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    Ansia, paura, timore

    Gianfranco Ravasi


    Ce lo ripetono i sociologi classificando la nostra società come attraversata dai brividi della paura. Gli psicologi si preoccupano di catalogare i nostri incubi, le ansie, lo stress, tentando terapie sempre insufficienti. I flussi migratori ci mettono di fronte a volti, usi, costumi differenti che generano sospetto e tensioni. Il 9 marzo scorso il sociologo Giuseppe De Rita, che dialogava pubblicamente con me nella Basilica di S. Giovanni in Laterano sul tema "Paure e speranze del nostro tempo", aveva usato una curiosa ma suggestiva definizione: «Il politeismo delle paure, il monoteismo della speranza». Sì, è vero, la paura ha tanti idoli oscuri che la effondono nel mondo, mentre un solo Dio luminoso è alla sorgente della speranza. Ecco, vorremmo ora proporre in modo molto libero, "impressionistico", quasi narrativo, una riflessione su questa trilogia che non è del tutto sinonimica: ansia, paura, timore. E cominceremo con una sorta di parabola.

    Nella notte, tra i cani

    È notte fonda. Le tenebre si sono distese su una città del Vicino Oriente. Gli usci delle case sono serrati e all'interno domina il silenzio. Un silenzio che avvolge come in un sudario anche le vie e le piccole piazze. Ma la quiete è squarciata da una serie di ululati che percorrono le strade: un branco di cani randagi e rabbiosi saetta qua e là, aggrappandosi alle porte, rovesciando ciò che incontra, ringhiando ferocemente davanti ai graticci delle finestre. In una di quelle case un uomo è sveglio e col cuore in gola attende che i cani famelici abbandonino il suo uscio. L'ansia è forte e non dà tregua; la notte sembra non finire mai. Allora, prima in modo sommesso, poi in forma sempre più esplicita, egli inizia a cantare, accompagnandosi a una semplice cetra orientale. Il suo è un inno di implorazione che sale verso il cielo oscuro; le sue spirali sonore ripetono la stessa invocazione ma con un'intensità sempre più forte.
    La gola non si stanca, la voce vorrebbe sopraffare l'abbaiare dei cani; la paura del buio e della solitudine è sminuita da un suono che echeggia nella stanza come se fosse un coro. Lentamente il tempo si dissolve e, inattesa, si delinea una prima, tenue lama di luce che filtra dalla finestra: è l'aurora che si fa strada nella tenebra. Anche la voce ormai è più squillante; la supplica si è trasformata in cantico gioioso; i cani abbandonano la via e, spaventati dalla luce, si ritirano nel deserto di Giuda; i loro ululati si fanno sempre più remoti e ovattati; l'alba si è affacciata sulla città e le strade iniziano a popolarsi di gente.
    Anche il nostro cantore ha aperto l'uscio e guarda il cielo limpido e luminoso e la sua voce si apre ancora al canto. Sono parole di festa, l'angoscia si è dispersa con l'oscurità ed è al tempio che egli corre per elevare al suo Dio un inno di lode perché ancora una volta Egli ha allontlanato dall'orizzonte del suo fedele i mostri della paura. Con lui ormai cantano anche tutti coloro che hanno avuto il cuore stretto dalla morsagelida dell'ansia e della tensione. E sulla scena, segnata dalla fosforescenza di un dramma ma aperta a un esito di pace, cala il sipario.
    Abbiamo voluto dipingere l'atmosfera di un'antica poesia ebraica, il Salmo 59, perché essa è un'evidente parabola dell'ansia, dei pericoli che attentano alla vita, del male che assedia la nostra casa e forse anche degli incubi immaginari che tormentano il cuore. Ecco alcune battute di questo poemetto che ha un parallelo in un'altra composizione biblica, il Salmo 57, ove il terrore è ancor più esasperato perché il poeta si sente braccato, nel deserto, da unatorma di leoni. Dice il nostro salmista: «Come cani ritornano a sera / e ringhiosi s'aggirano in branchi, / nell'intera città van latrando. / Vomitare non sanno che insulti, / hanno labbra che sembrano spade... / Si aggirano in cerca di preda, e insaziati li senti ululare. / Ma io canto la tua potenza, / la tua grazia al mattino esalto. / Tu sei stato la mia fortezza / solo tu, mio Dio e Signore, / ogni giorno in ogni pericolo, / nell'ansia il mio rifugio. / Mia potenza, ti voglio cantare».
