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    Alla scuola di don Bosco,
    un modello di

    relazione educativa

    Riccardo Tonelli


    Una premessa

    Sono stato impegnato a condividere con il lettore alcuni suggerimenti che aiutino a riscoprire i modelli di relazione educativa che stanno alla radice del prezioso servizio svolto dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, in questi anni, a Formigine. Un tema come questo ha come riferimento obbligato quel modello educativo che abitualmente si chiama "sistema preventivo" di Don Bosco.
    Lo studio sul "sistema preventivo" di Don Bosco può essere svolto a partire da tanti punti di vista. Ne ho scelto uno, fra i tanti, quello che è maggiormente in sintonia con la mia competenza professionale. Non parlo quindi del sistema educativo di Don Bosco (il "sistema preventivo") da una prospettiva storica e neppure con la preoccupazione descrittiva che caratterizza chi vuole fotografare un vissuto interessante, per offrirne una documentazione capace di superare il rischio dell'oblio.
    Preferisco mettere al centro dell'attenzione i problemi che investono oggi la nostra esperienza quotidiana. Contemplando il vissuto, ricco e suggerente, di questi lunghi anni di attività educativa delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Formigine (come quello di molte altre imprese educative che fanno riferimento a Don Bosco), mi chiedo: questo frammento interessante di passato ha qualcosa da offrire al nostro presente? Possiamo immaginare di risolvere meglio quello che ci inquieta oggi... raccogliendo contributi pensati e realizzati in stagioni tanto diverse dalle nostre? Più concretamente ancora, il riferimento a Don Bosco, ai suoi progetti e ai modelli di relazione interpersonale da lui sostenuti, a cui le Figlie di Maria Ausiliatrice hanno ispirato quell'opera educativa che ammiriamo e celebriamo, ha qualcosa da donare anche a noi oggi, alle prese con i nostri problemi?
    Anticipo la risposta, per mettere la mani avanti.
    Sono profondamente consapevole che l'esperienza educativa di Don Bosco e, in concreto, il suo sistema educativo (il "sistema preventivo") ha indicazioni preziose da offrire se lo riscopriamo facendo coraggiosamente memoria e se, nello stesso tempo, la memoria diventa "memoria sapiente" (e non ripetitiva).
    Per verificare l'affermazione, dobbiamo metterci d'accordo su cosa significhi "fare memoria sapiente" e, soprattutto, su quali siano i contributi originali che può offrire all'oggi questa memoria sapiente del sistema educativo di Don Bosco.

    Ritrovare una "memoria sapiente"

    Siamo una generazione dalla memoria corta. In questa situazione, l'attenzione e le preoccupazioni sono tutte concentrate sul presente... e si tratta, spesso, di un presente rapido e accecante, come il guizzo del fulmine in un temporale estivo.
    Possiamo vivere senza memoria?
    Per rispondere, dobbiamo intenderci sull'oggetto della questione: che significa "vivere"? Per me, vivere significa vivere nella speranza. Genera la vita, infatti, non chi genera fisicamente alla vita, ma chi dà ragioni sufficienti per credere alla vita, aiutando a riconoscere il suo senso oltre il dolore, la sofferenza, il dubbio e la morte. Per vivere, abbiamo dunque bisogno di speranza. Fare memoria significa cercare, nel passato, ragioni per sperare.
    I problemi - quelli che mettono in crisi tragica la speranza - sono nell'oggi. La speranza apre l'oggi verso il futuro. Riconosce in quello che sta oltre non qualcosa di incerto e di vago, ma un sogno concreto che restituisce l'oggi alla sua prospettiva di verità. Facendo memoria, dichiariamo di poter ritrovare nell'esperienza vissuta da altri quelle ragioni di speranza, di cui abbiamo bisogno per spalancare il presente verso il futuro.

