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    Con quali parole

    dire oggi educazione?

    Appunti per una ricerca
    dell'«educarsi» tra generazioni
    A cura di Franco Floris *

    Siamo un gruppo di una ventina di persone, tra educatori, pedagogisti e docenti di pedagogia. Ci siamo incontrati, provenendo da diverse città e regioni, mossi da alcune domande e preoccupazioni intorno all'educare, convinti che se oggi si ponga una questione educativa occorre parlarne cercando di andare oltre stereotipi e attese improprie. Da parte nostra ci stiamo riflettendo in incontri periodici, al punto che dopo un paio di giornate di lavoro sentiamo il bisogno di allargare il giro e condividere con altri i primi «appunti» intorno alla domanda: «Tornare a educare, ma a quale educazione?». Proponiamo perciò che di tale questione non si parli solo fra esperti in un qualche convegno, ma fra i cittadini, attraverso forme variegate di dialogo-ricerca partecipata che indichiamo come «laboratorio» in cui, posto un problema o un interrogativo, i partecipanti con i loro saperi (esperienziali e scientifici) si fanno co-ricercatori.
    Sono due gli inviti che avanziamo con queste pagine. Anzitutto, un invito ad avviare un pubblico dibattito sulla sorte dell'educare oggi. I motivi per farlo non mancano, anche per chi come noi intende evitare un eccesso di drammatizzazione ma anche di banalizzazione a fronte delle fatiche dei ragazzi e degli adolescenti. In secondo luogo, un invito ad attivare la stessa discussione nelle comunità locali attraverso «laboratori».
    A servizio di questi due inviti la rivista si propone come luogo di scambio dei prodotti e di confronto sui processi di ricerca partecipata. Di una cosa, lo diciamo subito, siamo consapevoli e la consideriamo una premessa irrinunciabile: più che riflettere sull'educare i giovani, oggi è prioritario riflettere sull'educarsi tra adulti, non meno che tra adulti e giovani. In tale senso rimane un punto fermo l'affermazione di Paulo Freire, ben conosciuta, secondo cui «nessuno educa nessuno, nessuno educa se stesso, ci si educa insieme».

    Una duplice insoddisfazione

    Sia tra gli educatori sul campo sía fra gli studiosi di pedagogia si sente una duplice insoddisfazione che nasce dalla considerazione che le «parole di ieri» (non di un passato lontano) non ci bastano, pur essendo spesso care a noi, mentre alcune «nuove parole» oggi in circolazione ci lasciano perplessi e ci preoccupano.

    L'insoddisfazione per alcune «nuove parole»

    Cominciamo da quest'ultimo aspetto. Ci sembra che, per non pochi versi, stia soffiando un vento anti-educativo che porta a sognare un passato remoto con volontà restauratrice di regole formali, sanzioni e punizioni, controllo anche telematico ed esclusioni che finiscono per tacitare le coscienze mentre si abbandonano i giovani a un'avventura solitaria. L'intento sarebbe di essere chiari, di fare ordine, di non venir meno al ruolo di adulti. Ottime intenzioni a volte, come quando si parla di ritrovamento del senso di autorità e della legalità, ma che mettono in luce un problema grave. Non si riconosce, infatti, dignità ai movimenti culturali in atto né al fatto che i ragazzi sono attori della propria educazione. Fanno errori, ma rimangono educatori di se stessi e dunque persone e gruppi con cui dialogare e con cui allearsi in vista del loro bene e del bene comune. Perché ridurli a barbari da tenere al confine o ridurre l'educazione al pur necessario controllo sociale?
    Non neghiamo l'importanza delle regole, ma vogliamo attirare l'attenzione su quel che c'è da fare e da costruire non appena le regole del gioco sono state fissate. E la partita, lo sappiamo, non sono le regole. Si parla di norme, mentre ai giovani e a noi stessi nascondiamo il gioco cui stiamo giocando. In realtà manca una riflessione sul come costruirle insieme.
    Il rifugio nelle norme sembra più a protezione dell'adulto (pronto a dire: «La nostra parte l'abbiamo fatta»), che non a favore di un dialogo con le nuove generazioni e dunque tra mondi culturali in parte diversi. Dietro il richiamo alle regole intravediamo adulti che si giustificano, piuttosto che adulti desiderosi di fare un pezzo di strada con i giovani. Come negare che molti insegnanti ed educatori si danno solo entro rapporti formali, che escludono (per una comprensibile paura o ansia di non farcela?) un riconoscimento reciproco e uno scambio che non sia quello sui contenuti disciplinari?
    Il rischio, in questa direzione, è limitarsi a punire ed escludere chi non sta alle regole, mentre si elogia chi si sottomette all'adulto o si identifica passivamente nel mondo esistente. E così abbiamo un crescere angosciante di approcci che portano con sé il segno dell'esclusione di chi non è «adeguato».
    Per non pochi versi siamo dunque insoddisfatti della piega che hanno preso molti processi. Anche perché emerge un paradigma tutt'altro che facile da sciogliere, quello dell'approccio educativo centrato quasi unicamente sul singolo. La colpa è di chi sbaglia, si dice, che deve pertanto assumersi le sue responsabilità e, se non se le assume, va punito, a volte escluso, abbandonato a
    se stesso. Talvolta con i toni vendicativi di un adulto che si sente minacciato, messo in discussione, anche quando in realtà ciò che emerge è la fatica degli adolescenti, la loro inconcludenza nell'affrontare i compiti di sviluppo, cui conseguono demotivazione, insofferenza, vandalismo.
    Da parte nostra, per ricorrere a un proverbio africano ben conosciuto, ma rovesciandolo, diciamo che se per tirare su un ragazzo ci vuole un intero villaggio, senza un buon villaggio un ragazzo fatica a divenire adulto. La sorte del villaggio e la sorte del ragazzo vanno di pari passo, nel senso che le incongruenze del villaggio ricadono sul singolo ragazzo, il quale finisce per pagare anche per responsabilità non sue. Come negare che molte delle tendenze a colpevolizzare il singolo, psicologizzare i problemi, individuare capri espiatori, nascono dal non riconoscere che molti problemi dei ragazzi sono prodotti da virus sociali e culturali in circolazione? Eppure, in questi anni, attraverso mille specializzazioni, abbiamo preteso di curare e rieducare, con logica ortopedica, i problemi del singolo attraverso interventi incentrati su di lui e, prima ancora, attraverso letture che vedono la «malattia» come qualcosa che emerge dal di dentro del singolo e non anche come sintomo di un malessere sociale. Entro il quale va certo ritrovata anche la responsabilità personale, poiché riconosciamo che nessun sistema sociale distrugge del tutto la libertà del ragazzo.

