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    Assumere la fenomenologia come orientamento nel lavoro educativo e sociale significa non tanto assumere una teoria organica e sistematica, quanto piuttosto esprimere un'opzione metodologica. Un'opzione che – più che richiamarsi a una certa visione scientificamente ordinata del mondo e della vita – cerca di star fuori dagli orizzonti categoriali predefiniti e presta attenzione all'esperienza vissuta come via privilegiata alla comprensione dell'umano. L'espressione «fenomenologia», infatti, indica «primariamente un concetto di metodo. Essa non caratterizza il che-cosa reale degli oggetti della ricerca filosofica, ma il suo come» (1).

    Cogliere l'essenziale

    L'imperativo husserliano espresso nella famosa frase «tornare alle cose stesse!» (2) richiama fortemente a un pensiero e a un'azione che, nello sforzo di restare ancorati all'esistenza, cercano di affrancarsi dalle visioni rigide e precostituite del mondo e della vita e di privilegiare il metro della conoscenza diretta, dell'implicazione personale e della comprensione, rispetto alle pretese esplicative di una scienza che calcola, misura, classifica, interpreta e interviene nelle situazioni umane senza interrogarsi sul senso (o il non-senso) che esse hanno per chi le vive.
    Come chiarisce Merleau-Ponty:

    Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos'è una foresta, un prato o un fiume. (3)

    Forse proprio questo riferimento diretto all'esperienza precategoriale del mondo della vita (Lebenswelt), rispetto a cui ogni concetto e ogni teoria non sono che costruzioni derivate, rappresenta oggi (in un mondo largamente condizionato dal potere della scienza e dall'influsso pervasivo della tecnica) il messaggio più significativo della fenomenologia per coloro che operano nell'ambito variegato – frammentario, multiforme e tutt'altro che prevedibile – del lavoro sociale, della formazione e dei servizi alla persona.
    La fenomenologia invita ad adottare un'epistemologia della contingenza: rinunciando al fascino illusorio di un sapere perfettamente congegnato che rischia però di allontanarsi dalla vita, essa consente di affrontare i problemi umani e sociali con maggiore flessibilità, preservando l'aderenza alla realtà concreta. Il concetto stesso di «realtà», anzi, ne esce trasformato. Per il fenomenologo, infatti, «il mondo non è ciò che io penso, ma ciò che io vivo» (4). La realtà, insomma, non si dà mai indipendentemente dal vissuto (Erlebnis) delle persone che la sperimentano.
    Lo psicologo Carl Rogers lo sottolineava con una radicalità che gli era propria:

    La sola realtà che posso probabilmente conoscere è il mondo come io lo percepisco e sperimento in questo momento. La sola cosa che voi potete probabilmente conoscere è il mondo come lo percepite e sperimentate voi in questo momento. E la sola cosa sicura è che queste realtà percepite sono differenti. Ci sono altrettanti «mondi reali» quante sono le persone! (5)

    Si tratta, pertanto, di affinare lo sguardo sull'esperienza e di ritrovare, alimentandolo, quello stupore di fronte al mondo e quell'attenzione non frettolosa al suo manifestarsi, che impedisce di ricondurre ogni fenomeno nella sua irriducibile singolarità (ogni persona, ogni situazione) al già detto, al già visto, al già saputo.
    Il fenomenologo, quindi, è in ultima analisi «uno che sa vedere» (6), qualità assolutamente necessaria per chi è quotidianamente impegnato in un lavoro di cura. Non diversamente, forse, dal modo in cui gli artisti, talvolta, sanno «vedere» il mondo: non come accozzaglia disordinata di fatti tra i quali un intelletto perfettamente efficiente possa mettere ordine, bensì come trama di significati che si offrono solo a chi, oltre che affidarsi ai potenti fasci di luce della ragione, sappia acuire l'occhio del cuore per cogliere ciò che perlopiù passa inosservato.
    Anche questo è intuizione: «Non si tratta di un vedere con gli occhi», osserva lo psichiatra Binswanger, «eppure si tratta di una presa di coscienza immediata, di un «vedere dentro» che non ha nulla da invidiare alla conoscenza sensoriale» (7). Essendo una questione di sguardo, la mossa inaugurale non può che consistere nel partire da sé.