    L'ansia ha sede soprattutto nello spazio ristretto, nel buio, nell'incertezza. È curioso notare che nella lingua del nostro poeta, l'ebraico, l'angoscia e l'ansia sono espresse con un vocabolo, sar, che letteralmente indica l'area limitata e chiusa di un carcere, proprio come noi usiamo il termine "angustia" per definire un tormento interiore che ci comprime il cuore. Lo scrittore francese contemporaneo Michel Tournier ha giustamente fatto notare che, «se il giorno è uguale per tutti, la notte è diversa per ciascuno». L'oscurità si popola di presenze misteriose e invisibili che ognuno "vede" con le proprie immaginazione e sensibilità, col bagaglio di emozioni e di paure che si trascina dietro da sempre.
    Quando si leva il sole e l'orizzonte s'allarga, allora l'ansia si stempera. Non per nulla il saluto arabo familiare è marhaban bika, che letteralmente significa «Che (Dio) allarghi lo spazio davanti a te». Certo, in queste parole c'è la nostalgia dei territori immensi e soleggiati del deserto, caratteristici dei nomadi. C'è, però, anche il bisogno primordiale dell'uomo e della donna di uscire da se stessi, di spezzare il cerchio magico dell'io e di intessere un rapporto col mondo e con gli altri. Certo, c'è la tentazione di voler rimanere chiusi in casa, in un grembo noto e protetto, in compagnia delle proprie paure e ansie. Ed è questa la grande, rischiosa tentazione che alla fine fa immaginare caniululanti davanti alla porta anche in pieno giorno, quando le vie sono percorse solo dai rumori dei passanti frettolosi e dagli odori dell'esistenza quotidiana.
    Uscire all'alba per entrare nello spazio popolato del mondo è, dunque, l'approdo del nostro carme. Ma questi versi ci dicono qualcosa anche sul modo con cui trascorrere e superare la notte dell'ansia. Innanzitutto il poeta scioglie la sua paura, sia pure lentamente, attraverso la musica e il canto. Nel parallelo Salmo 57, a cui facevamo pure riferimento, la scena è ancor più esplicita in questo senso: «Devo vivere braccato e nascosto / dentro tane in mezzo a leoni: / leoni pronti a sbranare la gente! Hanno denti a punta di lancia, / come frecce li hanno acuti / e le lingue coltelli affilati... / O Dio, voglio cantarti e lodarti: / o anima mia, svegliati e canta; arpa e cetra, su presto, svegliatevi, / destare io voglio l'aurora...». Suggestivo è questo appello rivolto all'arpa e alla cetra, che durante i periodi di lutto in Oriente erano raffigurate quasi "in sonno", avvolte da un lenzuolo funebre e quindi silenziose. Finito l'incubo, cessata l'ansia, esse "si svegliano" per destare, a loro volta, l'alba di un nuovo giorno di luce e di pace.
    La musica - si suol dire - "distende": questo non è semprevero perché c'è anche l'aspetto "dionisiaco" e lacerante del canto e del suono e non solo quello "apollineo" dell'armonia e della contemplazione. Tuttavia, è indubbio che la musica ha in sé una forza di liberazione che ci fa trascendere il limite creaturale, il male, la miseria, le catene dell'angoscia. Si ricordi il quadro biblico del re Saul placato nelle sue ansie morbose proprio dal suono della cetra del giovane Davide. Cassio-doro, scrittore cristiano del VI secolo, descriveva il giudizio divino sull'ingiustizia umana proprio con la cancellazione della musica dalla storia umana: «Se continuerete a commettere ingiustizia, Dio vi lascerà senza la musica».
    Ma, nella prospettiva religiosa del salmista, c'è un'altra via per dominare l'ansia ed è quella della fiducia. Il pensiero corre a un'altra composizione, il Salmo 23, noto come il "canto del pastore". Il filosofo francese Henri Bergson (18591941) lo evocava così: «Le centinaia di libri che ho letto non mi hanno procurato tanta pace e conforto quanto questi versi del Salmo 23: Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; anche se dovessi passare in un burrone di tenebre, non temerei alcun male perché tu sei con me». Un'emozione ribadita dallo scrittore francese Julien Green (1900-1998) nella sua autobiografia Partire prima di giorno: «Le frasi semplici del Salmo del pastore si insediarono senza difficoltà nella mia memoria. Vedevo il pastore, vedevo la valle dell'ombra di morte, vedevo la tavola imbandita. Quante volte nell'ora dell'ansia e dell'angoscia mi sono ricordato del bastone confortante del pastore che evita il pericolo».