    Come fare memoria sapiente

    Non basta però affermare il dovere di fare memoria. Dobbiamo decidere le condizioni che ne assicurano il corretto esercizio.
    Ne propongo tre, molto precise e impegnative. Chi ama le sintesi, le può riassumere in una espressione: fare memoria con amore critico e inventivo.
    Prima di tutto, considero urgente guardare il vissuto, di cui vogliamo fare memoria, per scoprire quello che c'è dentro, sapendo, con coraggio, discernere tra quello che è stato realizzato e la passione che ha spinto verso queste stesse realizzazioni.
    Mi spiego con un esempio.
    Chi osserva una foto di gruppo, vecchia di qualche decennio, difficilmente riesce a non sorridere. Non è solo questione di tecnica fotografica e di gusto artistico. In quella foto incontriamo un mondo che non è più il nostro. Nel profondo di quelle pettinature strane, di quegli abiti smessi da tempo e di quelle pose da maniera, ci sono, però, volti cari e passioni forti, persone coraggiose che hanno realizzato imprese grandi. Discernere vuol dire separare quello che conta davvero da quello che invece è ormai decaduto, per raccogliere il primo, abbandonando, senza falsi rimpianti, il secondo.
    La seconda condizione riguarda l'oggi.
    Lo stesso sguardo attento e critico, che abbiamo rivolto verso il passato, va lanciato anche sul presente.
    Cosa ci preoccupa nell'oggi? Quali responsabilità sono evocate? In che direzione ci sentiamo competenti a progettare un'opera di trasformazione? Dobbiamo cogliere problemi e prospettive, facendo nostra la passione che ha spinto altri, in un tempo ormai lontano, verso quello che ci hanno consegnato.
    Leggere l'oggi dalla memoria del passato significa perciò raccogliere sfide e provocazioni, altrimenti mute.
    Infine - ed è la terza condizione - si richiede una profonda capacità prospettica.
    Alle sfide dell'oggi vogliamo rispondere con un'azione che sappia prevedere, riorganizzare, ridefinire compiti e priorità, inventare risorse e ridisegnare l'uso di quelle disponibili.
    Anche questo è un momento della memoria: l'oggi, ricompreso dalla prospettiva del passato, si protende verso un futuro nuovo.
    La proiezione verso il futuro restituisce serietà alla memoria ed evita di bruciare tempo ed energie nel vuoto rincorrersi di rimpianti del passato.

    Un modo sapiente di fare memoria di Don Bosco

    Le rapide battute in cui ho cercato di comprendere il rapporto tra presente, passato e futuro, suggeriscono anche un modo di fare riferimento a Don Bosco, quello che io intendo assumere nelle riflessioni che seguiranno. Con una espressione tecnica definisco come "ermeneutico" questo atteggiamento.
    L'atteggiamento ermeneutico nasce dalla constatazione dello stretto rapporto esistente in ogni espressione tra quello che si intende comunicare e le formule linguistiche utilizzate per farlo. Il primo elemento proviene dall'intimo di ogni persona, rappresenta il suo mondo interiore e il frutto del suo vissuto. Il secondo invece viene dai modelli culturali che riempiono l'ambiente della nostra esistenza. Ogni proposta (parole, gesti, interventi generali...) è sempre una sintesi di questi due elementi.
    Facciamo memoria di quello che abbiamo vissuto, consapevoli che nel passato sono presenti segni e fondamenti d'impegno, di responsabilità e di speranza. Non possiamo ripetere alla lettera le belle realizzazioni di cui è punteggiata la vita di Don Bosco, nemmeno quelle che hanno lasciato il segno nel cammino della storia. Esse rispecchiano problemi e sensibilità molto diverse da quelle correnti. Possiamo però raccogliere, dal profondo del suo vissuto, quei suggerimenti che ci permettono di interpretare meglio l'oggi e di progettare qualcosa per la sua trasformazione.
    Di qui la mia convinzione: mettersi alla scuola Don Bosco, per affrontare i problemi educativi attuali, comporta l'impegno di una fedeltà che dall'oggi va verso il passato e dal passato si rilancia verso il futuro.

    La scelta fondamentale di Don Bosco: l'educazione

    La categoria ermeneutica della "memoria sapiente" ci aiuta a riscoprire Don Bosco, per raccogliere il suo prezioso contributo per l'oggi.
    La questione dunque è la seguente: quale progetto ha raccolto e organizzato tutta l'esistenza di Don Bosco? Su quale orientamento fondamentale è stato costruito il suo sistema educativo?
    Per rispondere, dobbiamo attivare quel processo di discernimento che rende sapiente le memoria: cogliere la passione radicale di Don Bosco all'interno delle espressioni culturali (antropologiche e teologiche) in cui lui stesso l'ha espressa. L'operazione non è facile. Ma la possiamo fare, confortati dai materiali interpretativi che oggi gli storici di Don Bosco ci consegnano.
    Un primo dato va ricordato subito.
    Il progetto fondamentale di Don Bosco era "religioso" (la salvezza dell'anima, come diceva lui). Interpretarlo sotto altre preoccupazioni, è tradire la sua esistenza. E, inoltre, sappiamo molto bene che i modelli antropologici e teologici in cui Don Bosco comprendeva la salvezza cristiana, erano notevolmente diversi da quelli attorno cui cresce e si esprime la fede della Chiesa conciliare. Abbiamo documenti pregevoli al riguardo.
    Ma di fronte ai giovani concreti di cui si occupa, il suo cuore di prete è pieno di sollecitudine per i loro bisogni quotidiani. Per questo "reagisce" con interventi nell'ambito sociale e politico.
    Per capire Don Bosco con memoria sapiente, dobbiamo, di conseguenza, porci nella prospettiva del suo modo di fare proposte: cogliere la passione che ha riempito la sua vita all'interno dei modelli in cui si è espressa.
    A questo livello l'approccio ermeneutico è tutto speciale. Non si tratta di analizzare documenti, ma frammenti di vissuto.
    Lo sappiamo tutti, infatti: Don Bosco non è un teorico della prassi educativa e pastorale. Non ha scritto trattati, ma ha raccontato quello che ha fatto. Per comprenderlo, dobbiamo scoprire quello che ha fatto e interpre- tare questi fatti dai suoi "racconti".
    Anche le poche eccezioni (per esempio: il suo "trattatelo" sul "sistema preventivo") confermano questa fondamentale indicazione.
    Confrontandoci con le pagine molto stimolanti del vissuto di Don Bosco, possiamo scoprire la sua scelta di fondo, quella che una memoria sapiente ci consegna di Don Bosco, dare un contenuto "aggiornato" alla sua teologia e, soprattutto, scoprire perché e come si è impegnato a favore dei giovani, lui che (come diceva di sé) era "prete" (impegnato per la "salvezza eterna" dei giovani), sempre e dappertutto.