    Prestare attenzione

    La fenomenologia è anzitutto un'operazione di trasformazione da compiere su se stessi. Una sorta di conversione: una modificazione dell'atteggiamento naturale che abbiamo nei confronti delle cose, e che sostanzialmente consiste nel «mettere fuori gioco la responsività ma non la vita» (8).
    Significa eludere la tentazione di intervenire sul mondo prima ancora che ci parli, senza per questo assumere un atteggiamento di cecità o di disinteresse. Vuol dire, in un certo senso, imparare a fermarsi tenendo però bene aperte le orecchie e spalancati gli occhi, «cogliere le cose stesse abbandonandosi ad esse» (9), evitando di ricondurle immediatamente entro le proprie categorie o nei recinti (talvolta non sufficientemente ampi, ma comunque rassicuranti) di ciò che si sa o si sa fare.
    Da questo punto di vista, la fenomenologia non è tanto (e comunque non primariamente) una teoria della conoscenza, quanto piuttosto una postura esistenziale, se non addirittura una regola di vita.
    Forse è questa la ragione per cui essa è stata definita nei termini di una «maniera» o di uno «stile» (10), che consiste in ultima analisi nella capacità di mettere a tacere l'imperialismo dell'io e di adottare un atteggiamento di «attenzione passiva, che non si dirige verso l'altro ma lo accoglie» (11).
    Proprio dallo sguardo che non possiede ma attende, che non presume ma si interroga, che non si accontenta di spiegare ma tenta di comprendere, scaturisce la responsabilità autentica per il destino dell'altro, per il suo benessere integrale, per le possibilità inespresse della sua esistenza.
    Qui l'atteggiamento fenomenologico mostra tutta la sua vis performativa e perfino politica: perché l'etica della cura (il gesto quotidiano di chi accoglie l'altro nel suo bisogno non per rinchiuderlo in esso, ma per aiutarlo a dare compimento al suo desiderio di pienezza e di vita) nasce dalla capacità di «vedere» l'altro oltre il suo limite, nelle sue risorse, oltre il «caso» che rappresenta, nella sua unicità. È quindi necessario che il professionista del lavoro sociale impari a soffermarsi sulle cose e sulle persone senza emettere giudizi superficiali o affrettati, con quella qualità dell'attenzione, che Simone Weil descrive con vividezza straordinaria:

    Per abbattere le cicale in pieno volo è sufficiente non vedere nell'universo intero altro che la cicala presa di mira: non è possibile mancarla. Per diventare arciere, restare per due anni disteso sotto un telaio senza battere le palpebre quando passa la navetta. Per tre anni far arrampicare, controluce, un pidocchio su un filo di seta. Quando esso apparirà più grande di una ruota, di una montagna, quando nasconderà il sole, quando si scorgerà il suo cuore, si può tirare: lo si colpirà in pieno cuore. (12)

    È questa attenzione paziente, aperta e intelligente la chiave che conduce alla vera comprensione delle situazioni umane, la cui essenza consiste spesso di piccoli dettagli o significati impliciti che, appunto, rischiano di sfuggire. Quella di chi lavora a servizio delle persone e del loro benessere individuale, familiare, sociale, è un'etica del quotidiano che predilige il valore dell'ordinario nei confronti dello straordinario; il valore del momento presente rispetto all'ingombro del passato e alle proiezioni future dell'immaginazione; il valore di una vita spogliata dei pregiudizi e saldamente ancorata al principio dell'autenticità (13).
    L'approccio fenomenologico, dunque, è molto più di una semplice tecnica; non significa soltanto guardare il mondo con occhi nuovi, ma anche essere nel mondo secondo una presenza discreta, fiduciosa, intelligente e sensibile. Non è un insieme di concetti astratti, difficili o poco attinenti alla vita di tutti i giorni, ma, al contrario, è un pensiero denso di implicazioni pratiche ed etiche, e suscettibile di applicazioni nell'ambito del lavoro di cura. Anzi: «La fenomenologia è applicata o non è» (14).