    La fede in Dio, la capacità di afferrarsi a una rupe trascendente e stabile quando stiamo sprofondando nelle sabbie mobili dell'ansia è indubbiamente una sorgente di pace e di speranza. Il filosofo marxista eterodosso Ernst Bloch (1885-1977), il sostenitore del famoso "principio di speranza", capace di superare il più scontato "principio di realtà" e ben più alto e gioioso del "principio del piacere", ricordava che non è del tutto pertinente il proverbio «Finché c'è vita, c'è speranza». Ci sono, infatti,persone vive e disperate, sane e desolate, fortunate eppur infelici, benestanti e tormentate. Egli suggeriva di mutare quell'aforisma in questo modo: «Finché c'è religione, c'è speranza».
    Certo, si deve lottare personalmente contro i mostri dell'ansia e della paura, combattendo anche a mani nude. Narra una parabola indiana: «Tre uomini incontrarono in un bosco una tigre che minacciava di sbranarli. Il primo, allora, disse: Fratelli, il nostro destino è segnato, la morte è certa. La tigre ci divorerà! Era un fatalista. Il secondo esclamò: Fratelli, imploriamo tutti e tre insieme il Signore onnipotente. Il Misericordioso può salvarci e lo farà! Era un pio. Perché dar fastidio a Dio? - osservò il terzo -. Arrampichiamoci velocemente sugli alberi e poi ci affideremo a Dio! Costui era un uomo che amava davvero Dio».
    La fede non è passività ma lotta, non è cecità ma ricerca, è rischio ma non fatalismo. È ciò che Hermann Flesse (1877-1962) esprimeva con questa frase: «Spero che la vita mi porti a poter gioire della mia conoscenza e della mia azione e tuttavia a riposare sereno nella mano di Dio come un uccello e una pianta». È ciò che cantava padre David M. Turoldo, proprio commentando il Salmo da cui siamo partiti e la sua scena notturna di timore e tremore: «In gioia si muta il mio pianto / quando incomincio a invocarti / e solo di te godo, / paurosa vertigine. / lo sono la tua ombra, / sono il profondo disordine / e la mia mente è l'oscura lucciola / nell'alto buio, / che cerca di te, inaccessibile Luce; / di te si affanna questo cuore / conchiglia ripiena della tua eco, / o infinito Silenzio».

    Paura e timore non sono sinonimi

    Quando ero ragazzino, uno dei regali a cui ero più affezionato erano i due volumi del Nuovissimo Melzi. Tra le mille meraviglie che vi scoprivo c'era, però, una pagina che mi attraeva e turbava, creando un senso di colpa ogni volta che la guardavo. Era una pagina di quel dizionario nella quale erano disegnate 30 caselle di una macabra scacchiera in cui sfilavano tutti i "supplizi" possibili: dalla berlina ai ceppi, dalla crocifissione alla decapitazione, dalla fucilazione alla ghigliottina, dalla graticola alla lapidazione e così via elencando, in un crescendo di genialità perversa. Ai nostri giorni il Melzi è sostituito da Internet, e le pagine elettroniche, che ci riversano flussi ininterrotti di liquami, ci squadernano le torture carcerarie più aggiornate e raffinate, le decapitazioni più sanguinolente, la più completa fenomenologia della guerra e del terrorismo, esecuzioni mirate ufficiali e stragi segrete e sadismi perversi.
    La reazione è sempre la stessa, anche se ora con un'incisività inedita, e oscilla tra il fascino oscuro e l'esorcismo della paura: da un lato, c'è il sottile e inconfessato gusto masochistico di guardare quelle infamie, col rischio dell'assuefazione amorale, dall'altro c'è lo sforzo apparente di vaccinarsi da quegli incubi, col rischio di cancellarne l'immoralità. D'altronde, se sfogliamo la letteratura storica di tutti i tempi, ci si accorge che la paura è stata una componente spesso decisiva della vita sociale. Se Montaigne nei Saggi non esitava a temerla («La paura è la cosa di cui ho più paura») e il nostro Bassani nel Giardino dei Finzi-Contini la definiva "pessima consigliera", non bisogna dimenticare che lo scrittore e politico inglese del '700 Edmund Burke non esitava a proclamare che «una vigile e provvida paura è la madre della sicurezza», tant'è vero che i regimi assoluti hanno sempre fatto proprio -anche senza conoscerlo - quello che Svetonio considerava essere il motto di Caligola: Oderint dum metuant, "odino pure, purché temano" (il detto è, in verità, dell'Atreo di Lucio Accio, tragico latino del II-I sec. a.C.). Oswald Spengler nel suo famoso Trattato dell'Occidente arrivava al punto di affermare che «la paura è senza dubbio il più creativo fra tutti i sentimenti primordiali. L'uomo le deve non soltanto le forme e le figure più mature e più profonde della sua vita interiore cosciente, ma anche i riflessi di questa vita attraverso le opere innumerevoli della cultura».