    Un impegno di "rigenerazione" culturale

    Un'altra sottolineatura è necessaria, per abilitarci a fare "memoria sapiente" di Don Bosco per l'oggi. Per capire Don Bosco e il suo progetto è necessario collocare Don Bosco nel suo contesto sociale e culturale e raccogliere la sua reazione nei confronti di questo contesto.
    Nei primi anni del suo ministero sacerdotale, era forte in Don Bosco l'impegno per recuperare i giovani più emarginati. Don Bosco considerava la società che conosceva, in cui era forte l'integrazione tra trono e altare, come un prezioso sostegno alla vita "buona". Una dichiarazione autobiografica, in cui Don Bosco ripensa, alla fine della sua vita, al significato del suo servizio, documenta questo atteggiamento: "Se vuolsi, noi facciamo anche della politica. [...] L'opera dell'Oratorio in Italia, in Francia, in Spagna, nell'America, in tutti i paesi dove si è già stabilita, esercitandosi specialmente a sollievo della gioventù più bisognosa, tende a diminuire i discoli e i vagabondi; tende a scemare il numero dei piccoli malfattori e dei ladroncelli; tende a vuotare le prigioni; tende in una parola a formare dei buoni cittadini, che lungi dal recar fastidii alle pubbliche Autorità saranno loro di appoggio, per mantenere nella società l'ordine, la tranquillità e la pace" (D. Bosco, Discorso ad exalunni in occasione della festa onomastica, 24 giugno 1883).
    Verso la metà dell'800 in Italia e in Europa le scelte politiche si evolvono in modo radicale, con una progressione che preoccupa e inquieta Don Bosco. Il suo impegno per integrare i giovani nella società si trasforma profondamente. Di fronte ai cambi culturali e politici del Piemonte, scatenati dalla "rivoluzione del '48", Don Bosco spinge i giovani a prendere le distanze dalla società. Avverte con disagio il distacco crescente tra Chiesa e società (nel senso più ampio del termine: modelli di esistenza e organizzazione del potere). Il suo contributo per l'educazione dei giovani si tinge di sospetto verso la società e si concentra nell'invito a "distaccarsi" dalle logiche dominanti. Don Bosco avverte con chiarezza l'urgenza di intervenire per assicurare una forte inversione di tendenza. Vuole "trasformare" il sistema sociale e culturale. Per questo impegna tutte le sue energie a favore dei giovani: giovani "trasformati" possono trasformare la società. Il suo impegno religioso si coloro di reazioni critiche nei confronti dei modelli culturali e politici dominanti, a partire da questo giudizio globalmente critico nei confronti di come stavano andando le cose attorno a sé.
    Negli ultimi anni della sua vita, poi, in Don Bosco cresce la coscienza della necessità di una rigenerazione globale della società italiana (progressivamente allontanata dalla religione e dai suoi valori): per questa operazione considera i giovani la forza di rigenerazione. E si impegna appassionatamente per la loro educazione globale. Le sue espressioni critiche, anche dal punto di vista teologico, si fanno ancora più decise. A Don Bosco sembra quasi di vedere il "demonio" in azione, con tutte le sue potenti trame. Il suo modo di pensare e di esprimersi era in ampia sintonia con quello di un mondo cattolico, reattivo rispetto alle trasformazioni politiche in atto.
    Proprio a questo livello scatta l'urgenza di una memoria sapiente e la constatazione interessantissima del progetto speciale di Don Bosco.
    In fondo, questa è la "passione" di Don Bosco, il suo progetto di vita: vuole rigenerare la società in cui vive e decide che la rigenerazione sociale passa attraverso i giovani e la loro capacità rigenerativa. Per questo si impegna con essi. Ha un sogno grande su essi e immagina che giovani rinnovati siano capaci di rinnovare la società.
    Non ci interessa verificare la direzione culturale di questo rinnovamento sociale. Il progetto di Don Bosco è molto diverso da quello di tanti suoi contemporanei illuminati. Oggi possiamo persino riconoscere che il progetto sociale di Don Bosco era fondamentalmente di stampo conservatore. Ci interessa invece moltissimo scoprire come intendeva realizzare questo progetto e su quali energie era disposto a scommettere.
    Oggi abbiamo altri progetti sociali. Don Bosco ci consegna il riferimento innovativo per realizzarli: la fiducia piena nei giovani e l'impegno, forte e coraggioso, della loro educazione. Va ricordato che la fiducia di Don Bosco verso i giovani, in vista della trasformazione sociale, non era un atteggiamento giovanilistico; la sua fiducia era decisamente critica e per questo coraggiosamente educativa.