    Porsi in ascolto del vissuto

    L'ideale fenomenologico di un ritorno alla conoscenza diretta delle cose e delle persone «in carne ed ossa» (come dice Husserl) si ottiene mediante la pratica della epoche: una sorta di «messa tra parentesi» (Inklammersetzung) e «fuori circuito» (Ausschaltung) dei pregiudizi che possono impedire l'accesso al fenomeno per quello che è.
    Edith Stein descrive bene in cosa consista questo atteggiamento:

    Non tener conto delle teorie sulle cose, escludere, ove è possibile, tutto ciò che si ascolta, si legge o che si è costruito da soli, avvicinarsi ad esse con uno sguardo privo di pregiudizi e attingere a una visione immediata. Se vogliamo sapere cos'è l'essere umano dobbiamo porci nel modo più vivo possibile nella situazione in cui facciamo esperienza del suo esserci, vale a dire di ciò che noi sperimentiamo in noi stessi e di ciò che sperimentiamo nell'incontro con gli altri. (15)

    L'epoché consiste quindi in uno sforzo continuo di tirarsi fuori dai «mondi anticipati» costituiti dalle convinzioni di senso comune, dai modi di agire convenzionali e stereotipati, dagli automatismi cognitivi ed emotivi che imbrigliano la lettura dei problemi nelle maglie delle precomprensioni e che spesso impediscono di cogliere il profilo unico e originale delle situazioni.
    Lungi dall'essere qualcosa di spontaneo e immediato, la sospensione del giudizio richiede in realtà un lungo apprendistato: l' epoché infatti è «un metodo che dev'essere faticosamente appreso» (16). Esso, nondimeno, permette di realizzare il principio fenomenologico per eccellenza: quello della fedeltà al fenomeno e del rispetto per ciò che appare. E nell'ambito del lavoro sociale e educativo ciò significa salvaguardare ciò che attiene alla vera conoscenza delle persone: la capacità, cioè, di coglierne l'insostituibile fisionomia, il «modo d'essere proprio di ciascuno» (17).
    Tuttavia, il modo di essere di ciascun individuo si coglie non riducendo quell'individuo meramente al suo bisogno (soprattutto quello manifesto), né riconducendolo alle categorie e alle classificazioni pre-disposte in base a cui i servizi spesso regolano la domanda e la risposta, ma solo entrando in comunicazione, ponendosi in dialogo, in ascolto:

    Lo stare a sentire costituisce infatti l'aprimento esistenziale dell'Esserci al con-essere con gli altri. (18)

    Ascoltare in maniera autentica esige lo sforzo continuo di liberarsi dall'impersonalità della chiacchiera e della curiosità, in cui non si dà autentica comunicazione, bensì una forma di ascolto sommario e superficiale che produce incomprensione, equivoco e, in ultima analisi, indifferenza.
    La chiacchiera, infatti, riconduce tutto alla pre-sunzione del «si dice» e del «si pensa»; essa «è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere», e in quanto tale provoca sviamento.
    La curiosità, invece, è tipica di chi non si prende cura di vedere per comprendere ed è perciò «caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta» (19), e nella fretta, nell'abitudine a dare le cose per scontate, è continuamente dis-tratta, trascinata altrove. Ciò accade soprattutto quando, nel lavoro sociale, le logiche della razionalizzazione e della standardizzazione delle prestazioni prevalgono su quelle della personalizzazione e della relazione: quando, cioè, la tecnica sostituisce la coscienza.

