ovvero un Centro o una comunità stabile di persone che si dedicano a tempo pieno al servizio della FP per la diocesi o per l’istituto religioso. Più in concreto il servizio di tali Centri dovrebbe mirare all’ideazione e realizzazione di un progetto di FP per le diverse fasce d’età o settori di servizio all’interno della diocesi o dell’istituto, attraverso il coordinamento di attività ordinarie (ritiri, esercizi, incontri periodici zonali…) e straordinarie (corsi particolari, tempi di ripresa spirituale, periodi sabbatici…), per il cammino comunitario di tutti e per quello specifico di singoli gruppi.
    Ma questi Centri vorrebbero anche funzionare da punto di riferimento per chi necessiti di aiuto spirituale e non solo (ovviamente con la dovuta discrezione e non necessariamente nello stesso luogo fisico o con le medesime persone). Perché non avvenga che un sacerdote in difficoltà si senta isolato né appestato, o sia costretto a tener tutto nascosto e non sappia a chi rivolgersi, o debba «emigrare» altrove e magari finisca in mano a chi non ne capisce nulla d’identità sacerdotale. Ma non pensiamo solo agli interventi straordinari o d’emergenza: qualsiasi sacerdote deve sapere che può fare affidamento su qualche «fratello maggiore», che la chiesa è davvero sua madre e si prende cura di lui, in ogni momento… Tale Centro per la FP sarebbe, ed è di fatto laddove è realizzato, un segnale importante dato dall’istituzione stessa, e che va nel senso della creazione di una cultura della FP, e della stabilità, strutturale e visibile, della FP stessa [6].

    La sfida della «docibilitas»

    Torniamo al discorso sul singolo. C’è infatti una condizione previa perché vi sia FP: la formazione della docibilitas.
    La docibilitas [7] rappresenta il punto d’incontro tra formazione iniziale e formazione permanente. Compito della prima dovrebbe esser esattamente la formazione della libertà di apprendere da chiunque e in ogni momento della vita, comunque e in qualsiasi contesto. Persona docibilis è individuo che ha «imparato a imparare», e che dunque proprio per questo continuerà la propria formazione ogni giorno della sua esistenza, in qualsiasi ambiente e fino all’ultimo giorno della vita e con qualsiasi persona. Si tratta di una disponibilità attenta e intelligente, motivata e intraprendente, tipica di chi non riduce la propria FP ad alcuni momenti istituzionali o al semplice aggiornamento, né a quel che altri programmano per lui, ma di chi si sente e si rende primo responsabile di essa e ha scoperto che ogni situazione (anche i fallimenti), ogni stagione esistenziale (anche la mezza e tarda età), ogni persona (non solo i santi) può esser strumento, momento e mediazione di crescita.
    Tale intelligenza dello spirito implica alcuni fattori precisi oltre l’accoglienza «docile», obbediente e un po’ passiva, e cioè: * pieno coinvolgimento attivo e responsabile della persona, prima protagonista del processo educativo; * atteggiamento fondamentalmente positivo nei confronti della realtà e di riconciliazione e gratitudine verso la propria storia, riconosciuta come luogo e mediazione naturale del proprio processo formativo; * libertà interiore e desiderio intelligente di lasciarsi istruire da qualsiasi frammento di verità e bellezza attorno a sé, godendo di ciò che è vero e bello, nel proprio ambiente di vita e anche al di fuori di esso, nella cultura circostante, ad esempio, senza vedere dappertutto e solo il male; * capacità di relazione con l’alterità, di interazione feconda, attiva e passiva, con la realtà oggettiva, altra e diversa rispetto all’io, fino a lasciarsene formare; * identificazione di quanto impedisce al soggetto di vivere questo tipo di rapporto con la realtà e l’alterità; * apprendimento di un metodo attraverso cui egli possa liberarsi delle proprie paure e difese, distorsioni percettive e aspettative irrealistiche e, in definitiva, di quanto non gli consente di lasciarsi educare-formare dalla vita per tutta la vita [8].
    Questi atteggiamenti mettono progressivamente il soggetto in condizione di vivere in perenne stato di formazione per tutta l’esistenza e in qualsiasi ambiente e cultura; e dovrebbero essere obiettivo del cammino educativo nella formazione iniziale.

    Modello dell’integrazione [9]

    Nel mio articolo precedente già citato avevo fatto notare come siano ancora in uso, nella pratica formativa, modelli educativi piuttosto desueti, che non sembrano rispondere alla situazione dei giovani d’oggi e al contesto culturale odierno.
    Senz’alcuna pretesa di aver trovato la risposta definitiva credo che oggi la formazione dovrebbe andare in una direzione relativamente nuova e precisa, quella dell’integrazione.