    L'educazione come intervento privilegiato

    È importante scoprire il modello di intervento che Don Bosco realizza e si impegna a consolidare: siamo nel centro del sistema educativo di Don Bosco.
    Possiamo prendere le distanze dal modello di società che Don Bosco perseguiva. Resta però decisivo prendere atto del modo globale di azione politica che Don Bosco assume e verso cui impegna.
    Per attuare il suo progetto di trasformazione, Don Bosco ha scelto la strada dell'educazione. La valuta esplicitamente come un'alternativa seria rispetto ad altri modi di intervento, presenti tra i suoi contemporanei. La sua scelta educativa e religiosa diventa concretamente una scelta "politica".
    Questo è il dato forte da sottolineare e da recuperare: la scelta dell'educazione e la scommessa che attraverso l'educazione noi possiamo intervenire per operare la trasformazione personale e sociale.
    Andando in profondità sul presente, noi scopriamo le tante cose belle che manifestano la realizzazione progressiva del progetto di Dio sulla storia, ma scopriamo anche i segni di morte che purtroppo percorrano la nostra storia concreta. I discepoli di Gesù colgono nel quotidiano anche una serie di provocazioni che chiedono risposte e interventi urgenti.
    Come intervenire? Non possiamo certamente accontentarci di constatare la presenza dei segni di morte e delle sfide. Avvertiamo forte il bisogno di intervenire con coraggio, sapendo arrivare alla radice del male.
    Le possibilità di intervento sono molte. Diventa urgente scegliere, sapendoci collocare al punto giusto.
    Chi fa proprio il carisma di Don Bosco e sa guardarsi d'attorno alla luce di questo approccio carismatico, sa cogliere quali sono i segni di vita da potenziare e quali sono i segni di morte contro cui reagire. Ma soprattutto assume un modello preciso di intervento per modificare la realtà.
    Don Bosco e il suo progetto religioso, culturale e politico rilanciano con forza la scelta dell'educazione. Altri possono fare scelte diverse. Chi si riconosce in Don Bosco scommette sulla forza trasformatrice dell'educazione e gioca nell'educazione tutte le sue risorse.
    La conclusione è importante e permette di fare luce sull'esperienza realizzata dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, a Formigine come in tante altre realtà, sparse nel vasto mondo. In una stagione di pluralismo come è la nostra, non è sufficiente appellarsi all'educazione. Abbiamo bisogno di fare ordine attorno a questa scelta, precisando e chiarendo... per evitare di accreditare attorno al modello educativo espressioni e interventi che sono per lo meno molto lontani dal vissuto di Don Bosco.
    Ritorna l'urgenza di fare memoria sapiente di Don Bosco, per dare concretezza verificabile alla scelta dell'educazione.
    Anche ai tempi di Don Bosco di modelli di relazione educativa ce ne erano molti. Oggi poi dichiarare di scegliere l'educazione come modello di trasformazione della società può diventare una espressione equivoca, dal momento che l'appello verso l'educazione si concretizza in espressioni e realizzazioni assai diverse. Cosa vuol dire, nel sistema educativo di Don Bosco, far educazione? In che modo intervenire per essere fedeli all'educazione?

    Don Bosco in azione: Valdocco

    Per fare memoria in modo sapiente, abbiamo la necessità di scoprire cosa Don Bosco intendeva quando parlava di educazione.
    Come ho già ricordato, Don Bosco non è stato un teorico dell'educazione, ma un operatore diretto. Per conoscere il suo progetto, dobbiamo confrontarci con il suo vissuto.
    Il luogo concreto in cui Don Bosco ha realizzato il suo progetto educativo è l'Oratorio di Valdocco. Il confronto con quel vissuto è, di conseguenza, d'obbligo: Valdocco è il sistema preventivo in azione... il "manuale" più autentico del suo progetto educativo.
    Sottolineo alcuni elementi del vissuto di Don Bosco a Valdocco e sul suo stile concreto di intervento.