    Coltivare l'umanità

    Lo sviluppo di un sapere specializzato e di una competenza tecnica, di metodi e strumenti capaci di assicurare l'efficienza e l'efficacia, corrisponde a una fondamentale esigenza di razionalizzazione del lavoro, che in un contesto complesso come quello sociale ha bisogno di conoscere, prevedere, controllare gli eventi.
    Tuttavia, l'ostinato e innaturale dominio della ragione tecnica e la rassegnazione alla ritualità delle abitudini scontate e alle quiete sicurezze indotte dalla routine, indeboliscono negli operatori la capacità di comprensione emotiva e sottraggono al loro modo di essere nella cura ogni perspicuità affettiva e ogni possibilità di incontro autentico. Restano, svuotati e inariditi, come automi ultracompetenti eppure carenti dell'unica qualità umana davvero cruciale: quella di sentire e di comprendere.
    La tecnica infatti (ivi inclusa la professionalizzazione, la divisione del lavoro e l'iperspecializzazione delle competenze) è una forma di pensiero e d'azione che rischia continuamente di scadere nell'im-posizione (Ge-stell) di uno schema prefissato e, quindi, corre sempre il pericolo di trasformarsi in strumento di manipolazione. Essa, invece, ha originariamente il compito di portare alla luce il progetto esistenziale che era nascosto, sollevare il velo, «sottrarlo al nascondimento» (20). La tecnica infatti, come dice Heidegger, «è un modo del disvelare» (21) e ciò significa che, in quanto mezzo per un fine, la sua funzione autentica consiste nel trovare il modo per portare a compimento l'esistenza.
    Nel lavoro socio-educativo ciò riveste una assoluta importanza: a persone diverse e a situazioni differenti corrispondono profili unici e progettualità non omologabili, quindi risposte ogni volta da inventare (dal latino invenire, trovare). In questo senso, il primo «strumento» indispensabile consiste non tanto in una procedura standard, ma nella relazione interpersonale:

    La tecnica conferisce preminenza all'uso-di-ciò-che-si-sa, preclude il possibile emergere del non preventivato e del non previsto, del possibile, al di fuori degli schemi precostituiti. Applicare questa o quella tecnica, invece di mettersi in gioco, nell'autenticità di ciò-che-si-è, come persona in relazione, mette a tacere l'esigenza di senso entro le procedure pre-disposte. (22)

    Contro gli eccessi di razionalità e di tecnologia che tendono a dis-umanizzare i servizi e a mutarli in luoghi anonimi e impersonali, occorre pertanto attivare e coltivare l'intelligenza (anche quella del cuore) che, attraverso l'incontro da-persona-a-persona, sa ricercare il senso di ogni situazione. È infatti questa la «tecnica dell'umanità» che – come osservava Viktor Frankl – «può tutelarci dall'inumanità della tecnica» (23).

    Trarre sapere dall'esperienza

    Gli operatori divengono esperti di relazioni solo a patto che, nella formazione iniziale e in quella permanente, trovino e custodiscano luoghi e tempi per la cura di sé e per la pratica riflessiva, affinché imparino a non affidarsi semplicemente al sapere impersonale (spesso sterile e comunque sempre limitato) proveniente dall'esterno, ma generino un sapere situato a partire dalla propria esperienza di cura.
    La fenomenologia prospetta una possibilità alternativa a quella, ampiamente diffusa ma frequentemente vissuta con un certo senso di frustrazione e di fallimento, di ricercare nelle teorie degli «esperti» o in una delle tante tecniche disponibili sul mercato le risposte adeguate alle inquietudini e alle incertezze che l'esperienza quotidiana del lavoro sociale suscita abbondantemente: l'alternativa consiste, precisamente, nell'interrogare la propria esperienza per trame quella «sapienza» dell'umano che una scientificità asettica e astratta non potrebbe mai raggiungere (i libri e le teorie parlano delle persone, ma le persone non si trovano mai contenute in nessun libro!).
    La nostra civiltà ci ha abituati a confidare in una scienza positiva perlopiù lontana dalle questioni decisive dell'esistenza. Ma nelle situazioni cruciali della vita

    questa scienza non ha più niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono più scottanti per l'uomo [...] i problemi del senso o del non-senso dell'esistenza umana nel suo complesso. (24)

