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    Alla scoperta del mondo organizzato (quarta parte di: «Agire innovativo nella pastorale»)



     

    FARE I CONTI CON L'ORGANIZZAZIONE

    Organizzazione! Azione collettiva organizzata!
    Nel mondo dello spirito e dei valori appaiono pressochè interdette simili espressioni. E' difficolso avvertire che anche la comunità ecclesiale, come gli altri universi sociali, è sottoposta a tutte le dinamiche organizzative proprie dei fenomeni umani.
    Sì, certo si concede che l'organizzazione sia parte della vita religiosa, ma questa, tutto sommato, non ne viene toccata che tangenzialmente. L'organizzativo fa solo da supporto. In fondo sembra quasi che l'azione pastorale o educativa non faccia altro e solo che rivestirsi della necessaria organizzazione. Ma diverso è occupare il fatto organizzativo dall'essere immersi nel fenomeno organizzativo.
    Sotto il profilo sociale e culturale, l'azione pastorale non può chiamarsi fuori dai dinamismi organizzativi, anzi se vuol realmente corrispondere alla sua alta finalità deve fare coraggiosamente i conti con l'organizzazione e le sue dinamiche.
    Essa deve interrogarsi seriamente sull'azione collettiva organizzata: sulla sua configurazione e sul suo significato, sui dinamismi organizzativi cui non può sottrarsi, sulla struttura e la cultura organizzative che attraversa l'azione pastorale.
    Deve domandarsi perchè l'organizzazione riesce a condurre a termine esiti che singoli non ottengono; perchè gli individui, parte di un'organizzazione, assumono o modificano comportamenti conguenti alla loro appartenenza; perchè una qualsiasi organizzazione orienta e guida i suoi membri nelle condotte quotidiane.
    Non può svicolare dal chiedersi come e quando cambiano le organizzazioni; se c'è una maniera per apprendere azioni collettive organizzate; in che modo l'ambiente influisce sulle prestazioni; come un'organizzazione può influire sulla società.
    Sono tutti interrogativi che interessano una qualsiasi realtà organizzata, e quindi anche la comunità parrocchiale, un oratorio o una sucola, un centro sociale, una associazione.
    A scanso di equivoci, simili questioni non vengono sollevate persuggerire la manipolazione dei fenomeni, sempre possibile, spesso in modo inconsapevole, bensì per porre all'attenzione degli operatori la serietà del fatto organizzativo come una realtà su cui misurarsi e misurare la propria azione. Peraltro l'intento di qualificare l'intervento pastorale, sotto il profilo umano, non è solo opera di adeguatezza e di responsabilità, ma anche di inculturazione della fede nei dinamismi, che trovano l'uomo protagonista.