    Un'educazione sulla forza dell'ambiente

    Valdocco era "ambiente" educativo speciale. Si caratterizzava attraverso un rapporto stretto tra "assistenza" (per affrontare e risolvere i bisogni fondamentali dei giovani: vitto, vestito, alloggio, sicurezza, mestiere...) e "formazione" (orientamento continuo verso la maturazione sociale, morale e religiosa dei giovani). Possediamo un documento, molto interessante, attraverso cui Don Bosco presentava Valdocco e le altre sue istituzioni alle autorità di Torino (1846), anche per sollecitare e giustificare sovvenzioni economiche: "In tutti questi tre luoghi [di Torino] col mezzo d'istruzioni, scuole, e ricreazioni si inculca costantemente il buon costume, l'amore al lavoro, il rispetto alle autorità e alle leggi secondo i principii di Nostra Santa Cattolica Religione: ci sono le scuole domenicali intorno i principii della lingua italiana, aritmetica e sistema metrico [...] Si dovette pure aprire un Ospizio per ricoverare 25 a 30 giovani dei più abbandonati e necessitosi. Sinora ogni cosa progredì coi soccorsi di alcune zelanti e caritatevoli persone Ecclesiastiche e Secolari [...], tendendo essa [tale opera] unicamente ad impedire, che la gioventù non resti preda dell'ozio, del disordine, e dell'irreligione" ("Ricerche Storiche Salesiane", 43, 2003, n. 2 pp. 343-344.). In stretto collegamento con questa opera assistenziale, Don Bosco si impegna nell'ambito esplicito dell'educazione etica, intellettuale e religiosa.
    L'ambiente educativo di Valdocco era centrato su Don Bosco e sul fascino formativo che emanava dalla sua persona. Gli storici di Don Bosco ci hanno offerto lo spaccato di giornata formativa di Don Bosco: "di buon mattino confessore di giovani e di salesiani; direttore spirituale nella sua stanza; spesso tra i giovani nel corso delle ricreazioni; dispensatore di 'paroline all'orecchio'; a sera la classica buonanotte. Ogni mese era presente all'esercizio della buona morte... Nei momenti forti della vita dell'Oratorio: l'accoglienza dei giovani nei primi giorni dell'anno, le novene... i mesi "impegnati", il commiato dei giovani per le vacanze...".
    Il progetto educativo di Don Bosco esigeva una collaborazione larga tra tante persone... ed erano tanti i collaboratori... ma essi erano tutti "figli di Bosco" (legati affettivamente a lui, impegnati a riconoscere in lui l'ispiratore e il consigliere, di una stessa controllata cultura, con gli stessi intendimenti...). I collaboratori erano quindi un prolungamento ideale di Don Bosco. Se li era formati... a sua immagine, e continuamente li sollecitava a conservarsi fedeli e coerenti con questa figura ideale. Quando era lontano da Valdocco, per i moltissimi impegni che lo costringevano a viaggi e spostamenti frequenti, teneva un contatto quasi diretto, utilizzando gli strumenti comunicativi di cui poteva disporre e reagiva con decisione quando aveva sentore che li linee educative prendessero altre pieghe.

    La dimensione religiosa del progetto di Don Bosco

    Don Bosco era un uomo profondamente religioso. Dio era il centro e il riferimento decisivo di tutta la sua esistenza. L'impegno educativo rappresentava per lui la ragione e il fondamento della sua santità. Oggi possiamo dire che la santità di Don Bosco era una santità professionale: fondata e concretizzata nella sua grande passione educativa. Per questo, vive la sua missione di educatore dei giovani con un profondo cuore apostolico e ritrova il coraggio di proporre "la santità come meta concreta della sua pedagogia" (Juvenum patris, Lettera apostolica, indirizzata da Giovanni Paolo II alla Famiglia salesiana in occasione del primo centenario della morte di Don Bosco, 5). Nel suo modo di fare con i giovani diventa, di conseguenza logica, "l'iniziatore di una vera scuola di nuova e attraente spiritualità apostolica"
    Di conseguenza, Valdocco è stato un ambiente di grande e profonda esperienza religiosa. Una affermazione è centrale nelle dichiarazioni e nella prassi di Don Bosco: l'educazione è "cosa di cuore", ma Dio è padrone del cuore. Questa constatazione rappresenta una delle intuizioni più decisive di Don Bosco, fino al punto che ho l'impressione per perdiamo Don Bosco se la dimentichiamo e, nello stesso tempo, uno dei momenti in cui Don Bosco risulta molto legato alla teologia e alla antropologia del suo tempo.
    Questa indicazione va approfondita con attenzione. La memoria sapiente su cui stiamo riflettendo ritrova, a questo livello, un riferimento fondamentale.
    A chi gli chiedeva per quale ragione dedicava tempo, energie, risorse a favore di tanti ragazzi, Don Bosco rispondeva, senza ombra di incertezze: "Voglio farli diventare buoni cristiani e onesti cittadini". Alle parole facevano subito riscontro fatti, precisi e concreti. Attraverso questo modo di fare Don Bosco pretendeva ascolto, rispetto e, magari, qualche appoggio... proprio da tutti. Un buon cristiano e un onesto cittadino andava davvero bene a tutti, soprattutto se il soggetto, circondato di tante cure, era un ragazzo abbandonato, precipitato dalle montagne nel fervore della prima industrializzazione torinese.
    Tutto questo, Don Bosco lo diceva con le parole del suo tempo. Come ho già ricordato, una espressione era, per esempio, continuamente nella sua bocca: la salvezza dell'anima. Don Bosco amava i giovani, li serviva con mille iniziative, lavorava con loro fino all'ultimo respiro... per aiutarli a salvarsi l'anima. Faceva l'educatore per vivere pienamente la sua responsabilità di cristiano e di sacerdote e lo faceva, con una passione senza limiti, per assicurare la salvezza di tutti i suoi giovani.
    La formula "buoni cristiani e onesti cittadini" ha fatto presto il giro del mondo, pronunciata e realizzata da tanti educatori. E' diventata una specie di carta di identificazione per coloro che riconoscevano in Don Bosco un maestro dell'educazione dei giovani, cui ispirarsi.
    Nella Lettera apostolica, indirizzata da Giovanni Paolo II alla Famiglia salesiana in occasione del primo centenario della morte di Don Bosco, l'espressione famosa viene cambiata: "onesto cittadino perché buon cristiano" (Juvenum patris 10).
    Gli storici di professione hanno protestato. Anche se il documento del papa non intende citare alla lettera le parole di Don Bosco, quello strano "perché" non è stato mai nella bocca di Don Bosco.
    Si tratta di una integrazione indebita, lontana dal pensiero di Don Bosco... oppure lo rappresenta veramente in modo autentico, fino al punto che possiamo riconoscere che era nel suo "cuore" ciò che non è mai stato sulla sua "bocca"?
    Dobbiamo pensarci. Sono convinto che qui ci sia il centro del progetto educativo di Don Bosco e che proprio qui le intuizioni e la passione di Don Bosco s'incrociano, in modo specialissimo, con i modelli culturali del suo tempo.