    Per questo Heidegger, lapidariamente, sosteneva che <da scienza non pensa» (25). La pratica della cura delle persone, invece, ha bisogno del pensiero come suo alito vitale: perché soltanto chi pensa si interroga sul senso e sul fine del proprio agire; soltanto chi pensa evita di irrigidirsi in pratiche routinarie prive di significato ed è disposto a cercare soluzioni nuove a problemi nuovi, talvolta soluzioni nuove a problemi vecchi.
    Così chi ritiene che lavorare nel sociale richieda soltanto spirito pragmatico e abilità professionale forse sbaglia. Se l'anima del lavoro sociale è la cura delle persone e se la cura delle persone si fonda sull'amore per la vita, allora è necessario anche imparare a pensare le questioni più profonde – quelle del senso e del nonsenso dell'esistenza. L'attitudine riflessiva appartiene quindi a pieno titolo alla competenza professionale di un operatore che deve far fronte, quotidianamente, alle sfide dell'esistenza e pensare, ogni volta da capo, alle soluzioni migliori e più sensate.
    C'è, nell'esperienza personale e professionale sedimentata nel tempo, un sapere latente che troppo spesso rimane «sommerso» e perlopiù inutilizzato. Per esplicitarlo occorre imparare a «essere pensosamente presenti rispetto al divenire dell'esperienza» (26). Attraverso la pratica del pensare riflessivo, infatti, il singolo professionista sviluppa la capacità di osservare se stesso in situazione, di interrogare i propri modi di pensare, di sentire e di operare, e riesce lentamente a «capitalizzare» ciò che altrimenti, nella frammentarietà di un presente episodico e affrettato, rischia di andare perduto. Ma anche il gruppo di lavoro può avvalersi delle occasioni per pensare e ri-pensare insieme, creando e difendendo spazi e tempi per la condivisione e la riflessione comune.
    In ogni caso, imparare a ritirarsi dal «corpo a corpo» con le cose per «stare presso di sé» è tutt'uno con l'educarsi a pensare: perché è nell'esercizio del pensiero e della riflessione che lentamente matura una più profonda consapevolezza di sé e si tesse continuamente il senso del proprio lavoro e della vita stessa.
    Occorre, evidentemente, strappare all'avarizia della transitorietà e ai ritmi convulsi della quotidianità un tempo quieto: il tempo rallentato della cura di sé non è un tempo perso, ma un tempo «ritrovato», un esercizio sapiente e paziente di ricognizione, di scavo, di filtraggio, attraverso il quale lo scorrere del tempo e della vita sfugge alla tentazione della dimenticanza e della rimozione e cerca instancabilmente una sua stabilità, una sua forma significativa, un'indicazione di senso per l'agire.

