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    Dalla perfezione

    alla integrazione

    Paola Magna

     

    L'etimologia del termine «educare» (ex–ducere = trarre fuori) dice l’atteggiamento maieutico di far uscire dalla persona quelle risorse che ha già ma che forse non conosce pienamente.
    Non basta però educare. Si deve anche «formare», cioè proporre un modello, all’interno dell’antropologia cristiana, quale modo di essere che aiuti il consolidamento di un’identità anche secondo quello che ciascuno è chiamato ad essere. Gli ultimi decenni sembrano essere stati tempi di reticenza e ambiguità, se non di silenzio, sul contenuto di questi modelli. L’azione pedagogica è stata più di natura educativa che formativa: si è accontentata di richiamare ognuno al compito di conoscersi per «essere se stessi», rischiando di appiattirsi sull’orizzonte della realizzazione di sé senza aprire direzioni nuove che provocano le persone al livello più alto delle loro possibilità in un cammino liberante per l’attrazione ai valori.
    Possiamo dire che educare è dissodare il terreno, formare è immettervi la vitalità del seme, come forza prorompente di vita.

    Autotrascendenza come approccio antropologico

    Uno dei punti cruciali è quello di coniugare in modo corretto autorealizzazione e autotrascendenza. La realizzazione di sé comporta un’identità chiara e stabile, che permetta un amore giusto di sé, fondamentale per amare gli altri. Autorealizzarsi e accettarsi è necessario per l’appropriazione di sé, il che rende poi possibile il dono di sé. Nessuno può dare quello che non ha. Tuttavia l’autorealizzazione non è l’obiettivo finale della crescita, come insegna l’esempio di Gesù, il quale ha cercato la volontà del Padre e per questo si è realizzato come uomo in pienezza. Il movimento di andare al di là di noi stessi (=autotrascendenza) è fondamentale e primario, per poter tornare a noi stessi con occhi nuovi così da realizzarci pienamente.
    «Nell’opera educativa che accompagna la crescita umana, si corre continuamente il rischio di “predicare al vento” perché valori, anche di per sé giusti e ben fondati, finiscono di cadere nel vuoto, nel senso di non raggiungere il concreto del cuore umano. Oppure si corre il rischio di cercare all’infinito, come ciechi nella “selva oscura”, dei dati, perdendo oltre che il tempo, la via. Questo, anche perché i singoli passi non sono orientati nel quadro di un disegno più generale» [1]. Esiste infatti un logos che «non può esistere come separato, indipendente da quei singoli passi concreti, spesso umili e impercettibili» [2].
    Tutto questo fa parte della visione della persona come Mistero, dove il percepirsi come mistero comporta – in posizione non secondaria - anche l’esperienza d’insoddisfazione e solitudine. «L’insoddisfazione segna la persona come inquietudine fondamentale in tensione tra il riposo illusorio del piacere e quello irraggiungibile, almeno qui e ora, nel tempo, della felicità. Questo mistero rimane, per lo più, puramente vissuto, come implicito e dato per scontato» [3].
    In alcuni momenti o situazioni privilegiate, il senso del Mistero può svelarsi in modo particolarmente nuovo, sorprendente. In queste situazioni si vive una specie di rivelazione perché sono rivelatorie della trascendenza stessa della persona umana. Una di queste situazioni è la relazione, in forza della quale possiamo penetrare un po’ nel nostro «mistero» con l’apporto anche che ci viene dalle persone che incontriamo e che ci svelano qualcosa di noi. Il filosofo ebreo Buber, nella sua filosofia dialogica, ha delle bellissime pagine sulla relazione come reciprocità: «Il tu mi incontra per grazia» [4] e «così la relazione è al tempo stesso essere scelti e scegliere, patire e agire» [5], dove «ogni singolo tu è una breccia aperta sul Tu eterno» [6].

