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    Critica della

     

    Teologia politica 

    Intervista a Massimo Borghesi

    Lavanda-dei-piedi

    Proponiamo una riflessione indiretta sull’ultimo libro del Prof. Borghesi “Critica della teologia politica - Da Agostino a Peterson. La fine dell'era costantiniana”, mediante un’intervista a cura di del gruppo di “Cristiano-Sociali”. 


    DOMANDA: All’inizio del suo intervento al Meeting di Timini Lei dice, cito testualmente: “C’è chi nega Dio e c’è chi abusa di Dio. Che è il modo peggiore di negarlo.” Un’affermazione che richiama i fatti recenti del Medio Oriente e non solo. Può esplicitare per noi questo suo pensiero?

    RISPOSTA: L’abuso del nome di Dio è la cifra di ogni teologia politica. La teologia politica “usa” di Dio per accrescere il potere dell’uomo, la sua forza, la sua potenza. Dio è qui sinonimo di potere, è il potere che è “sacro”. Da un certo punto di vista la teologia politica è l’essenza del paganesimo, del “dio dei popoli”, e, in certo qual modo, del “dio degli eserciti”. In questo orizzonte la teologia diviene essenzialmente “politica”, non ha una sua autonomia o trascendenza rispetto al potere mondano, vive solo grazie al potere, è potere. Lo è, agostinianamente, perché è generata dal potere. Secondo l’Agostino della Città di Dio la civitas mundi precede i suoi dèi, prima viene la città, poi la religione. Il culto religioso è finalizzato a consacrare la potenza e il benessere dei regni umani. Per questo gli dèi sono interscambiabili: se perdono in battaglia non sono utili, meglio abbandonarli. Al contrario, per Agostino, la città di Dio nasce “da” Dio, è generata da Lui. Prima viene Dio, poi la civitas. Lei accennava al Medio Oriente. E’ evidente che nei Paesi dell’Islam siamo di fronte, in questo momento, ad un conflitto teologico-politico, ad un uso/abuso delle religione in funzione della dilatazione delle sfere di egemonia. La storica separazione tra sunniti e sciiti è al centro di un conflitto sanguinoso che vede, al suo interno, la distinzione tra un volto liberale dell’Islam ed un altro fortemente integralistico ed intollerante. 

    La teologia politica Lei dice – facendo eco all’analisi di Schmitt – ha bisogno di un nemico, di un avversario, di un dualismo, di una battaglia. In che modo, secondo Lei, la teologia politica ha strumentalizzato il dono del Concilio Vaticano II, sia tra i progressisti che tra i tradizionalisti? Quanto questa strumentalizzazione si riflette ancora oggi? 

    Massimo Borghesi: Direi che il Vaticano Secondo pone fine ad una dialettica teologico-politica, quella che è derivata dal modello del Sacrum imperium medievale,che si protrae dentro l’era moderna ed è causa, non secondaria, dell’aspetto violento che assumono le guerre di religione nell’ Europa cristiana. Un modello che non prevedeva la libertà religiosa e quindi era, per essenza, teologico-politico. Il Vaticano II ritorna al paradigma pre-teodosiano, quello che sta al centro dei Padri della Chiesa nei primi quattro secoli dell’era cristiana, un modello per il quale il cristianesimo richiedeva libertà religiosa per tutti senza accampare privilegi particolari da parte dell’autorità politica. Questo recupero della tradizione più antica, nei rapporti tra cristianesimo e potere, da parte del Concilio, è ciò che progressisti e tradizionalisti, da fronti opposti, non intendono. Per questo valutano il Concilio come una “rottura” con l’intera tradizione della Chiesa. Si tratta, però, di una lettura parziale che disconosce come il Vaticano II realizzi una critica della teologia politica proprio richiamandosi alla lezione del cristianesimo patristico precedente l’Editto di Tessalonica (380 d. C.) di Teodosio, quello che impone il cattolicesimo come unica religione per l’Impero. 

    D, Nel testo dell’allora Card. Ratzinger “Chiesa, ecumenismo e politica”, l’autore individua alcune radici da cui sale la minaccia alla democrazia oggi (1). Come preambolo viene detto che anzitutto c’è “incapacità di far amicizia con l’imperfezione delle cose umane”. Quanto questa incapacità è legata all’ideologia, alla teologia politica e alla visione del Diritto Positivo?