    Ritorniamo ai problemi di oggi

    Con la memoria, viva e appassionata, del vissuto di Don Bosco, possiamo finalmente ritornare al nostro oggi, per immaginare presenze e interventi capaci di trasformarlo, secondo lo stile di relazione educativa che Don Bosco ci consegna.
    In questa operazione riscopriamo il servizio delle Figlie di Maria Ausiliatrice realizzato a Formigine e quello che si spalanca ancora davanti alla nostra responsabilità.

    Scommettere per l'educazione

    Viviamo in un tempo di diffusa e insistita complessità, sociale e culturale: una situazione certamente diversa da quella in cui Don Bosco è vissuto e ha operato.
    Spesso non sappiamo davvero cosa fare, tanto risulta intricata la trama dei problemi e dei processi.
    La coscienza della complessità può spegnere ogni interesse verso la trasformazione. Qualche volta costruisce atteggiamenti radicali e devastatori.
    Che fare per allargare il confine della vita, restringendo operativamente quello della morte?
    In situazione di complessità, gli interventi possibili sono molti. Nessuno può pretendersi quello risolutore.
    Alla scuola di Don Bosco noi ci qualifichiamo per la fiducia operosa verso l'educazione.
    Non basta però rilanciare la funzione dell'educazione. Realizzando una memoria sapiente della prassi di Don Bosco, possiamo anche immaginare una precisa figura di quella funzione educativa su cui vogliamo scommettere.
    Questa è la mia proposta: educare è istituire una relazione tra soggetti diversi (felici... di essere differenti), attraverso cui essi si scambiano frammenti riflessi e motivati di vissuto, per restituirsi reciprocamente quella gioia di vivere, quella libertà di sperare, quella capacità e responsabilità di essere protagonisti della propria e altrui storia, di cui purtroppo siamo continuamente deprivati.
    Al centro dello scambio di esperienze c'è la qualità della vita: dignità, speranza, felicità, libertà... come dimensioni costitutive di questa qualità. In una stagione di pluralismo come è quella che stiamo vivendo, non è facile dare spessore concreto a queste espressioni. Per farlo, abbiamo bisogno di un confronto e di una collaborazione allargata. Per questo, chi crede all'educazione e cerca ragioni sicure per fondare senso e speranza, sollecita il contributo operativo di tutti, mettendo a frutto orizzonti culturali e religiosi, competenza, esperienza
    Qui io fondo la risposta alla questione del perché caricarsi sulle spalle la fatica di educare: attorno alla qualità della vita siamo tutti protagonisti; chi si tira indietro su questa ricerca, mette prima di tutto in crisi se stesso.
    Un'altra cosa va ricordata, pensando ancora al vissuto di Don Bosco.
    La esprimo ancora con un interrogativo: educare... serve a qualcosa?
    Possiamo arrivare a trovarci d'accordo sul fatto che al centro dei problemi sta la vita (la sua qualità) e la speranza (la sua sicurezza in prospettiva di futuro). Viene spontaneo tentare di verificare se l'educazione è davvero lo strumento più adatto per affrontare questi problemi e per risolverli.
    E' facile elencare quali siano oggi questi problemi. Vanno dal terrorismo al disimpegno, dalla crisi di valori alla perdita di responsabilità personale e sociale, dalla fragilità delle istituzioni tradizionali alla voglia di trasgressione, dalla caduta di religiosità ad una sua ripresa un poco troppo magica.
    Anche i rimedi sono sulla bocca di tutti: controlli più raffinati, la pretesa di avere il diritto al "primo colpo", rigidità delle leggi e chiarezza di intenti, riforme e recupero dell'autorevolezza, prospettive economiche e proposte religiose e culturali forti...
    Anche a questo proposito la memoria sapiente di Don Bosco ci apre verso una soluzione. La esprimo con una formula: la scommessa sulla educazione. La fatica di educare è giustificata dalla scommessa che l'educazione è una forza di trasformazione formidabile, che attraversa, verifica, contesta e risolve tutti gli altri rimedi.
    E questo in tutti gli ambiti dell'esistenza quotidiana: quello politico, quello economico, culturale e istituzionale e soprattutto quello religioso.
    La validità delle scommesse non si può dimostrare a fil di logica... altrimenti che scommesse sarebbero. Si verificano alla prova dei fatti, anche se non possiamo dire in anticipo quanti fatti servono a dimostrare la validità della scommessa e a quale punto ci si debba arrendere sulla forza dell'evidenza contraria.
    L'invito è dunque sulla scommessa, uscendo dal terreno sicuro delle dimostrazioni e delle sole procedure razionali.
    L'operazione riguarda anche l'ambito dell'esperienza di fede e della sua proposta.
    Scegliendo di giocare la sua speranza nell'educazione, il credente sente di essere fedele al suo Signore. Con lui crede all'efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione personale e collettiva e crede all'uomo come principio di rigenerazione: restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare, riconciliato con se stesso, con gli altri e con Dio, può costruire nel tempo il Regno della definitività.