    Parole di ieri, che non scaldano più il cuore

    Ma c'è una seconda forma di insoddisfazione che serpeggia: il riconoscere l'insufficienza, se non il fallimento, di processi e azioni ispirati a parole che oggi sono ancora in circolazione, ma che spesso (senza affatto generalizzare) risultano infeconde nell'animare la passione degli adulti, ma soprattutto la motivazione dei giovani a farsi educatori di se stessi senza troppi sconti.
    Parole come protagonismo e partecipazione, empatia e dialogo, esaltazione del gruppo e della tolleranza, elogio della differenza al punto che non c'è possibilità di comunanze, oggi faticano a orientarci nell'educare. Parole a volte logore, che non tengono conto di come si sono evolute le culture giovanili, adattandosi o reagendo positivamente, nella società della competitività, dell'esclusione di chi non è della propria tribù, del consumo onnivoro.
    Alcuni si sono chiesti se, mentre ci rifugiavamo in tali parole, noi educatori in questi anni non siamo stati paradossalmente complici del narcisismo, della distruttività, dell'apatia creativa, del razzismo infestante, della collusione con l'illegalità.
    La società dei consumi e della competitività ha capovolto, infatti, il significato di molte parole di educatori e ha influenzato, in modi leggeri o pesanti, alcune fasce giovanili, utilizzandole per assoggettarle, per mistificare le loro attese profonde, per renderle socialmente e culturalmente passive. In questo la società dei consumi ha potuto far leva su un altro aspetto che ha svuotato di senso molto del linguaggio educativo e cioè la mancanza di una prospettiva futura, la mancanza della possibilità stessa di pensarsi in termini progettuali oltre il domani e il dopodomani. L'accorciarsi della progettualità temporale ha consegnato a volte i giovani al «naufragar m'è dolce in questo mare», sfuggendo alla responsabilità. Anche se, come vedremo, non per questo i giovani hanno rinunciato a una progettualità a prima vista di corto respiro, ma feconda nell'orientarsi dentro le contraddizioni.
    Forse i giovani sono stati chiusi in riserve da una società che non ha bisogno di loro per lavorare e dunque per costruire futuro. A loro sono riservati i mondi finzionali del divertimento nel tempo libero e dell'educazione (la scuola e l'università sono un parcheggio?). Agli educatori il «mandato» di esercitarli in compiti che non hanno vera importanza rispetto alle sfide della società (lavoro, scuola, cultura, diritti, politica) in cui i giovani dovrebbero essere ingaggiati. Le «nuove parole» rischiano di essere vuote, impalpabili, infeconde, dato che chiedono a una generazione di scaldarsi a bordo campo senza la possibilità di giocare la partita. Le nostre non sembrano più parole che risvegliano interesse e passione chiamata alla responsabilità, passione civica.

    Alla ricerca di parole «altre»

    E dunque ci mancano le parole, parole «altre». Non è un problema di fantasia: il nodo è radicale e nasce dalla fatica di vivere il tempo da educatori per cogliere al suo interno, prima ancora che tra i giovani, «temi generatori» di un futuro sui quali investire. Ci manca un orizzonte, ma non può essere disegnato a tavolino.
    Forse agli educatori manca la speranza che permette di entrare in contatto con le intuizioni – questa è la nostra scommessa – che stanno lievitando in molti esperimenti educativi. L'educazione non si riscopre dialogando fra educatori, ma sintonizzandosi con la ricerca culturale e antropologica che è in atto in molti luoghi della società. Una ricerca a volte debole e confusa, a tratti incalzante e robusta, capace di generare intuizioni che vanno assunte con attenzione e rielaborate criticamente per mettere insieme le voci di un nuovo vocabolario dell'educare.