    IV. ALLA SCOPERTA DEL MONDO ORGANIZZATO

    Ciascuno di noi ha esperienza di organizzazione: vi si trova immerso ogni giorno. Sa per istinto che essa è un insieme di persone, che si muovono riunite formalmente e che tentano di perseguire obiettivi comuni.
    Ma affermare questo non basta, si rischia di cadere nel falso. I viaggiatori di un treno, anche se corrispondono alla descrizione di cui sopra, non sono un'organizzazione. I membri di una setta religiosa, pur non essendoci una registrazione notarile, li diciamo un'organizzazione. Un operatore, che persegue i suoi fini individuali, è parte di un'organizzazione.
    Senza dubbio le organizzazioni sono insiemi di persone. Ma per essere realmente tali hanno bisogno di talune qualità.
    L'organizzazione, artefatto sociale, ha sempre però all'origine un attore intenzionale: è fondamentale che vi sia una deliberazione che sfoci in un organismo. Una vera organizzazione non germina spontaneamente, da sola. Appare decisivo l'esito dell'impegno di una o più persone, che a un certo momento giungeranno persinoa codificare delle regole. L'intezionalità umana dell'azione collettiva costituisce il fatto organizzativo.
    Ma non basta: si è detto degli scopi comuni dell'organizzazione. La questione però non sta veramente in questi termini. L'organizzazione in sè non ha fini. Sono solo gli individui che portano con sè delle finalità, assai spesso complesse, ambigue, contradditorie. Non si deve idealizzare il fenomeno, ma capirlo: l'azione organizzativa è possibile anche in presenza di fini e interessi diversificati. Basti pensare a un operaio che persegue solo il risultato del suo stipendio o all'insegnante, che formalmente presente nella scuola, non crede in ciò che fa. Questo non smentisce che nelle organizzazioni i membri seguono tendenzialmente gli stessi valori. Eppure l'ambivalenza dei fini rimane un punto fermo.
    Ripensiamo tutto ciò, per un primo approccio a quanto ci interessa, in termini di comunità parrocchiale, di oratorio, di scuola.
    La prima reazione potrebbe obiettare che la scuola non è l'oratorio e che la comunità parrocchiale è diversa dalla scuola. Ogni organizzazione possiede i suoi fini o perlomeno i propri compiti. E' vero, ma altamente scontato. Qui non si vuole mettere in dubbio l'identità della configurazione istituzionale, bensì sottolineare con forza che nelle nostre comunità quelli che chiamiamo i fini dell'organizzazione sono in verità assai spesso i fini delle persone che vi partecipano. Per questo riscontriamo oratori che diventano autentiche piazze o al contrario serre per eletti; scuole il cui vanto sono gli alti livelli di istruzione formale e altre che mirano dirattamente alla formazione delle personalità; parrocchie che appaiono come supermarket del culto o riserve per pochi, oppure comunità il cui determinante è accompagnare nella fede o portare l'evangelo tra la gente.
    Certo sono definiti i campi di attività delle singole organizzazioni, ma quanto ai fini occorre riconoscerne la complessità: alle intenzioni dichiarate si accostano quelle nascoste, alle consapevoli le inconscie, alle consuete quelle inedite.
    Alla base sembra riscontrare una sorta di convinzione ancestrale: l'organizzazione è uno strumento razionale per raggiungere i fini prefissati. Niente di più illusorio: la metafora che l'organizzazione è un meccanismo da oliare per farla funzionare, è un falso. Il tutto sta ad uscire da un equivoco che persiste. Intendiamo leggere perciò la realtà organizzata nella verità delle sue complesse manifestazioni ed espressioni. Oppure si vuol rifugiarsi nel comodo mondo ideale
    che inevitabilmente cela il reale?!
    Le nostre comunità possono essere descritte nella loro prospettiva ideale. Ma questo non è il compito che ci prefiggiamo. Ora ci pare più urgente "l'intelligenza" dell'organizzazione come si presenta nella sua realtà fenomenica, ossia comprenderla nei suoi umani dinamismi e nelle reali funzioni sociali.