    L'irrinunciabile dimensione religiosa

    Le righe precedenti ci introducono su un'altra dimensione operativa che la memoria sapiente di Don Bosco ci affida: l'urgenza di assicurare una dimensione religiosa per l'esistenza.
    Oggi noi abbiamo una sensibilità assai diversa da quella di Don Bosco. Essa ci porta a separare gli ambiti educativi da quelli religiosi e, di conseguenze, non ci piace assolutamente mescolare le competenze. Non possiamo però rigettare il modo di pensare dei tempi di Don Bosco con l'atteggiamento sconsiderato di chi si lascia sedurre dal nuovo e dai limiti evidenti dell'antico. Un'operazione del genere denuncia la mancanza di discernimento. Riproduce, dall'opposto, l'enfasi sulla tradizione e su quello che altri hanno vissuto prima di noi.
    Nel profondo della prassi e delle espressioni di Don Bosco è presente qualcosa che attraversa i modelli culturali e giunge fino a noi, come un dono prezioso: la consapevolezza di quanto sia centrale nella vita il vissuto e l'esperienza religiosa. Questo Don Bosco affermava quando metteva al centro del suo impegno educativo la grazia di Dio e la salvezza dell'anima.
    Abbiamo davvero un gran bisogno di recuperare questa dimensione dell'esistenza. La sua perdita ci impoverisce tutti e fa terribilmente scadere la qualità della nostra vita. Va in crisi il significato dell'esperienza cristiana perché ci siamo rassegnati a convivere con un livello scarso di qualità di vita quotidiana.
    Siamo abituati, infatti, a considerare vero e reale solo quello che possiamo manipolare. Per questo siamo diventati presuntuosi e saccenti. Per ogni cosa abbiamo una spiegazione e di ogni avvenimento sappiamo responsabilità, positive o negative. Se qualche male ci sovrasta, ne conosciamo il rimedio o, almeno, è solo questione di giorni: presto o tardi, troveremo il nome giusto per identificarlo e gli strumenti adeguati per risolverlo.
    L'uomo maturo - e il cristiano, soprattutto - non si trova davvero a proprio agio in questo modo riduttivo e falso di vedere la realtà. Si impegna per comprenderla fino in fondo, felice di poter utilizzare tutto quello che la scienza e la sapienza dell'uomo hanno saputo produrre. Riconosce però l'esistenza di un altro mondo, fatto di eventi un po' misteriosi, la cui trama ci sfugge completamente e di cui possiamo parlare solo secondo le logiche originali del linguaggio religioso.
    Lo diceva Don Bosco mettendo al centro del suo progetto educativo l'impegno per "la salvezza dell'anima" dei giovani. Non lo possiamo dimenticare noi, alla sua scuola, per non ridurre il servizio educativo ad una rincorsa, affannosa e inconcludente, di ritrovati, di progetti, di suggerimenti, destinati a bruciarsi quando soffia il vento del dolore, della morte, dell'incertezza sul senso e sulle prospettive dell'esistenza.