    Che ne è dello sguardo educativo?

    Dietro molti modi di agire viene spesso a mancare quel che chiamiamo lo sguardo educativo, un particolare modo di leggere le realtà giovanili dentro la società.

    Due sguardi privi di prospettiva

    Ci sembra importante, in primo luogo, prendere le distanze da sguardi privi di prospettiva educativa.
    • Lo sguardo di chi drammatizza: un primo sguardo ci sembra quello della drammatizzazione, che si limita a evidenziare problemi, incoerenze, fallimenti, demotivazione, consumo di sostanze legali e illegali, individualismo e tribalismo, il «tutto e subito». Non si possono negare i problemi, ma il nostro interrogativo riguarda piuttosto l'insieme degli atteggiamenti con cui noi adulti ci poniamo di fronte ai vissuti delle nuove generazioni. In fondo, in loro non riconosciamo più il nostro mondo. Non senza ragione, a volte siamo perplessi su certi modi di pensare e agire, anche perché per certi versi la loro libertà sembra solo quella di muoversi entro confini eretti dalla società dei consumi. Più che barbari che ci hanno invaso, sono emarginati che abitano le nostre case, piazze e scuole, ecc. Con l'angoscia nostra di adulti di non riuscire a offrire loro il patrimonio culturale per far fronte alle sfide che incontrano e la cui risposta non è già data.
    Spesso riemerge però un adulto-centrismo, che porta a essere giudicanti ogni volta che il nostro modo di interpretare la cultura non viene replicato dai giovani.
    A tratti sembra che abbiamo smarrito l'idea stessa che la cultura umana oggi possa realizzare nuovi modelli di vita, pieni di dignità, anche se in parte diversi dal nostro.
    Quanto detto porta l'adulto a farsi silenzioso, a non credere nei giovani senza sapere che cosa dire. E lo porta a farsi acido e invasivo, con logiche suasive o autoritarie nel vendere una particolare interpretazione della cultura.
    Preoccupa la semplificazione nel leggere i problemi e l'incapacità di scorgere nel nostro tempo possibilità di futuro.
    • Lo sguardo di chi semplifica: un secondo sguardo è quello che, critico e insoddisfatto, incapace di dare senso al proprio vivere dentro l'attuale società verso la quale si è critici, si posa sui giovani con benevola comprensione verso i loro errori e problemi fino a banalizzarli (giustificarli), con enfasi semplificatorie sulle risorse dei giovani, che sollecitano a estrarre da loro le intuizioni con un atteggiamento maieutico, a coltivare semi germogliati a partire dai loro bisogni dentro l'attuale humus culturale. Un approccio, a nostro avviso, che non rende ragione del sottrarsi da parte degli adolescenti alle domande profonde, alla ricerca sofferta e, a volte, confusa e inconcludente di modi di vivere che abbiano senso. E così gli adulti si pongono a servizio di bisogni immediati, ma tacendo perché non si crede di avere più nulla da mettere in gioco. Torna forse il mito del buon selvaggio, mentre l'educatore si riduce a macchina self-service?

    Cosa caratterizza uno sguardo educativo?

    Cosa vuol dire mettere in gioco uno sguardo educativo con le nuove generazioni? E cosa vuol dire entrare con uno sguardo educativo nell'oggi? Non si può avere uno sguardo educativo sui giovani, se non si posa lo stesso sguardo sulla società, convinti che, in un mondo in rapida evoluzione, occorra disporsi nel circolo che dalla «cultura già fatta» porta alla «cultura da fare» e viceversa.
    Da questo punto di vista uno sguardo educativo si posa sulle intuizioni e imprese da valorizzare, ma anche sul riconoscimento delle faglie, delle scissure, delle contraddizioni viste come cantiere di lavoro, come uno spazio in cui costruire, anzi co-costruire. Lo sguardo educativo – per dirla con l'espressione del Vangelo – tende a «separare il grano buono dalla zizzania», facendo attenzione – per ricorrere questa volta al noto proverbio inglese – a «non buttare via il bambino insieme all'acqua sporca». Come dunque discernere nella cultura gli elementi vitali irrinunciabili e come cogliere tra i giovani intuizioni altrettanto vitali, senza negare le incongruenze ma evitando di posare lo sguardo solo su di esse?
    Il presupposto è che in ogni situazione rimane una libertà irriducibile che permette a ogni uomo e giovane di non percepirsi determinato dall'esistente, ma di poter pensare altro, immaginare altro e agire altro per dare senso alla propria avventura dentro la storia. Uno sguardo educativo, pertanto, non nasconde i problemi e le patologie, ma sa che non è nella prospettiva ortopedica (tesa a raddrizzare e fornire stampelle), che si può costruire il futuro, piuttosto attraverso la valorizzazione della tensione al bene e al bello e delle intuizioni (per quanto deboli e parziali) rispetto alla domanda sul per cosa valga la pena spendersi oggi.
    Lo sguardo educativo permette di scorgere la possibilità che giovani e adulti, vivendo nello stesso cantiere sociale e culturale attraversato dagli stessi macrofenomeni, lavorino insieme alla ricerca di risposte a domande che per molti versi sono comuni. Forse avere uno sguardo educativo oggi è intravedere che adulti e giovani possono essere co-ricercatori, dentro una ricerca in cui i saperi culturali offerti dagli adulti si mettono in discussione per non imporre il proprio modello di vita, mentre sono disponibili a mettere in gioco le grandi e irrinunciabili intuizioni della cultura umana. Lo stesso sguardo ai giovani chiede di scommettere non solo sulle loro domande e intuizioni generatrici, ma anche di intraprendere un percorso impegnativo per alimentare nuove forme di vita, in continuità/ discontinuità con le precedenti.
    Uno sguardo è educativo se apre le diverse storie personali e situazioni sociali al cambiamento e, più da vicino, a una co-evoluzione degli adulti e dei giovani, come delle diverse culture che abitano lo stesso territorio.