    1. Come si configura un'organizzazione

    Ogni organizzazione ha le sue caratteristiche: il tipo di attività, la durata d'impegno che richiedono all'individuo, le diverse forme di controllo, la differente condivisione dei compiti...
    C'è però qualcosa che la segna profondamente e merita di essere indagato: sono i tratti che delineano la sua configurazione.
    Uno di questi è il momento di passaggio a membro dell'organizzazione. Avviene di norma con riti, cerimonie o procedure, che risultano di altissima valenza simbolica, esaltando il senso di appartenenza. Il gesto permane, come riferimento anche al di là della sua condivisione: si pensi alla funzione del battesimo per tanti credenti non praticanti, che si dicono comunque cristiani. L'inizio all'appartenenza viene sottolineato talvolta anche da segni: divise, modi di vestire. Il rito di passaggio segna comunque tutta la vita.
    Un altro tratto intende definire con precisione i posibili candidati e quanto essi devono compiere per far parte dell'organizzazione. Le forme sono diversissime, ma il senso è il medesimo. Si tratta delle condizioni di entrata che ritmano la disponibilità all'impegno comune. Così si definisce pure come ci si deve comportare con gli altri membri, e in particolare si fissano i confini per continuare a restarne membro. La regolazione implicita o esplicita delle relazioni rimane sempre vincolante, anche se non di rado lo è solo a livello esigenziale. Tutto serva a incrementare il senso di appartenenza.
    Un ulteriore tratto configura la condotta dei membri dell'organizzazione verso l'ambiente in cui si trovano. Spesso il contatto è assai limitato (si pensi alle clausure), la rappresentanza in nome dell'organizzazione è solo di alcuni. Si tenta di far veicolare all'esterno l'immagine voluta dall'organizzazione. Verso gli estranei ci può essere voglia di proselitismo, come anche proposta di condivisione. Sempre comunque viene definito qualcosa che caratterizza, in modo aperto o rigido, disponibile o reticente. Il rapporto con l'ambiente sociale non è mai lasciato a se stesso, pur non essendo controllato in ogni suo aspetto. Del resto l'organizzazione deve poter essere identificata, altrimenti si dissolverebbe dall'essere tale.
    In sintesi possiamo rilevare che ogni organizzazione, senza eccezioni, definisce le regole di condotta per i propri membri. Anche se in forme differenti, tutte fronteggiano i medesimi processi organizzativi (entrata, permanenza, relazioni).
    Così, al di dentro di questi fenomeni, cogliamo che l'organizzazione è una forma di azione collettiva che si propone dei traguardi comuni (organizzare una festa, vivere la
    fede, promuovere valori). Ma quando proferiamo la parola "organizziamoci", pensiamo soprattutto a configurare i compiti di ciascuno (differenziazione), consapevoli che ognuno ha le sue possibilità. Al contempo avvertiamo subito che i diversi compiti differenziati devono essere riportati a unità se si vuole ottenere un risultato comune (integrazione). Questi sono i due processi che rappresentano in sostanza la base dell'organizzazione (Ferrante-Zan), essendo tendenzialmente stabili e intenzionali.