    R. C’è una teologia politica di destra, conservatrice, ed è quella che fa capo ai teorici della controrivoluzione dell’800: De Maistre, De Bonald, Donoso Cortés. E’ la versione pessimistica della teologia politica che assolutizza la figura del potere perché l’uomo è cattivo per natura. La sua ultima versione, in ordine di tempo, è quella del tedesco Carl Schmitt contro il quale Erik Peterson scrive, nel 1935, il suo Il monoteismo come problema politico. E poi c’è una versione di sinistra, quella che negli anni ’70, sotto l’influenza del marxismo, trova espressione nella teologia politica di Johann Baptist Metz e Jürgen Moltmann. La critica di Ratzinger si volge, in questo caso, contro questa seconda versione la quale, utopisticamente, ripone nel potere, in un nuovo potere, la speranza di una trasformazione della società e della natura dell’uomo. E’ il sogno utopico del mondo nuovo, compiutamente realizzato in terra che fa si che dalla politica ci si attenda un cambiamento che assomiglia ad una conversione religiosa. In questo senso la teologia politica non tollera l’imperfezione. Pretende di separare il grano dalla zizzania prima della fine del mondo. 

    D. Vi è poi l’idea – tutta adolescenziale – che ogni ideologia propone una visione straordinaria di progresso. Dice Ratzinger: “L’idea che tutta la storia passata è stata storia della “non libertà”ma che finalmente, ora, tra poco, si potrà o si dovrà costituire la società giusta”(2). Quanto è solleticante ed ingannevole la teologia politica?

    R. Questa idea, come accennavo, appartiene alla variante di sinistra della teologia politica. Va detto, comunque, che la teologia politica si attiva solo in funzione di un avversario, di un nemico. In ciò Carl Schmitt, il teorico della teologia politica nel ‘900, ha perfettamente ragione. Per questo non c’è uso politico della religione se non ci sono nemici. Lo si è visto dopo l’89: l’era della globalizzazione, una volta sconfitto il comunismo, non ha più bisogno della consacrazione religiosa. Il capitalismo degli anni ’80-’90 non sa che farsene della religione. Questa torna utile dopo l’11 settembre 2011, nello scontro di civiltà che divide l’Occidente teocon dall’islamismo radicale. La disastrosa guerra in Iraq segna la crisi, almeno in Occidente, di questa prospettiva. Oggi l’Europa non è dominata da teologie politiche ma da un nichilismo diffuso che dubita fortemente riguardo al proprio avvenire. Il dramma è che non sa opporre alle teologie politiche che insanguinano il Medio Oriente e il Nord Africa altro che il proprio scetticismo.

    D. Nel mito del “mondo migliore” c’è il fondamento del materialismo come negazione della realtà e rivoluzione antropologica e dell’essere. Quanto, secondo Lei, “l’allarme omofobia” è ritmato dalla teologia politica e dalla negazione del Diritto Naturale?

    R. Il materialismo è, in realtà, il contraccolpo del fallimento del mito del mondo nuovo. Abbandonata la dialettica qualitativa rimane solo lo storicismo integrale connotato naturalisticamente. Si tratta di una natura post-darwiniana per la quale non esiste più “natura”, cioè una forma ideale dell’uomo in senso classico. Di conseguenza non ha senso parlare di diritto “naturale”. Il relativismo odierno, inteso come assolutizzazione del divenire, è il prodotto della decomposizione del marxismo. Un processo che, però, non ha nulla a che fare con la teologia politica. 

    D. La “assolutizzazione del divenire” non diventa esso stesso un assoluto, una religione pagana e che quindi per “imporsi” necessita di strumenti di sacralizzazione? 
    Non avviene forse un connubio di “teologia-politica”, non in senso classico tra religione-e-potere, ma tra ideologia (come nuova religione) e potere? 
    Cioè la nuova religione dell’
    assolutizzazione del divenire non usa strumenti di prepotenza trasformando il “Dio lo vuole” con “il Divenire, il “Mondo Migliore” lo vuole”? 
    Il relativismo, il politicamente corretto, non sono forse conseguenze di questo “Assoluto del Divenire”?


    R. Distinguerei tra teologia politica e relativismo contemporaneo. Il relativismo odierno si manifesta a partire da un naturalismo integrale in cui il piano dei valori è stabilito a partire dalla “qualità” della vita, dal livello di benessere economico-biologico reso possibile dal progresso bio-medico e dagli standards sociali. Quando questo livello non è raggiunto la vita non è più meritevole di essere vissuta. Dietro a ciò v’è la rimozione degli aspetti drammatici dell’esistere, aspetti che una società profondamente secolarizzata come la nostra non è in grado di sopportare. Il naturalismo in questione non rappresenta, però, una forma di teologia politica ma l’esito della sua dissoluzione, della dissoluzione del marxismo che, fino al 1989, ha costituito la fede secolare per milioni di uomini nel mondo. Abbandonato il materialismo dialettico, cioè la fede in un avvenire radioso, è rimasto il materialismo storico, cioè la radicale relativizzazione di tutti i valori. Il nichilismo contemporaneo è il contraccolpo di una grande speranza non avverata, il prodotto del fallimento di una teologia politica. 