    Coniugare intra e intergenerazionale

    L'esercizio dello sguardo educativo è messo in scacco da qualcosa di più che un grave pericolo ed è la chiusura ad intra che si manifesta come intra-generazione, intra-cultura, intra-persona.
    Là dove ci si chiude in mondi-intra, l'educazione avvizzisce perché essa si nutre dello scambio circolare tra mondi, dell'apprendimento reciproco. È quel che, per certi versi almeno, sta succedendo. A scuola come in famiglia, negli oratori come nelle associazioni di volontariato, abbiamo un eccesso di separazione tra mondo adulto e mondo dei giovani. Mondi troppo chiusi, che non scommettono sullo scambio che potrebbe rigenerare entrambi. Giovani e adulti, per mille ragioni, non condividono lo stesso viaggio che permetterebbe di educarsi oscillando giorno dopo giorno tra identificazione e separazione, per convergere su beni che possono essere perseguiti solo insieme. E invece, pur abitando gli stessi spazi, si possono vivere «vite parallele» e ci si evolve solo attraverso il dialogo ad intra.
    Si vive l'orizzontalità, in assenza di verticalità e viceversa. La velocizzazione dei ritmi di vita, la possibilità di movimento e consumo, il vivere dentro molti gruppi orizzontali portano ognuno da una parte a una grande libertà, ma anche alla solitudine sia intra che inter (inter-generazionale, inter-culturale). Si vive dentro tribù adulte e dentro tribù giovani, dove si rischia di non misurarsi su questioni non risolvibili da una sola generazione. E di non trovare risposte profonde per quanto parziali, rispetto alle domande sempre aperte e brucianti sulla sofferenza, la giustizia, l'affettività, la libertà, la pace, la morte, il desiderio, i vincoli, il futuro, la responsabilità.
    Il problema ha un duplice volto. Da una parte l'impoverimento culturale, cioè la fatica nel produrre significati che aprano varchi sul futuro, dall'altra l'impossibilità di porre al centro le sfide della società che attendono giovani e adulti. E dunque verso dove andare per spezzare il tribalismo degli adulti, non meno che quello dei giovani?

    Un condiviso disinteresse per le sorti del mondo?

    Il vero nodo sembra essere una sorta di disinteresse per le sorti del mondo, o meglio di assoggettamento all'idea che le sorti del mondo siano decise in un qualche altrove. Il mancato scambio tra generazioni porta a non amare a sufficienza il mondo, a non averne cura come compito irrinunciabile per adulti e giovani. L'intergenerazionalità, più nel guardarsi tra generazioni, si esprime nel guardare insieme il mondo e chiedersi come averne cura. Sono le sfide della vita il terreno di incontro. Giovani e adulti hanno in comune molte più preoccupazioni, domande, ipotesi, di quel che solitamente si pensa.
    Adulti e giovani si trincerano spesso dietro un'esaltazione delle differenze che si manifesta, per molti versi, bugiarda. Esaltare la differenza fra persone, tra generazioni, tra culture, porta ad aggrapparsi al proprio mondo, alla propria filosofia della vita, alla propria tribù. Non c'è la possibilità di immaginare altro e di intraprendere altro. Rimane così sottaciuto, se non negato, che tutti abbiamo da rispondere alla stessa domanda: «Per quale uomo e per quale società metterci in gioco?».