    Attivare il cuore

    Non vi è presa in carico delle persone, nella loro totalità, ivi inclusi i vissuti emotivi che le accompagnano nelle situazioni di fragilità e di bisogno, se non all'interno di un senso di coappartenenza che trascenda definitivamente le barriere dei ruoli e delle convenzioni. Solo nella piena consapevolezza dell'essere con e per l'altro – e certo anche nell'esposizione al rischio del coinvolgimento che questo comporta – si compie quella «comunità di destino fra chi cura e chi è curato» (27) nella quale nulla è superfluo o insignificante, ma ogni minimo gesto, ogni sguardo, ogni parola sussurrata, ogni lacrima e ogni sorriso hanno potenzialmente un valore infinito.
    È stato detto che «il modo migliore per comprendere un altro essere umano è dí entrare nella sua Weltanschauung e riuscire a vedere il suo mondo attraverso i suoi occhi» (28). Occorre allora sviluppare un'attitudine all'ascolto che, messi da parte i «ferri del mestiere» troppo ingombranti per essere utili, cerchi di rappresentarsi il contesto e il problema dell'altro a partire dal modo in cui egli lo vive dall'interno, evitando di progettare soluzioni per lui, ma semmai con lui. Le persone, infatti, hanno bisogno anzitutto di essere aiutate a pensarsi, e non di essere pensate; troppo spesso, invece, i servizi e le organizzazioni tentano di costringerne la vita e l'unicità entro le maglie più o meno rigide di modelli precostituiti di bisogni e di risposte.
    Questa capacità di sintonizzarsi sul vissuto dell'altro per mettere in atto gesti di cura appropriati e non impersonali, si avvicina a quella disposizione che nella tradizione fenomenologica è stata definita con il termine «empatia» (Einfühlung) (29). Si tratta di una sorta di «trasposizione interiore» (Hineinversetzen) che consente di «rivivere» (Nacherleben) ciò che l'altro sperimenta in prima persona, cercando di cogliere per intuizione i sentimenti che egli (e solo lui nel modo che gli è proprio) sta provando in una determinata situazione, evitando di sovrapporvi le interpretazioni provenienti dalle proprie aspettative o dalle proprie esperienze pregresse.
    L'empatia, del resto, non è una condizione facile o immediata: il suo darsi, piuttosto, richiede un processo di apprendimento e una disciplina interiore fatta di rispetto e umiltà (virtù fenomenologiche per eccellenza) e implica la capacità di restare aperti, senza fuggire, alla densità della vita emotiva. Essere empatici, infatti, esige sempre una disponibilità a lasciar «risuonare» in se stessi il vissuto dell'altro – e ciò avviene nella misura in cui sí realizzano almeno due condizioni:
    - se, cioè, si è «fatto posto» dentro di sé all'accoglienza dell'altro, liberandosi dell'ingombro di un io preponderante;
    - e se, soprattutto, si è imparato a stare in quella sorta di «esposizione» emotiva che rende possibile l'apertura ma comporta anche una certa dose di fragilità.
    La pratica dell'empatia, quindi, inizia da se stessi, perché reclama una competenza emotiva (30) che consiste, da un lato, nel saper leggere i sentimenti altrui senza lasciarsi semplicemente «contagiare» e, dall'altro, nell'essere consapevoli delle proprie emozioni e del loro significato. L'esperienza emotiva, infatti,

    si qualifica per la sua qualità di ampliamento del sé, che comporta un duplice movimento: da un lato, uscita dell'io verso ciò che sta fuori per accoglierlo, per ospitarlo, dall'altro, intensificazione dell'esperienza di sé, contatto con la profondità. (31)

    In questo caso, entrare in se stessi per accedere al proprio mondo intimo non equivale a chiusura autoreferenziale e narcisistica, anzi: attenzione, concentrazione, consapevolezza, ascolto di sé, interiorità non sono i luoghi della preclusione e dell'allontanamento dalla realtà, bensì della massima apertura al cuore del mondo, come mirabilmente dimostrano le grandi esperienze spirituali (e affettive) di certi mistici cristiani.
    Si potrebbe addirittura affermare che non vi è autentica dedizione all'altro se non a partire da una consapevolezza profonda di sé. Infatti «il cammino misterioso della conoscenza dell'altro-da-noi è segnato dal modo di vivere le proprie emozioni e la propria interiorità» (32). Mai come in questo caso, dunque, vale il principio secondo il quale la cura di sé e la cura degli altri procedono di pari passo.
    I professionisti della cura dovrebbero apprendere, accanto alle indispensabili conoscenze scientifiche e tecniche che il loro lavoro comporta, anche a coltivare uno spazio interiore, perché la cura della propria vita emotiva è la condizione necessaria per poter aver cura dell'altro e della sua vita emotiva in maniera autentica. Come dimostra una giovane e già saggia Etty Hillesum, quando appunta sul suo Diario: «Avevo imparato a leggere in me stessa e così ero in grado di leggere anche negli altri» (33).