    D. Sempre Ratzinger in “Chiesa ecumenismo e politica” (3) affronta il tema dell’autocritica nell’ambito del cristianesimo. Sembra che il marxismo ed ogni ideologia possano prendere piede solo dopo che il cristianesimo ha dissolto le religioni tradizionali. E’ come se l’annuncio del Vangelo che perde il suo anelito alla trascendenza finisse per preparare la scimmiottatura che le ideologie danno della “Civitas Dei”.

    R. La teologia politica non rappresenta un ramo della teologia, essa è una forma della secolarizzazione, cioè della mondanizzazione della fede. La confusione sorge dal fatto che non si distingue, abitualmente, tra teologia politica e teologia “della” politica. La teologia della politica implica la trascendenza del momento teologico su quello politico; essa si occupa della dimensione politica in funzione del bene della “civitas”. Il suo, però, è un rapporto indiretto. La Chiesa non interviene direttamente sulla politica, lo Stato, ecc. Essa opera attraverso una mediazione etica, giuridica, senza la pretesa che le leggi civili coincidano pienamente con l’etica cristiana. La teologia politica, al contrario, opera direttamente. Essa abbisogna del potere per essere. E questo sia nella sua versione di destra, in cui la Chiesa diviene Chiesa di Stato e lo Stato diviene confessionale, sia in quella di sinistra in cui la Chiesa diviene, come in Metz, il soggetto perennemente “critico” delle istituzioni mondane, una sorta di contropotere permanente. 

    D. Ne “Il cuore e la grazia in Sant’Agostino”, Don Giacomo Tantardini commenta un passaggio focale del De Vera Religione inerente al peccato originale: “.. gli uomini, per il peccato originale..se non domandano di rimanere nella Grazia, diventano schiavi della lussuria, dell’usura e del potere”(4). La “pompa”, la Vanità non è forse il rischio perenne di ogni politico, soprattutto quando, velato da buonismo, da politicamente corretto, e che sfocia nella “teologia politica”? E quanto, in questo, ci sono da esempio la “rinuncia” di Ratzinger e il papato "evangelico" di Bergoglio? 
    L’umiltà come via necessaria al potere?


    D. Nel suo testo edito da Città Nuova, don Giacomo Tantardini, finissimo interprete di S. Agostino, interpreta la Grazia come un’”attrattiva”, un potere che, quando è accolto, sa essere più forte di ogni potere del mondo. La Grazia è il vero contropotere. Per questo il suo frutto è la humilitas. La scelta inaudita di Papa Benedetto, con la sua rinunzia al pontificato, assume, da questo punto di vista, un valore epocale. Benedetto XVI è il Papa che ha iniziato il suo pontificato con il mandato di opporsi alla “sporcizia nella Chiesa”, cioè a quella mondanizzazione-burocratizzazione che ha caratterizzato la vita ecclesiale nel corso degli ultimi trent’anni. Teologia politica, in questo caso, ha significato clericalismo, uso spregiudicato del potere in funzione delle carriere. E’ qui che si situa il filo rosso che, al di là della diversità degli stili, unisce il pontificato di Benedetto a quello di Francesco.

    D. La fatica dell’incarnazione, è un dono eminente della Grazia e, credo, la vera dissoluzione della “teologia politica”. Né immanentismo, né gnosi. Quanto secondo Lei l’incontro e l’esperienza con il Verbo fatto carne è determinante per un cattolico in politica?

    R. E’ un incontro “attuale” con l’Avvenimento cristiano, cioè con una testimonianza umanamente credibile della fede che può dissolvere la presa teologico-politica. Altrimenti l’uso politico della religione, da parte di credenti o non credenti, appare quasi inevitabile. 

    D. “Alla tua luce vediamo la luce”. Il tema dell’illuminazione, agostiniano prima (nell’ordine della grazia) e bonaventuriano poi (nell’ordine della conoscenza), sembra un apporto decisivo che il cristiano può dare alla riscoperta e alla ricostruzione del tessuto della grammatica fondante i principi e i valori naturali. Come procedere secondo Lei su questo terreno difficile oggi?

    R. Penso che oggi l’evidenza di cosa sia la “natura” possa tornare ad essere manifesta solo a partire dall’esperienza di ciò che significa “grazia”. La babele dei linguaggi è così potente che il lavoro (necessario) della ragione non è sufficiente a diradare il campo. Per questo la testimonianza di questo Papa è così importante, perché restituisce visibilmente, per milioni di uomini, la dimensione evangelica. La restituisce nei gesti prima ancora che nelle parole. In tal modo, dentro un’affezione comprensiva dell’umano, rende manifesto il livello della vita , della dignità della vita, a cui ogni uomo è chiamato.


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