    L'autorevolezza dell'educatore

    L'educazione è una relazione. Ma è attivata, sostenuta, garantita dalla figura dell'educatore.
    La figura dell'educatore va urgentemente ridisegnata, superando la tentazione del silenzio rinunciatario e quella dell'autoritarismo troppo facile (POLLO M., L'animazione culturale dei giovani. Una proposta educativa, Leumann, LDC 1986. POLLO M., Teoria e metodo dell'animazione culturale, LAS, Roma 2001)
    L'educatore invade il santuario intimissimo dell'esistenza di una persona, con una proposta che sconvolge le logiche dominanti, come una folata improvvisa di vento.
    Per farlo, soprattutto in un tempo come il nostro, egli ha bisogno di una dose alta di autorevolezza.
    Dove può recuperarla? La risposta non è facile in una stagione in cui l'oscillazione tra autoritarismo e permissivismo sembra l'unica soluzione praticabile.
    Alla scuola di Don Bosco possiamo recuperare quattro suggerimenti operativi:
    • L'educatore fonda la sua autorevolezza su una competenza acquisita nella quotidiana fatica della disciplina, dello studio, dell'aggiornamento.
    • L'educatore fonda la sua autorevolezza in un impegno continuo e costante di diventare "accogliente", convinto che, buttando le braccia al collo in un abbraccio gratuito e pieno, diventa proposta forte e inquietante verso il cambio di vita.
    • La fonda sulla disponibilità fattiva a porre concretamente gesti dalla parte della promozione della vita.
    • La giustifica perché ha il coraggio di riconoscere di essere al servizio di un progetto, che supera persino í propri sogni e che inquieta, perché costringe a misurare la distanza che separa il vissuto dal desiderato.

    I giovani in una società dove comandano gli adulti

    Non è vero che siamo in una società "giovanilistica": è più vero il contrario. Con solenni proclami abbiamo l'abitudine di inneggiare ai giovani come "il futuro" di tutto l'esistente... e poi restano ai margini, sono privati di ogni responsabilità concreta, sono giudicati impietosamente.
    Don Bosco ci consegna alcuni modelli di relazione educativa, capaci di definire quella qualità relazionale tra giovani e adulti, che ogni tanto va in crisi sotto la spinta della tentazione autoritaria o di quella follemente remissiva e rinunciataria.
    Questa relazione si fonda su una grande una fiducia nei confronti dei giovani, riconoscendo fattivamente ad essi una dignità costitutiva (per le ragioni dell'amore e della fede) che nessuna devastazione è in grado di distruggere. Si tratta però sempre di una fiducia "operativa" (come piaceva a Don Bosco), per immaginare una trasformazione culturale e sociale in ascolto delle loro attese e in riconoscimento delle loro esperienze. L'impegno può valere anche nella comunità ecclesiale che sembra, oggi in modo speciale, eccessivamente ripiegata sugli adulti e sulle loro istituzioni... forse perché maggiormente rassicuranti e capaci di far convergere uno strano diffuso utopismo.
    In concreto questo impegno educativo che dà fiducia ai giovani viene giocato sulla doppia convergente preoccupazione di restituire dignità a chi ne è stato deprivato e affidare responsabilità concreta, attivando un reale e consapevole protagonismo, anche critico.

    Trasformare i non-luoghi in luoghi di vita e di speranza

    Il confronto con Don Bosco, interpretato con una capacità amorevole di discernimento critico, mi porta a suggerire una quarta linea operativa: costruire luoghi dove far sperimentare la speranza.
    Don Bosco è un grande costruttore di opere educative per i giovani. Lo ha fatto per raccoglierli dalla strada, per assicurare esperienze di crescita, abilitarli ad una professione che potesse rassicurarli verso il futuro. I frutti di questo coraggio si sono disseminati velocemente per il mondo.
    Oggi questi modelli sembrano in crisi per mancanza di domanda e di significato: nei nostri contesti culturali sono sempre meno i ragazzi e i giovani che hanno bisogno di una ospitalità come quella che Don Bosco ha riservato a tanti. Certo, l'affermazione non può essere generalizzata: vale per il nostro contesto sociale, in linea dí massima; vale molto meno per í tanti contesti del sud del mondo in cui sfamo presenti e operiamo.
    Non mi piace però concludere con l'ipotesi che dobbiamo restare disoccupati o specializzarci in altre frontiere.
    Sono convinto della necessità di costruire luoghi dove poter sperimentare in modo concreto la speranza verso il futuro. Sono luoghi dove si respirano fatti di speranza, nel coraggio di affrontare le questioni della vita quotidiana secondo modalità alternative a tante dominanti.
    Forse non abbiamo bisogno di inventare luoghi di aggregazione: nascono e muoiono spontaneamente. Spesso però questi luoghi sono non-luoghi dal punto di vista del senso, della speranza, delle relazioni... una piazza su cui scorrono le proposte più disparate o una discoteca dove la relazione viene assicurata solo alzando a dismisura il tono della voce o lasciandosi sedurre dal clima di branco.
    Nello stile di Don Bosco, in una prospettiva molto diversa dalla sua, possiamo continuare la sua presenza trasformandoli in luoghi dove sperimentare la speranza.


    T e r z a
    p a g i n A


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