    Certo è che la paura è una delle esperienze capitali dell'esistenza e persino della nostra struttura cromosomica, se è vero quello che si è affermato sull'identificazione del gene della paura. Che il temere sia una sorta di pianeta molto variegato in cui ci si insedia più o meno a lungo - e in questi ultimi tempi ci stiamo ben piantati - emerge dallo stesso sforzo che la nostra lingua fa per catalogarne le oscure iridescenze: paura, timore, spavento, angoscia, angustia, sgomento, terrore, panico, inquietudine, batticuore, ansia, turbamento, trepidazione, apprensione, tanto per citare i termini che mi vengono in mente accanto a quelli più popolari di fifa, strizza, tremarella... Anzi, in epoca contemporanea su questa realtà si è gettata con entusiasmo la psicologia che ha rispolverato un vocabolo obsoleto e colto trasformandolo in una sorta di talismano magico, fobìa, declinato in decine di tipologie (agorafobia, claustrofobia, eritrofobia, patofobia, rupofobia, ecc.). Si è assistito, così, a un vero e proprio accanimento terapeutico a livello psicoanalitico, biologico e comportamentale col risultato di lasciarci alla fine nello stato descritto da Woody Allen che, ammiccando alle note distinzioni freudiane, confessava: «Il mio strizzacervelli è ottimo: mi ha tolto la paura e mi ha infettato di angoscia».
    Fare, perciò, una storia della paura e delle sue variazioni è un'impresa disperata perché dovremmo attraversare tutti i secoli e quasi tutti i testi. Basta solo un fremito a mettere in crisi, come diceva già Sofocle in un suo frammento: «Per chi ha paura tutto fruscia». Idea raccolta da Shakespeare nel suo Enrico VI: «L'uccello che sia stato invischiato in un cespuglio, prende a dubitare, con le ali tremanti, di ogni altro cespuglio che veda». Noi ora vorremmo, però, fermarci solo sul nesso tra paura e religione e non per la solita vulgata dell'arma dell'inferno brandita dalle fedi come strumento di soggezione umana, arma impropria sicuramente usata nella storia e spesso per finì innominabili. No, c'è un aspetto più serio da considerare: la paura è strutturale alla religione genuina, al suo stesso autoporsi. È ciò che ha dimostrato a suo tempo Rudolf Otto nel celebre suo saggio II sacro (1917) con l'acclamato binomio del tremendum e del fascinosum, considerato come categoria religiosa radicale. Il legame con la divinità, se si nutre dell'attrazione esercitata dal mistero, è al tempo stesso sostanziato di timore numinoso nei confronti della trascendenza.
    Si fa strada, allora, la necessità di una distinzione che ai nostri giorni è venuta meno ed è forse un male o una perdita, quella tra paura e timore. La paura è tutto ciò che abbiamo sopra descritto e che si continua a sperimentare nelnostro travagliato presente. In greco il verbo della paura fobéomai deriva da fébomai, "fuggire". È per questo che Aristotele riprovava la paura come reazione irrazionale e gli stoici la collocavano tra le quattro passioni dalle quali il saggio si libera scegliendo la via dell'atarassia serena e pacata. Era, dunque, quasi un vizio. Il timore, invece, è già per Omero una virtù, è il rispetto venerabondo nei confronti dell'epifania divina, è la consapevolezza del limite umano e della grandezza dell'oceano di misteri che ci avvolge e supera. È interessante notare che questa distinzione regge anche l'intera Bibbia, che è pur sempre il nostro "codice" culturale radicale, ed è notevole il fatto che il significato della radice lessicale ebraica jr', che ricorre 436 volte nell'Antico Testamento, e del greco fobéomai/fóbos del Nuovo Testamento (142 volte) sia proprio ritmata su questa antitesi.