    Se il nodo è lo scambio, cambia il compito di chi educa

    Se il nodo è lo scambio, si modifica anche il compito dell'educazione, chiamata a porsi come mediatrice culturale, operatrice «tra» culture, ponte tra tribù, facilitatrice di dialogo tra modelli di vita come tra modelli di sviluppo. La sua funzione è tenere saldo il «tra» e stare in quella posizione che permette agli attori in gioco di passare dalla difesa gelosa allo scambio generoso.
    In questi anni quanti educano le nuove generazioni, dopo aver preso le distanze dal lavorare «sui» giovani, si sono immersi nel lavoro «con» i giovani.
    Tuttavia questo è successo, con un impoverimento anche grave, ogni qualvolta hanno posto al centro dell'educare la relazione interpersonale tra educatore e giovani (da soli o in gruppo non importa) facendo leva sull'empatia, sul clima emotivo, sul progettare e fare insieme, ma in fondo senza uscire dal rischio del tribalismo, anzi accettando dalla società una sorta di delega alle tribù giovanili.
    Che cosa può voler dire l'intuizione che l'educatore lavora sull'inter, sul tra, sullo scambio, sui riconoscimenti tra mondi diversi, sull'intreccio tra differenze e comunanze, fino a trovare che abbiamo domande comuni a cui nessuno è in grado di rispondere e che riguardano il senso delle cose che stiamo vivendo e il come vivere dentro le contraddizioni del tempo fino a individuare sentieri di futuro?
    Porsi «tra» non può essere una forma di onnipotenza che prende forma nell'accettare come educatori la «delega alle tribù» che chiude nella relazione educatori/giovani come principale e unico luogo educativo, al punto da pensare l'atto educativo come influenzamento più o meno carismatico. Rimanda, piuttosto, a un agire che lavora fedele al detto di Paulo Freire secondo cui «ci si educa insieme». Compito dell'educatore è fare spazio agli scambi tra generazioni, culture, stili di vita, esperienze dentro il mondo, ma anche oltre il mondo in cui si vive. Creare situazioni «tra» è il compito di un educatore che si pone, dicevamo, non come la risposta ai problemi, ma come accompagnatore in viaggi tra, soprattutto là dove tendono a prevalere il tribalismo, la rigidità delle culture, l'autocentratura delle organizzazioni. Certo, in un tempo di esposizione incontrollata alle esperienze, tocca all'educatore allestire spazi di incontro e di scambio in cui i giovani possano mettersi in gioco, ma anche organizzare momenti di rielaborazione di tutti i «tra» che si vivono quotidianamente.

    Il confronto con i «profeti» dell'uomo e della giustizia

    A guardare bene, oggi più di ieri, i giovani hanno da incontrarsi/scontrarsi con persone/esperienze che si presentano come testimoni credibili, interpreti lucidi, «profeti» nel nostro tempo, poiché con la loro presenza, passione, parola concorrente possono perturbare e rimettere in discussione il modo di essere nella società e la società stessa, con le sue miopie, i suoi tradimenti e le sue ingiustizie, fino a riaprire la «prospettiva» entro cui collocarsi. Non c'è educazione se non ci si incontra, in certi momenti dell'adolescenza e giovinezza, con chi riesce a indicare dove e come il cerchio dell'assoggettamento possa essere spezzato e, di conseguenza, permette di gustare il sapore della vita e della libertà responsabile.
    Adulti e giovani possono essere provocati e messi in ricerca dai grandi testimoni dell'umanità (come singoli o come esperienze profetiche) che riescono a farsi carico della domanda «per quale uomo e per quale società?» e a offrire suggestioni che rilanciano la ricerca partecipata di risposte
    alle sfide del nostro tempo. Riconoscere che alcuni uomini e donne, anche alcuni micro-movimenti e reti sociali, ce la stanno facendo meglio di altri a costruire piccole ma significative imprese oltre l'esistente, porta a pensare che educare non è solo parlarci tra di noi, ma lasciarci sollecitare sempre da capo da sguardi profetici per ritrovare un'incondizionata fede nell'uomo, un'utopia e una speranza.

    Ma quale adulto può dirsi educatore?

    È decisivo re-interrogarsi sul compito dell'adulto/educatore. O meglio, sulla vocazione educativa di ogni adulto, professionista o meno.
    Si è in tanti a dire – non senza semplificazioni – che la crisi è anzitutto dell'adulto, a cominciare dal padre e dalla madre. Non ci si può non interrogare su questa affermazione, in quanto rischia di giustificare l'irresponsabilità, la delega, la consegna delle nuove generazioni agli specialisti psico-clinici o agli educatori chiusi nell'intrarelazionale.
    Sappiamo che non esiste l'adulto, ma molti modelli di adulto, eppure, ai fini della nostra riflessione, possono essere rintracciati alcuni veloci ritratti. Un adulto che ondeggia fra depressione e vitalismo adolescenziale, tra rinuncia e autoritarismo. Un adulto che si chiude nel mutismo o pretende di sapere e imporre tutto... È comprensibile questa varietà di interpretazioni della funzione in un mondo complesso, difficile da decifrare, incerto sul suo domani.