    2. La dinamica di base dell'organizzazione

    Abbiamo asserito sopra che un'organizzazione è un insieme di individui, ma la loro presenza deve essere in qualche modo ordinata. Si differenziano i compiti, ma l'esito non risulta essere la semplice somma degli sforzi dei singoli. C'è ben altro.
    Ci aiuta a comprendere una esperienza comune: la squadra di calcio. Ogni giocatore ha il suo ruolo, ma il gioco di squadra non è semplicemente l'insieme dei giocatori, bensì il sistema di ruoli diversi dei giocatori, armonizzati per il raggiungimento di un unico compito.
    Questo processo di differenziazione dei compiti nelle organizzazioni durature avviene secondo un disegno progettato deliberatamente: è il sistema di ruoli che tende a stabilizzarsi. Proprio in questo sta la forza dell'organizzazione: avere un piano stabile di ruoli. Il problema per l'organizzazione allora sarà riconoscere le persone adatte a ricoprire questi ruoli, perchè da esse dipende l'esito da perseguire.
    Queste considerazioni sono rilevanti anche per le comunità ecclesiali, come per le Chiese particolari. Lo sviluppo dei ruoli e dei compiti deve essere seguito con cura: il ruolo di chi annuncia la parola o svolge la catechesi, di chi anima la liturgia o la presiede, di chi si fa carico dell'azione di carità o si impegna nella professione della carità, non può essere lasciato all'improvvisazione. Peraltro a ragione si parla di vocazione specifica. E non per nulla è sentito sempre più l'impegno di formare al compito, al ministero, pur al di dentro del cammino spirituale che riguarda tutta la persona.
    Ma, benché tutto questo sia valido, per un ottimale funzionamento dell'organizzazione non risulta sufficiente. Per raggiungere traguardi comuni non basta suddividere organicamente i compiti, occorre ricondurli a convergenza: mediante il processo di integrazione si riportano a unità gli impegni dei singoli. La modalità più tipica ed esplicita per la ricomposizione è quella del sistema gerarchico: questo assolve appunto alla funzione essenziale di garantire l'unitarietà degli sforzi. Senz'altro ai massimi responsabili è affidato il compito dell'unità. E tuttavia di consueto interviene anche un'altra modalità di integrazione: le norme di condotta. Sono regole che dirigono spontaneamente le comunità e i gruppi a comportarsi in modo tale da salvaguardare la convergenza degli intenti. Di esse spesso non ci si rende conto, ma sono attive in ogni organizzazione. Il comportamento divergente non è certo impedito, ma la propensione dei singoli tende al conformarsi, assai più che all'opporsi. In assenza di norme non esiste peraltro gerarchia
    che possa svolgere adeguatamente il suo compito. Nel campo ecclesiale ci si richiami al diritto canonico e alle norme dei sinodi diocesani. A sostegno di tutto questo si aggiunge una modalità di integrazione che oggi diviene stringente: si tratta di strategie organizzative (piani pastorali, progetti educativi) con cui vengono codificate linee programmatiche. In esse si definiscono gli obiettivi di massima, i sistemi di valore, i criteri guida, i vincoli all'agire, che funzionano da riferimento autorevole per il cammino comune.
    Ma di certo decisivo nell'integrazione dei compiti è la condivisione del sistema di valori. La sua rilevanza sta anzitutto nel fatto che i membri di un'organizzazione sentono di dover verificare e discernere le proprie scelte alla luce degli ideali e dei valori dell'organizzazione cui si intende appartenere. Si riconducono così a unità condotte che altrimenti sarebbero solo episodiche. In secondo luogo l'importanza della condivisione valoriale sta nell'incarnazione dei valori nelle persone. In termini laici si tratta di deontologia professionale, che spinge per esempio l'insegnante ad essere un autentico educatore. Perchè una scuola funzioni bene, è, infatti, indispensabile che gli insegnanti siano degli autentici professionisti. Per il campo ecclesiale occorre che gli operatori pastorali siano dei professionisti della fede, ossia dei testimoni di vita. Senza questo tutto il resto può essere invano.
    Senza dubbio tali modalità giocano ruoli differenti nell'organizzazione. Esse si aggregano o si scompongono a seconda dello stile dell'organizzazione. In talune prevarranno le norme o la gerarchia, in altre i valori. Comunemente vengono però utilizzate tutte per garantire al massimo l'integrazione.

    3. L'organizzazione influenza l'individuo

    Diamo per scontato che l'organizzazione esercita influsso sugli individui. Ne intuiamo forse il perchè alla luce di quanto scritto sino ad ora. Ma approfondiamo.
    L'organizzazione, proprio perchè tale, influenza di fatto i comportamenti dei singoli. Anzitutto perchè i membri si attendono vicendevolmente comportamenti previsti: per i docenti, che gli studenti imparino; per i figli, che i genitori siano tali; per i dipendenti, che i responsabili diano ordini... E poi anche perchè ciascuno di noi si comporta in maniera diversa a seconda del ruolo che impersona.
    Di questo non ci si deve stupire: sono la condizione e l'esito dell'agire organizzato. Se non accadesse così, non sarebbe realizzabile una qualsiasi organizzazione.
    La questione però stimola a chiedersi quanto può essere vincolante il ruolo sulla condotta dell'individuo. D'intuito comprendiamo che è difficile rispondere a tale quesito, anche per la diversità dell'approccio con cui ci si accosta all'argomento.
    Sta di fatto che ogni individuo, all'interno dell'organizzazione, varia poco o tanto che sia, la condotta spontanea sulla base del profilo del suo ruolo. Senza dubbio esistono margini di libertà; e tuttavia, per l'interdipendenza dei ruoli, il singolo viene portato a commisurare la propria risposta a quella altrui. Peraltro anche la singola personalità interpreta il ruolo, e ne è intrepretata. Il gioco si sviluppa
    nella suggestione vicendevole, ma decisivo è l'influsso dell'organizzazione.

     


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