    NOTE

    (1) Heidegger M., Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 46.
    (2) Husserl E., Ricerche logiche, il Saggiatore, Milano 1968, p. 271.
    (3) Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, il Saggiatore, Milano 1965, p. 17.
    (4) Ibidem, p. 26.
    (5) Rogers C. R, Un modo di essere, Martinelli, Firenze 1983, p. 91. Per un'introduzione all'approccio centrato sulla persona, cfr. Bruzzone D., Cari Rogers. La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo, Carocci, Roma 2007.
    (6) Gadamer H. G., I sentieri di Heidegger, Marietti, Genova 1987, p. 58.
    (7) Binswanger L., Sulla fenomenologia, in Binswanger L., Warburg A., La guarigione infinita, Neri Pozza, Venezia 2005, p. 261.
    (8) De Monticelli R., La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini, Milano 1998, p. 39.
    (9) Stein E., Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1999, p. 37.
    (10) Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, op. cit., p. 16.
    (11) Mortari L., Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Firenze 2002, p. 235.
    12) Weil S., Quaderni, vol. II, Adelphi, Milano 1985, p. 67.
    (13) Depraz N., Comprendre la phénomenologie. Une pratique concrète, Armand Colin, Paris 2006, p. 192.
    (14) De Monticelli R., La conoscenza personale, op. cit., p. 40.
    (15) Stein E., La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma 2000, p. 66.
    (16) Binswanger L., Sulla fenomenologia, op. cit., p. 269.
    (17) De Monticelli R., La conoscenza personale, op. cit., p. 30.
    (18) Heidegger M., Essere e tempo, op. cit., p. 207.
    (19) Ivi, pp. 213-217.
    (20) Cfr. Iori V., Nei sentieri dell'esistere. spazio, tempo, corpo nei processi formativi, Erickson, Trento 2006, pp. 48-49.
    (21) Heidegger M., La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 10.
    (22) Iori V., Nei sentieri dell'esistere, op. cit., p. 51.
    (23) Frankl V. E., Logoterapia medicina dell'anima, Gribaudi, Milano 2001, p. 121. Per approfondimenti si rinvia a Bruzzone D., Ricerca di senso e cura dell'esistenza, Erickson, Trento 2007.
    (24) Husserl E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1987, p. 35.
    (25) Heidegger M., Che cosa significa pensare?, in Id., Saggi e discorsi, op. cit., p. 88.
    (26) Mortari L., Apprendere dall'esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci, Roma 2003, p. 17.
    (27) Borgna E., L'arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2004, p. 14.
    (28) Maslow A. H., Verso una psicologia dell'essere, Astrolabio, Roma 1971, p. 25.
    (29) Cfr. Stein E., Il problema dell'empatia, Studium, Roma 1998.
    (30) Cfr. Iori V. (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l'esistenza. Orientamenti fenomenologici nel lavoro educativo e di cura, Guerini, Milano 2006; Bruzzone D., Musi E. (a cura di), Vissuti di cura. Competenze emotive e formazione nelle professioni sanitarie, Guerini, Milano 2007.
    (31) Boella L., Grammatica del sentire. Compassione, simpatia, empatia, CUEM, Milano 2004, p. 76.
    (32) Borgna E., L'arcipelago delle emozioni, op. cit., p. 194.
    (33) Hillesum E., Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985, p. 208.

    (Animazione sociale, 8-9 2007, pp. 74-80)


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