    Un adulto «vulnerabile» è una risorsa educativa

    Da parte nostra abbiamo parlato più volte di un adulto «vulnerabile», indebolito, a volte stretto da preoccupazioni, ma non abbiamo intravisto nella vulnerabilità un peso, piuttosto un'inedita possibilità per ripensare l'adulto e il suo compito. L'adulto che riconosce la sua vulnerabilità e la utilizza come punto di partenza per il suo camminare nella vita, da solo e con i giovani, è un adulto, a nostro avviso, potenzialmente tessitore di nuove parole e di nuovi atteggiamenti per animare la vita, al contrario di chi ostenta troppe certezze o, viceversa, è annichilito da un muto sconforto.
    Un adulto che riconosce di non avere tutte le risposte, ma apre a un diverso modo di stare nel quotidiano, incuriosito e rispettoso dei diversi punti di vista, disponibile all'ascolto, attento al nuovo senza ingenuità, acuto nell'intravedere ipotesi creative nel leggere e nel progettare, lucido nel vedere i problemi delle persone dentro l'ambiente in cui vivono e da cui sono a volte appesantite se non sopraffatte. Un adulto che si interroga, ricerca dei varchi. Un adulto meno autoritario, forse píù autorevole nella sua capacità di non sottrarsi ai problemi e di non lasciarsi sommergere da loro.
    Un adulto, più da vicino, interessato ai giovani e disponibile al dialogo, tutt'altro che complice con le loro inconcludenze, per non tradirli nella loro ricerca. Un adulto non autoreferenziale, non autosufficiente, disposto ad apprendere dai giovani non solo come si usa il computer, ma cosa vuol dire dare sapore al vivere oggi. Un adulto che rifugge dalla colpevolizzazione e dal cercare in ogni situazione un capro espiatorio, adulto o giovane non importa, su cui scaricare la responsabilità.

    Un adulto che si pone in gioco come ricercatore

    Veniamo a un secondo aspetto che ci sembra un'intuizione interessante per gli adulti che, forse in modo semplificatorio, abbiamo denominato «ricercatori», a partire dalla loro esperienza di vulnerabiltà. Molteplici segnali fanno notare come tali adulti si generano facendo un pezzo di strada con altri adulti, dandosi tempo per narrare del proprio sé, prima ancora di parlare di figli. O, se si vuole, si prendono tempo per riflettere su di sé e sui giovani in questo momento storico, sopresi da interrogativi che sembrano rimanere aperti e chiedono un supplemento d'anima, di intelligenza e di passione. La domanda dell'adulto su di sé sta realizzando, a macchia di leopardo, micro-reti sociali, leggere e autorganizzate, in cui potersi riconoscere, ricorrere a parole intrise di esperienza, intraprendere azioni piccole ma significative, simbolo del proprio voler essere al mondo. Per molti versi, tali reti sono il luogo di ricerca sperimentale di identità collettive aperte e di una inedita responsabilità sociale, nella convinzione che tali organismi intermedi tra individuo e società permettano al singolo adulto di viversi come soggetto consapevole e di accedere alla progettualità sociale.
    Emerge un adulto che, in certe fasi della vita, sospinto da nuove domande, si rende disponibile a uscire di casa per ritrovarsi in gruppi leggeri, piccole e spesso temporanee aggregazioni a legami deboli ma non superficiali, per cercare risposte, prima che attraverso l'ascolto di esperti (anche se il loro contributo è ritenuto prezioso), facendo leva su una ricerca di gruppo, valorizzando i saperi di ognuno.
    Detto questo, ci sembra tuttavia che spesso gli adulti credano poco nel proprio essere adulti. Di sicuro sembrano non crederci coloro che nell'esercizio del loro ruolo professionale tendono a rifugiarsi in parole di riprovazione degli altri adulti perché, a loro avviso, non svolgono il compito come loro lo immaginano e, di volta in volta, sono delusi dei genitori o degli insegnanti, dell'animatore del gruppo o dell'allenatore sportivo, ecc.
    Un gioco pericoloso che molti adulti interrompono costruendo luoghi «tra» adulti in cui provare a leggere qualche problema per poi maturare insieme risposte, parziali, sensate e condivise, da sperimentare, consapevoli che apprendere gli uni dagli altri è sostanza della vita.
    Nel lanciare l'idea del fare laboratorio, vogliamo ribadire che tutti devono potersi sentire in gioco nel rispondere alla domanda: «Quale educazione, per quale uomo e per quale società?», evitando di rinchiuderla nel giro degli specialisti e degli appassionati. La questione educativa è di tutti i cittadini e va affidata a una progressiva ricomposizione di pezzi di sapere che ogni cittadino ha accumulato nel tempo per costruire la «verità» dell'educare.
    Come allora prevedere laboratori, gruppi di lavoro, assemblee aperte che, di volta in volta, ricorrendo a linguaggi narrativi e artistici non meno che a linguaggi logico razionali, permettano ai cittadini di uscire dai loro confini, intravedere le sfide e dare loro un nome, per poi cercare, mettendo insieme criticamente saperi esperienziali e saperi esperti, possibili vie da percorrere di cui ognuno può sentirsi corresponsabile, confortato dalla fiducia reciproca e stimolato dal sapere e dagli atteggiamenti messi a punto insieme per vivere da educatori?