    Tre modelli formativi

    Possiamo definire un modello formativo come un disegno generale e nello stesso tempo specifico, che esprime l’obiettivo che si vuole raggiungere e come si intenda raggiungerlo, cioè le modalità e strategie di intervento. È un quadro teorico-pratico che risente dell’impostazione antropologica e teologica sottostante e, in secondo luogo del contesto socio-culturale in cui si sviluppa. Succede spesso che il punto di arrivo è ben conosciuto e ribadito, ma non sempre è altrettanto chiaro il modello di riferimento, cioè il punto di partenza, l’idea di persona umana e di cammino evolutivo.
    Chi conosce anche solo a grandi tratti la storia recente della psicologia può facilmente rintracciare in essa almeno tre prospettive diverse dalle quali considerare la persona umana, diverse perché diverso è il modo di descriverla nella sua natura e nei suoi fini [7]. Di conseguenza, le tre prospettive daranno luogo a tre diversi modelli formativi.
    Prospettiva pessimista: tutto è già determinato nella vita di ogni persona, non esiste libertà, né possibilità di cambiamento profondo. Ogni persona umana è negativa dentro di sé, agisce solo per interesse e per soddisfare se stessa. Ognuno deve continuamente difendersi, cercare di sopravvivere oppure l’ambiente esterno determina come sarà la vita di una persona.
    Prospettiva ottimista: la persona umana è totalmente buona e libera. È bene che esprima spontaneamente ciò che sente, dato che ella è misura di tutto e il suo fine è la realizzazione di sé.
    Prospettiva ottimista/realista: la persona è ferita nella sua dignità. Da sola, non riesce a darsi ciò che ricerca. Deve percorre una strada di progressiva liberazione che la apre gradualmente a ciò che è al di là e oltre di sé e nella cui relazione può realizzarsi. E questo né possibile con l’impegno personale e l’aiuto di altre persone.
    Se delle prime due prospettive si possono facilmente ritrovare tracce - rispettivamente - nell’antropologia psicoanalitica di Freud e in quella umanista di Rogers, la terza prospettiva richiama da vicino quella dell’antropologia cristiana. Si tratta infatti di una prospettiva di autotrascendenza che invita ad andare continuamente al di là di sé per realizzarsi veramente. Ciò, nel Vangelo, è esplicito: come Gesù, ognuno è chiamato a fare un dono di sé. Ma perché questo andare al di là di sé sia valido, positivo, efficace, occorre che alla base ci sia una conoscenza e accettazione di sé. Ciò permette di poter uscire da sé, rimanendo se stessi.
    Situandomi, ora, all’interno della prospettiva cristiana, vorrei proporre un particolare modo di intendere il modello della trascendenza. Quel modo che, di essa, sottolinea il dono di sé rispetto alla perfezione e la presenza attenta anziché saccente nel reale. Il che, però, presuppone che si faccia una formazione «integrata» [8].

    Dalla perfezione al dono

    L’invito «siate perfetti come è perfetto il Padre mio che sta nei cieli», parla della perfezione dell’Amore. Non di rado l’abbiamo travisato in invito alla perfezione di noi stessi. Quella perfezione che si rifà ad una concezione fondamentalmente individualista, che mira ad un obiettivo del tutto privato e basato sullo sforzo della singola persona. Oppure, il perfezionismo che pone degli ideali formativi spesso troppo alti, che non rispettano le reali possibilità dei singoli. E, ancora, una visione elitaria dell’essere cristiani cattolici che sottolinea le differenze e superiorità rispetto agli altri.
    L’attenzione pedagogica, in questi ultimi anni, per l’accettazione e realizzazione di sé ha avuto il merito di mettere in crisi tali travisamenti ma focalizzandosi principalmente sulle potenzialità individuali e sulla stima di sé è rimasta, di fatto, entro l’orbita dell’Io, secondo la suddetta prospettiva ottimista, perdendo così il concetto stesso di perfezione.
    Interpretare l’invito alla perfezione con la categoria del dono è completamente diverso e più evangelico: si sottolinea il dono della fede da parte di Dio, dono che va condiviso con altre persone credenti, per la costruzione del Regno. Si evidenzia di più l’atteggiamento del saper ricevere. Non si tratta più della conquista di un ideale perfetto da raggiungere con le sole proprie forze. L’obiettivo finale è la comunità dei credenti e non la perfezione della singola persona o la sua salvezza. La modalità esistenziale è la condivisione. Il soggetto della condivisione è la comunità cristiana, in quanto portatrice dello stesso dono, e la comunità umana più generale, con predilezione per i piccoli, i poveri, gli ultimi. Quindi, all’origine e al centro della perfezione c’è l’amore che viene da Dio, non lo sforzo della persona. Riferirsi al dono evoca più direttamente la logica evangelica del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt. 10,8).