    Così, «il timore del Signore è principio di sapienza» (Proverbi 1, 7) e l'appello costante che si rivolge ai credenti è questo: «Temete il Signore, suoi fedeli, nulla manca a coloro che lo temono. Venite, figli, ascoltatemi; v'insegnerò il timore del Signore» (Salmo 34, 10.12). Per descrivere il successo della Chiesa delle origini, Luca nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, scrive: «La Chiesa era in pace, cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo» (9, 31). Il timore genera pace, anzi, il paradosso va oltre, il timore coesiste con l'amore, come si legge nel Deuteronomio: «Il Signore tuo Dio ti chiede che lo tema e che tu l'ami con tutto il cuore e tutta l'anima» (10, 12). La paura, invece - nota Giovanni nella sua Prima Lettera - non può intrecciarsi con l'amore: «nell'amore non c'è paura, al contrario l'amore perfetto scaccia la paura perché la paura suppone un castigo» (4, 18). E questa frase basterebbe a demolire una religiosità che si alimenta solo con la paura della punizione infernale.
    C'è qualcosa di più: il rispetto reverente e "timoroso" per Dio è sorgente di fiducia e quindi vince
    la paura. Per questo il credente autentico sa di non essere solo quando entra nel territorio oscuro della paura, ma di avere accanto a sé una presenza trascendente. È significativo il grido dei profeti rivolto a un popolo scoraggiato e dubbioso: «Non aver paura, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele: io vengo in tuo aiuto, dice il Signore» (Isaia 41, 14). E Cristo al suo sparuto gruppo di discepoli: «Non aver paura, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto darvi il suo regno» (Luca 12, 32). È per questo che ripetutamente, di fronte ai vari incubi della storia,
    le pagine sacre ripetono un appello che nasce dal timore-fede e che è destinato a cancellare la paura: «Non aver paura: continua solo ad avere fede... Agli smarriti di cuore ripetete: Coraggio! Non abbiate paura!... Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo!». E così via per decine e decine di citazioni, riprese anche nel «Non abbiate paura di Cristo!» di Giovanni Paolo II, riproposto anche da Benedetto XVI.
    C'è un ultimo profilo che rende necessario il timore ed è quello del rispetto della moralità: il Decalogo è rivelato, secondo la Bibbia,durante una teofania sinaitica che genera adorazione e reverenza. Nella "laica" Garzantina della Psicologia curata da Umberto Galimberti si afferma che il timore «concorre alla formazione della coscienza morale che argina le spinte trasgressive». Per la religione il timore sopra descritto attesta questa funzione ma è anche qualcosa di più, perché sboccia da una fiducia nei confronti di un Dio che «non vuole la morte ma la vita» e, quindi, ti indica la via libera del bene e della giustizia.
    A questo punto la nostra apologia del timore che vince la paura potrebbe tirare le fila per un'applicazione al presente in cui viviamo, presente dominato dalla paura. Abbiamo bisogno di ritrovare quel timore che è rispetto per l'"altro", ossia il prossimo, e per quell'Altro che è Dio o il mistero (secondo le diverse opzioni). Abbiamo bisogno di ritrovare quel timore che è principio di moralità e che condanna ogni arroganza immanentistica, ogni sfida e trasgressione cieca, istintiva, brutale, disumana e blasfema, anche se segnata col nome di Dio "nominato invano". Abbiamo bisogno di ritrovare quel timore che è fiducia e fraternità perché tutti siamo creature, partecipi delle stesse paure e della stessa fragilità "adamica".
    Alla logica del duello che nasce dalla paura dell'altro è da sostituire il dialogo che fiorisce dal timore che è rispetto dell'altro e della sua diversità. Proprio come insegna la parabola tibetana del viandante nel deserto. Un uomo vede profilarsi all'orizzonte lungo la pista che sta percorrendo una figura che avanza: sembra una belva. Purtroppo nella steppa non c'è scampo, bisogna proseguire. La figura, fattasi meno lontana, si rivela essere quella di un uomo. Ma la paura non cessa: potrebbe essere un predatore, un brigante solitario. Il viandante avanza ulteriormente, anche perché non ha alternativa. Non osa quasi alzare gli occhi. Ecco i due finalmente di fronte: «Levai gli occhi, lo guardai in volto: era il mio fratello che da anni non incontravo!».


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