    Quale relazione è educativa?

    Convinti che la relazione educativa rimane il perno dell'educare ci siamo più volte chiesti quale relazione oggi possa dirsi educativa. La risposta l'abbiamo cercata articolando la riflessione su due livelli: la relazione educativa adulto-giovane e la relazione educativa adolescenti-organizzazioni come la scuola, la società sportiva, l'oratorio. Spesso l'educazione è chiusa nel rapporto interpersonale, mentre grande peso viene ad avere l'organizzazione, a seconda che faccia o meno spazio al dialogo, allo scambio, alla partecipazione, alla dialettica, al riconoscimento degli errori. Ben sapendo che l'organizzazione non è la somma delle relazioni tra persone, ma un organismo vivente con la sua mi ssion, le sue regole, le sue competenze, le sue criticità e derive.
    Forse oggi l'attenzione degli adulti cade quasi unicamente sulle relazioni interpersonali, dimenticando il peso (in senso positivo ma anche negativo) delle organizzazioni nell'accompagnare i giovani verso la loro autonomia. Solo per fare un esempio, non è per nulla indifferente la relazione educativa fra la scuola e i ragazzi. E dunque quale scuola può dire di perseguire una relazione educativa con le nuove generazioni? Quale ambiente-scuola educa (o diseduca)?
    Molte delle insoddisfazioni a cui accennavamo all'inizio nascono dalla fatica di dare vita a relazioni che possano dirsi educative con questa generazione. Intanto non sembra sempre facile agganciarci reciprocamente per stringere legami, proprio perché si vive in situazioni intra piuttosto che inter-generazionali e si è sospinti a enfatizzare le diversità piuttosto che le comunanze. Tale fatica si manifesta in una non frequentazione e, a volte, in una sorta di assenza reciproca. Si mantengono i rapporti formali e professionali, ma non si riesce ad agganciarsi reciprocamente. Quel che non sembra circolare è la fiducia, il fidarsi gli uni degli altri.

    Come qualificare la relazione con gli adolescenti?

    Se gli adolescenti sono cambiati, in una società meno autoritaria del passato e travolta da un'ondata che qualcuno chiama di tolleranza, altri di diffidenza reciproca e di difesa gelosa del proprio spazio, quando una relazione è educativa?
    Questa generazione ha bisogno, in primo luogo, di una robusta conferma esistenziale, che dia le energie per accettarsi e scommettere su di sé, che ricostruisca anzitutto la motivazione ad affrontare la vita senza ridurla a una competizione estenuante o a un girovagare a vuoto.
    Una relazione, in secondo luogo, in cui l'adulto con la sua presenza dia valore alla vita quotidiana vissuta insieme, a quei momenti in cui non c'è nulla fare, si può stare insieme liberamente, togliendosi le maschere dei ruoli, dialogando sui vissuti di ognuno, poiché in tali momenti al centro del dialogare c'è il valore della propria vita insieme con gli altri. E dunque una relazione in cui adulti e giovani «perdono tempo» per lasciar emergere e riconoscere un senso che si genera proprio dentro la relazione e apre al cambiamento che è auspicabile, necessario da parte di tutti, senza che nessuno si senta mai messo con le spalle al muro, chiuso in un angolo, espulso senza altro intento che «tenere lontano».
    L'impressione è che la conferma esistenziale per essere generativa debba meglio articolarsi oggi fra accoglienza materna ed esigenza paterna, tra capacità di alimentare fiducia e dare supporto e capacità di fare spazio a una progettualità personale, con il prezzo da pagare che questa richiede in termini di impegno, resistenza, uso delle proprie energie senza sconti, anche quando è il momento di andare controcorrente, di separarsi da stili di vita dominanti. È facile capire che la nostra non è per gli adolescenti la società della progettualità personale, ma va anche detto che qui sta la sfida della relazione educativa: aprire alla responsabilità e, prima ancora, al progetto di sé in una società che fa poco spazio ai giovani.
    Per altri versi, la relazione con le nuove generazioni ci sembra che spesso rischi di essere collusiva da parte di adulti eternamente adolescenti, disponibili a stili di vita in cui inseguono obiettivi di un'esasperata autoaffermazione e a stili di vita improntati al concedersi tutto ciò che è possibile.
    Una relazione poi che non si limiti alla cura dell'affettività, ma sappia articolarsi tra dimensione affettiva e dimensione cognitiva, tra lo stare insieme e il costruire significati rispetto al vivere in questa società, facendo spazio a conversazioni in cui ognuno possa mettere in gioco, non senza differenze, la propria filosofia ed etica della vita. Il rinchiudersi nella dimensione affettiva (in famiglia, ma anche nelle aggregazioni del tempo libero) chiede il forte contrappeso della produzione di significati generati dentro lo scambio tra adulti e giovani.
    Una relazione, inoltre, in cui gli adulti non hanno bisogno degli adolescenti per sentirsi vivi, ma hanno cura di una loro autonomia affettiva ed esistenziale che li porta a essere consistenti (stanno in piedi da soli) nell'entrare in contatto con il mondo giovanile in modo disinteressato, mai attaccati al proprio punto di vista. Anche per non vedere nell'aggressività dei giovani un'aggressione personale all'educatore, ma piuttosto un sintomo di sofferenza che chiede aiuto, un appello a cambiare relazione e dunque una relazione che non pratica mai la disconferma, non si abbandona alla vendetta, non punisce o sanziona se non in misura utile al ragazzo.