    L’integrazione è quel processo, sul piano educativo, che consente di costruire e ricostruire la propria vita e il proprio io attorno a un centro vitale, nel quale ritrovare la propria identità e verità, e la possibilità di dare senso e compimento a ogni frammento della propria storia e persona, al bene come al male, al passato e al presente, in un movimento costante centripeto di at-trazione progressiva.

    Tale centro, per il credente e tanto più per il presbitero e consacrato, non può che essere il mistero pasquale, la croce del Figlio che, elevato da terra, attira a sé tutte le cose e ogni vivente (cf Gv 12,32). Nulla, infatti, come la sua pasqua di morte e resurrezione è in grado di significare o dare senso veritativo alla realtà e alla realtà intera, senza buttar via niente, poiché «nulla si sottrae al suo calore» (Sal 19,7), perché della vita ed esperienza umana -a ogni livello, dall’istintuale allo spirituale- «nulla vada perduto» (Gv 6,12) [10].
    Integrare, per altro, non è operazione singola, ma indica una serie di dinamismi; vuol dire completare, compiere, arricchire, assumere, personalizzare, purificare, cicatrizzare, trasformare, raccogliere, riorientare, lasciarsi attrarre, creare unità attorno a un centro…, insomma tutte attività tipiche di un percorso formativo che voglia andare in profondità come quello presbiterale/religioso.
    Tale modello risponde a un disegno teologico, che è nientemeno che il progetto del Padre, «fare di Cristo il cuore del mondo», perché la sua pasqua sia anche il «cuore», centro di unità e attrazione del giovane candidato, e il Figlio- Servo-Agnello ne tracci pure la storia, passata, presente e futura, i lineamenti della sua personalità, la sua identità e verità [11].
    Ma risponde anche a esigenze psicologiche fondamentali, quella in particolare di aver un centro, un nucleo centrale vivo, nel quale il giovane possa riconoscere il proprio io e quel che è chiamato a essere, e raccogliere attorno a esso tutte le altre forze vive della sua umanità: dell’intelligenza che scruta il mistero (=logos), della passionalità umana capace di grandi aspirazioni ma pure esposta a grandi tentazioni (=eros), della volontà che si trova dinanzi al dramma della scelta (=pathos).
    Si tratta, in altre parole, di tre esigenze dell’essere umano, legate alla complessità, ma pure alla ricchezza del mondo interiore umano.

    Logos e mistero

    Anzitutto l’esigenza di scoprire e dare senso alla propria storia, passata e presente, e alla propria persona, in ogni sua componente, al negativo e positivo che son parte d’ogni vita: è il bisogno di verità, di logos.
    In tal senso solo il mistero della croce del Figlio può rispondere a questa esigenza, poiché la croce stessa è stato l’evento più insensato della storia riempito di significato. Per questo essa è la verità della vita e della morte, dell’amore e della sofferenza, e può trasformare il male in bene, l’assurdo in sensato, il fallimento in occasione di crescita, l’impotenza in grazia, la morte in vita. Ma è pur sempre un senso avvolto dal mistero.

    Eros e passione

    La seconda esigenza è quella di avere un centro di attrazione attorno al quale unificare le forze vive dell’affettività, della capacità di relazione e alterità, della sessualità, della fecondità umana, in una parola dell’eros.
    La passione del Servo sofferente, da questo punto di vista, è prima di tutto passione del cuore, e capacità di relazione al grado estremo, con il massimo dell’alterità. Solo tale passione può giudicare e orientare l’amore, formare la coscienza e portare a galla quell’egocentrismo inconscio e inconfessato che è madre di tutte le immaturità; può scoprire l’autentico mistero della sessualità e darle ordine, dirne rischio e ricchezza, rivelare che l’amore ha le stigmate e se non ce le ha non è vero amore… Al tempo stesso nulla come la croce dà al giovane le due certezze fondamentali della libertà affettiva: la certezza d’esser amato e la certezza di poter e dover amare. Queste due certezze gli consentono di vivere in pieno la sua sessualità, o d’interpretare la verginità come sessualità pasquale, convertendo l’eros in passione per Dio e per gli uomini.