    Da maestri in Israele a pellegrini nella fede

    Da quanto detto, viene di conseguenza un modo diverso di concepire il proprio rapporto con il mondo e la storia: dall’idea di sentirsi «i maestri in Israele», «i dottori della legge» e «i forti nella fede» alla convinzione di essere più semplicemente dei pellegrini nella fede.
    Cambia allora il modo di impostare la formazione.
    Alla sequela del Cristo, sappiamo che non c’è altro modo di vivere la fede al di fuori della «fatica del cammino»: quello del viandante nel deserto che vive la sua fede come un continuo pellegrinaggio, cammino imprevedibile ed esposto alle sorprese di Dio. Questo significa formare non a saper dare risposte giuste, sicure…, ma a saper essere dei credenti che ad ogni passo s’interrogano sulla direzione da prendere, discernono i segni dei tempi e si pongono in dialogo con la realtà circostante, consapevoli che Dio è nascosto anche nella storia delle persone e lì si lascia incontrare. È questo il peregrinare nella fede, di cui è grande esempio Maria. Per vivere questo modello dei pellegrini nella fede occorre essere capaci di ricevere e non solo di dare.
    A proposito della comunità cristiana, il card. Martini ha usato le immagini della città sul monte e del lievito nella pasta. Alla seconda è strettamente collegato il modello del pellegrino nella fede. Occorre abbandonare un atteggiamento di sufficienza e di superiorità nelle cose della fede, che metterebbe nella categoria dei sapienti e degli intelligenti, tagliandoci fuori da quella rivelazione che sappiamo riservata ai piccoli e ai poveri. Essere pellegrini nella fede e lievito nella pasta infine permette di farci più vicini alle persone, essere di più dei buoni samaritani che vedono, si fermano e aiutano chi ha bisogno.
    Tutto ciò comporta anche una differente e rinnovata visione del mondo e della storia: più globale e meno di parte, più positiva e meno manichea, una visione che recepisce valori e ricchezze della storia, della società, della cultura, visione che coglie il mondo come luogo della manifestazione e dell’incontro con il Signore.

    L’integrazione come approccio alla realtà e stile di vita

    Trascendersi nello spirito del dono e del pellegrinaggio presuppone che si faccia una formazione integrata perché è proprio a quei due atteggiamenti interiori che la formazione integrata mira e si ispira.
    Cencini descrive l’integrazione come «un cerchio o un movimento concentrico che ingloba e integra il reale attorno ad un punto centrale» [9]. A me piace anche l’immagine di due mani che formano un’unica figura, alternando le dita dell’una e dell’altra.
    Alla base del metodo integrato c’è la logica dell’Incarnazione: se Dio ha scelto di farsi uomo allora non si può isolare l’aspetto spirituale/religioso da quello umano/psicologico. Per essere più precisi, ciò che è autenticamente spirituale comprende ed integra anche l’umano.
    Per semplificare e soprattutto nei momenti di difficoltà e problema, la persona umana tende a dividere, separare, pensando di riuscire meglio ad affrontare la realtà (in momenti di stress o nella patologia ritorna nell’adulto una difesa tipica del bambino molto piccolo: lo splitting o scissione). Storicamente nella Chiesa si è separato lo spirituale dall’umano, forse come retaggio del dualismo greco anima/corpo. Nella Bibbia e nella cultura ebraica non è così. Fino a poco tempo fa, nelle comunità come anche nelle famiglie credenti, si è vissuto un approccio spiritualista, supportato da una visione teologica che concepiva la Grazia di Dio come unico artefice su una natura umana passiva e negativa (rassomigliante alla prospettiva pessimista accennata più sopra). Con lo sviluppo delle scienze umane è avvenuta una certa rivoluzione nell’approccio alla realtà, quindi anche alla fede e al rapporto tra la persona e Dio. Ecco aprirsi la prospettiva dell’ integrazione, pur sussistendo ancora nella Chiesa l’altra corrente della separazione tra l’umano e lo spirituale.
    Il concetto di integrazione evidenzia da un lato la funzione solo strumentale e non finale dell’accettazione di sé e dall’altro manifesta la sempre miglior intesa tra le scienze umane (in particolare la psicologia) e le discipline classiche della formazione spirituale.
    La persona che cammina verso l’integrazione cerca di enucleare, partendo da un centro vivo, da un’intuizione di base, da un valore, tutte le altre forze della sua affettività. Si propone di «far girare» tutti gli impulsi e le energie vitali attorno ad un polo centrale dominante e vivo.
    È come se la persona lavorasse su due fronti. Al centro, per ritrovare la propria identità in quel punto vitale, che ha il potere di attrarre e dare significato a tutto. Alla periferia per avvicinare sempre più ogni frammento del suo essere e del suo vivere a quel centro vitale. Tradotto in strategia educativa, ciò significa sollecitare la persona a lavorare in due fasi:
    √ la prima - negativa - implica la fatica della rinuncia, del saper dire di no alla parte di sé (bisogni e impulsi) che non va d’accordo con i valori scelti e amati.
    √ la seconda - positiva - coglie in quel contrasto e lotta un senso fondamentale della vita e del cammino di crescita. La persona se ne serve per riconoscere la propria povertà dinanzi a Dio e agli altri, per sperimentare quella misericordia che è all’origine della vita e di ogni relazione.
    La persona, così, sperimenta con gratitudine uno spazio libero per Dio, nato dalla lotta al proprio egocentrismo e dalla liberazione progressiva dai suoi sogni perfezionisti. Quella povertà, prima sofferta e combattuta, è ora scoperta ricca di senso e viene integrata nella propria vita: diventa allora una povertà offerta [10]. È un passaggio di crescita fondamentale: permette di diventare degli annunciatori del Vangelo della misericordia non come dottori della legge, maestri in Israele o superman/woman dello spirito… persone che hanno da insegnare agli altri con atteggiamento più o meno sottile di superiorità, ma come «guaritori feriti» con la consapevolezza piena e sofferta della propria debolezza. Sarà un’integrazione continua, in un processo di formazione permanente, il cui punto d’arrivo è l’atteggiamento di Paolo che si vanta delle proprie debolezze (cfr. 2 Cor. 12,10).
    Nel modello dell’integrazione, l’elemento decisivo è costituito dal polo centrale, interiorizzato e fatto proprio dal soggetto. Esso sostiene, fortifica la vita della persona e anche la provoca, proponendosi costante punto di riferimento e criterio di discernimento. Per noi, il polo centrale è la persona di Gesù, il suo mistero di morte e di resurrezione. A questa centralità cristologica deve corrispondere sempre più una centralità psicologica e psicopedagogica: è quel processo di ricapitolazione e rappacificazione di cui parla Paolo, che dura tutta la vita.