    La relazione tra giovani e istituzioni educative

    Il secondo livello della relazione su cui ci sembra importante riflettere oggi è quello tra istituzioni e ragazzi, a partire dall'idea che un'organizzazione è un organismo vivente e dunque un insieme di relazioni e significati che possono includere ma anche emarginare, potenziare la ricerca di autonomia dei giovani o deprimerla, farli diventare «utenti» di un servizio oppure attori e cittadini. Si pensi al potere costruttivo (e distruttivo) della scuola, ma anche delle associazioni del tempo libero o della stessa famiglia nell'aiutare i giovani a divenire cittadini attivi. Questi adolescenti hanno bisogno di relazionarsi in modo positivo, accogliente ed esigente, con istituzioni credibili che accettano di co-evolversi insieme a loro, facendo spazio al loro contributo nell'animare le istituzioni e le organizzazioni educative. Fino a che le istituzioni e le organizzazioni sono disponibili a lasciarsi plasmare anche dai giovani? Qui sta il cuore della partecipazione nelle organizzazioni educative come palestra di apprendimento a essere cittadini.

    Se non è politica, che educazione è?

    La partecipazione non basta, anzi è ambigua, se non ci si chiede su quale progetto di uomo e di società ci si propone di investire. Senza questa prospettiva, la partecipazione può degradare in assembramenti passivi, in nuovi riti di consumo collettivo, in difesa rigida dei propri interessi, ignorando ogni interrogativo sul bene comune, sulla giustizia, sulla solidarietà, sui diritti di ognuno sulla faccia della terra. In un tempo di svuotamento delle parole, non si può non chiedersi: «Partecipazione, per quale cittadinanza, per quale società?».
    Si parla di cittadinanza con troppa enfasi per non essere preoccupante. Enfasi che lascia sottotraccia il conflitto tra uomo e donna, tra bianco e nero, tra esperto e inesperto, tra Stati poveri e Stati ricchi, tra ricchi e poveri dentro lo stesso Paese, tra chi è incluso e chi è escluso, ecc. Non c'è partecipazione se insieme non ci si chiede quale cittadinanza si vuole perseguire, quali diritti ci si vuole riconoscere, quale contributo ogni persona e gruppo sociale può dare alla costruzione di una società giusta e solidale.
    E quale partecipazione e cittadinanza stanno oggi sperimentando i giovani anche negli ambienti educativi, oltre che nella società più vasta? Ancora una volta o si riconosce che l'educazione è un evento politico oppure l'educazione si fa serva di progetti che asserviscono l'uomo.
    Essere cittadini a fianco degli adolescenti è abilitarli a pensare la vita sociale, locale e globale, in termini politici, in una duplice direzione.
    In primo luogo maturare anzitutto letture politiche in cui con gli adolescenti si colgano i problemi anche individuali sullo sfondo dei fattori macro e micro che influenzano lo sviluppo di un territorio e le sorti dei diversi gruppi sociali. Il contrario della lettura politica è la lettura di vicende individuali atomizzate, in cui ognuno sembra libero di agire, anche se vive la libertà dell'elettrone. Fare dell'educazione un luogo politico è aiutare i giovani a confrontarsi e orientarsi in modo critico dentro lo scontro tra visioni dell'uomo e della società, dei diritti e dei beni comuni.
    In secondo luogo politica è l'impresa collettiva in cui si prova, per dirla con don Milani, a sortire insieme dai problemi, riconoscendo a ognuno la sua dignità, non abbandonando nessuno alla deriva, sapendo che in gioco ci sono diritti e doveri che vanno progressivamente rigenerati in nome della dignità di ogni uomo. E dunque come, a scuola e nelle aggregazioni del tempo libero, apprendere a essere uomini e donne che sanno agire politicamente, che cioè a fronte di problemi sanno pensare e operare nell'interesse di tutti?

    * L'articolo è frutto di un gruppo di lavoro attivato dalla rivista e formato da una ventina tra educatori e pedagogisti di diverse regioni d'Italia, che si ritrovano a riflettere con Duccio Demetrio, Vanna Ioni e Franco Santamaria. Il gruppo intende offrire materiali per animare una pubblica discussione su educare/educarsi. Per informazioni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.


    (Animazione Sociale gennaio 2011, pp. 24-35)


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