    Pathos e dramma

    La terza esigenza, infine, è che questa fonte di verità per la mente ma che attrae pure il cuore, sia anche centro di trazione, che sappia assieme dare unità e metter in movimento tutto l’apparato psichico, e dia forza e determinazione di scegliere e progettare responsabilmente la vita: è la dimensione del pathos.
    Solo il dramma della pasqua dell’Agnello fa sentire la responsabilità altrettanto drammatica (=pathos) della propria scelta e d’una scelta che non può esser delegata, che è poi la responsabilità dell’amore ricevuto che tende per natura a sua a divenire amore donato; solo il dramma della scelta libera di Gesù può comunicare la forza di scegliere in ogni istante di vita, di pro-gettare l’esistente gettandosi al di là di sé e consegnandosi agli altri, fino alle conseguenze più radicali ed esigenti.
    Il modello dell’integrazione, come si può ben vedere, realizza una sintesi oggi sempre più indispensabile, tra contenuto e metodo, e ancor prima tra elementi teologico-spirituali e psicopedagogici (o tra fattori architettonici ed ermeneutici). La Pasqua di Gesù, infatti, non è solo il punto d’arrivo del cammino, ma il cammino stesso; non solo il valore da vivere e credere, ma il metodo da seguire e metter in pratica; non semplicemente l’obiettivo finale della vita consacrata e sacerdotale, ma l’esperienza continua e quotidiana del religioso e del presbitero; non tanto il modello da imitare, ma l’amore, il sapore, la beatitudine, il tesoro prezioso di una vita offerta in dono.
    Grazie a questo tipo di sollecitazione educativa il giovane sarà tanto più integrato (=maturo e consistente) quanto più sarà in grado di accogliere-raccogliere tutte le energie e potenzialità della propria umanità, senza abolire nulla (con il rischio d’impoverire il potenziale energetico umano idealmente), ma facendo girare tutte le forze interiori (aspirazioni, pulsioni, affettività, sessualità…, ma anche fragilità e inconsistenze, presente e passato) attorno a questo centro vivo, fonte di luce e calore, come satelliti attorno a un pianeta, in una strategia dell’inclusione, non dell’esclusione.
    La formazione deve attivare questo dialogo e tale logica, con le operazioni che comporta, e che evidentemente dovranno per natura loro durare tutta la vita, e che tocca alla formazione iniziale far partire, secondo una precisa metodologia.

    NOTE

    1 Il tema è stratto trattato direttamente in A. Cencini, Formazione: parola magica, in «Tredimensioni», 3 (2004), pp. 277-295. Nella stessa rivista cf anche gli articoli di A. Manenti, Aberrazioni da evitare, 1 (2004), pp. 18-25, I. Seghedoni, La “prima volta” di Angelo e Simonetta: quando è negata l’intersoggettività nell’azione educativa, 1 (2004), pp. 77-91, E. Parolari, Vizioso, intrigante e/o ammalato? 2 (2004), pp. 158-171.
    2 Cf Pastores dabo vobis, nn. 70.73.
    3 Cf Vita consecrata, n. 65.
    4 Molte delle idee che seguono le ho proposte e analizzate nel mio Il respiro della vita. La grazia della formazione permanente, Paoline, Cinisello B. 2002.
    5 Nel documento Ripartire da Cristo, della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, il paragrafo sulla FP precede addirittura quello sull’animazione vocazionale.
    6 Nella diocesi di Padova esiste in tal senso l’Istituto San Luca, situato –per ora- in alcuni ambienti del seminario maggiore. Scherzando, ma non troppo, l’attuale responsabile della struttura, don Zanon, dice che probabilmente le tre stanze iniziali un giorno si amplieranno e il seminario sarà diviso in due parti: una per la formazione permanente ed un'altra per la formazione iniziale.
    7 Letteralmente il termine andrebbe tradotto come «insegnabilità», ovvero come disponibilità del soggetto a lasciarsi istruire-insegnare. Nel nostro contesto preferiamo dargli un significato più attivo e intraprendente: cf CEI, Linee comuni per la vita dei nostri seminari, Roma 1999, n. 22.
    8 Ricordando il noto principio tomista secondo il quale «quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur».
    9 Ho esposto in maniera più dettagliata, nelle sue implicanze e conseguenze, tale modello nel volume L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, Paoline, Cinisello B.
    2005.
    10 Cf O.Clément, Il potere crocifisso, Qiqayon, Magnano 1999, pp.35-36..
    11 Cf G.Moioli, Il centro di tutti i cuori, Glossa, Milano 2001, pp.72-73.

    Tredimensioni 2(2005) 276-286


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