    Alcuni aspetti cruciali da integrare

    Vorrei ora ricordare brevemente alcuni aspetti importanti da integrare nella vita di ogni persona, anche in riferimento alla mentalità e cultura attuale:

    • il mondo del limite e quello del desiderio: ogni persona vive contemporaneamente in entrambi. Quello del limite ha un movimento centripeto: si va restringendo sempre più con l’avanzare degli anni, dall’onnipotenza infantile fino al punto massimo del limite umano della morte. Quello del desiderio invece ha un movimento centrifugo, fino all’espansione nell’Infinito dell’eternità. È importante nell’educazione tener sempre equilibrati i due mondi, in un’ottica realistica, che sa tenere insieme positivo e negativo, di sé, degli altri, della realtà…
    • le ambiguità del sistema motivazionale (bisogni/valori; ciò che si vuole essere/ciò che si è in realtà; l’influenza dell’inconscio [11]). Ogni percorso di crescita è segnato dalla purificazione delle motivazioni personali che sostengono le scelte vitali. Nei momenti di crisi è necessario ritornare alle motivazioni originarie della scelta fatta, per verificare che cosa è ancora valido e che cosa no… e assumerne poi le conseguenze nell’oggi.
    • la propria femminilità/mascolinità [12] oggi c’è un’urgenza educativa ad aiutare lo sviluppo di un’identità personale e di genere chiara. Questo prevede anche la rielaborazione delle esperienze familiari, spesso problematiche, nel processo d’identificazione del maschio con il padre e della femmina con la madre.
    • crisi e conflitti (saper integrare il negativo, la delusione rispetto alle aspettative): nel contesto culturale attuale sembra che fatica e sofferenza siano degli errori di percorso…[13] Nel percorso educativo invece va detto chiaramente che sono parte inevitabile della vita di ciascuna persona. La crisi diventa allora un’opportunità di crescita e il modo positivo di affrontare i conflitti approfondisce le relazioni e la capacità di collaborare in modo efficace.

    NOTE

    1 F. Imoda, Sviluppo umano: psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato (AL), 1993, p. 17.
    2 Ibid, p. 18.
    3 Ibid p. 33.
    4 Buber M. Il principio dialogico e altri saggi, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1997, p. 66.
    5 Ibid, p. 66; 113.
    6 Ibid, p. 111.
    7 Questi modelli sono stati ben analizzati nel volume ormai classico e più volte edito di S. Maddi, Personality theories: a comparative analysis, The Dorsey Press, Homewood Illinois, 1986.
    8 Adatto qui l’analisi fatta da A. Cencini sulla vita religiosa alla realtà più ampia di impegno formativo ecclesiale. Cfr. A. Cencini, Vocazioni dalla nostalgia alla profezia, Supplemento alla rivista Testimoni 20 (1989), EDB, Bologna, 1989.
    9 Cf Sintesi della relazione tenuta a Roma il 14/6/2003 all’incontro dei membri delle curie generalizie, in «Testimoni», 14 (2003), p.7.
    10 Cf M. Rondet, Dalla santità desiderata alla povertà offerta, in «Christus», 137 (1988), pp. 47-54.
    11 Cf P. Magna, Motivazioni vocazionali, in Dizionario di Pastorale Vocazionale, Ed. Rogate, Roma, 2002, pp. 740-745.
    12 Cf J. Gray, Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, Sonzogno, Roma, 2003.
    13 Cf Z. Bauman, La società individualizzata, Il Mulino, Milano 2002, cap. 12 Fede e gratificazione istantanea.


    (Tredimensioni 3(2006) 55-63)


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