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    8. Raccontare

    fatti di speranza

    Riccardo Tonelli

    Desidero condividere qualche riflessione sulla speranza. Considero la speranza una esigenza fondamentale per vivere oggi da autentici discepoli di Gesù, nella vita di tutti i giorni, facendo cioè sport, studiando e lavorando, impegnandosi nell’ambito civile e politico per costruire una società migliore dell’attuale.
    Mi rendo conto che è un’impresa difficile.
    Non nascondiamoci infatti dietro un dito: la parola “speranza” è una di quelle trattate peggio oggi. Ne parlano tutti. Moltissimi promettono rimedi efficaci alla disperazione che ci avvolge come una cappa inesorabile di smog. E poi ci accorgiamo subito che troppi stanno prendendoci in giro. Ci circondano di belle parole solo per vendere i prodotti del loro paniere.
    Qualche volta lo fanno anche i cristiani, abusando del riferimento a Gesù per invitarci ad una strana e ingiusta rassegnazione. Un grande teologo ha avuto il coraggio di scrivere che a molti che predicano la croce di Gesù… sarebbe meglio usarla per dare ad essi legnate sulla testa.
    La prima cosa da fare è proprio metterci d’accordo sul suo significato.

    Quale speranza

    Considero la speranza il corrispettivo della vita. Vita è esperienza di felicità e di senso, capace di assicurare uno spazio dove sia possibile essere restituiti alla gioia, al protagonismo, alla sicurezza, alla responsabilità. Vita è quindi capacità di trovare quotidianamente senso e futuro anche di fronte all’incertezza, alla sofferenza, al dolore e alla morte.
    La vita è vissuta nella speranza quando siamo in grado di sperimentare, nell’incertezza della ricerca e nella fatica della quotidiana esperienza, che tutto questo ci è consegnato con quella dose di sicurezza che l’esistenza quotidiana permette. Facciamo i conti con il dolore e la morte. E siamo disposti a gridare forte, anche se con voce rotta dal pianto, che la morte non è l’ultima parola sulla vita ma è una porta da cui transitare - obbligatoriamente proprio per la dignità e l’autenticità della nostra vita – per consolidare, passo dopo passo, felicità e senso nel futuro.
    Ci rendiamo conto che tutto questo non dipende da noi: le nostre mani e la nostra potenza collettiva, sono davvero inadeguate per restituirci vita e speranza. Non rinunciamo alla speranza, perché affidiamo ad un mistero più grande, che ci avvolge e che respiriamo (la vita stessa, il suo Signore e Salvatore), il quotidiano consolidamento di una speranza che percorrere i passi concreti del nostro vivere quotidiano.
    Speriamo, perché dalla vita alziamo le mani invocando chi ci accolga, ci afferri e ci restituisca alla gioia di vivere e all’esperienza impegnativa del protagonismo esistenziale.
    Legando in questo modo vita e speranza, suggerisco che la radice della speranza sta fuori di noi, nelle mani alzate verso un mistero che posso incontrare solo sfondando il mio vissuto. Questo mistero ha un nome, nella testimonianza dei cristiani: Gesù, volto e parola di Dio, unico nome in cui essere pienamente nella vita.
    Può sembrare un modo strano di comprendere cosa sia la speranza. Qualcuno può concludere che parlare così di speranza richiede il gesto folle di scoprire che i problemi sono dentro la nostra vita quotidiana e la soluzione va cercata fuori.
    Non è proprio questo il mio modello di speranza.
    I problemi che portano alla disperazione sono dentro la mia vita. Chi li ignora o fa finta che non ci siano, si consegna con le sue stesse mani alla follia della disperazione.
    La radice della speranza non siamo noi stessi. Non ci bastiamo davvero sulle realtà che contano maggiormente. Per questo dobbiamo alzare la braccia verso l’alto, il “fuori” e “sopra” di noi. Ma le braccia alzate sono afferrate da due mani robuste, che ci riconsegnano a noi stessi e ci sollecitano a scoprire di più la nostra stessa esistenza… per trovare, nel profondo di essa, la ragione e il sostegno alla vita piena e alla felicità, facendo i conti con l’incertezza, il dolore, persino la morte.

    Siamo in buona compagnia

    A te che leggi – e un poco anche a me che ho scritto queste parole – viene subito spontanea una reazione: tutto sommato è bello… ma sarà poi vero? Non si tratta di un altro, raffinato imbroglio?
    Ci ho pensato tante volte: È bello restare critici, soprattutto di fronte alle cose più impegnative.
    Ho trovato una risposta nella storia che voglio raccontare. È la storia di quei due amici che abbiamo imparato a chiamare “i discepoli di Emmaus”. Sono un grande progetto di speranza: va dall’entusiasmo alla disperazione, alla conquista di una ragione più profonda e matura che ha cambiato loro la vita, rendendoli capaci di raccontare a tutti la loro avventura.
    Ecco la loro storia, come la propone il Vangelo di Luca.
    Ci avevano sperato tanto. Avevano accettato l'invito di Gesù con entusiasmo. Avevano lasciato tutto per seguirlo, affascinati dalla sua persona e convinti della sua causa.
    Ora però tutto sembrava finito. Nel peggiore dei modi.
    I suoi nemici avevano catturato Gesù. L'avevano sottoposto ad un processo che era tutto una presa in giro. L'avevano condannato, come fosse un malfattore, lui che aveva solo fatto del bene a tutti quelli che aveva incontrato. Poi, dopo averlo torturato, l'avevano ucciso. Tutto era finito così. Gesù aveva promesso di vincere anche la morte. L'aveva fatto con quella degli altri. Con la sua però... nulla da fare. Gesù era stato cancellato dagli occhi e dal cuore dei suoi amici. Avevano vinto i suoi nemici. Tutto doveva ritornare come prima.
    Pazienza... era stato un bel sogno, finito troppo presto e nel modo più tragico.
    Adesso non c'era proprio più nulla da fare. Bisognava tornarsene a casa, con l'amarezza della nostalgia e con un pizzico di vergogna. Era necessario riprendere in mano gli attrezzi del lavoro, abbandonati con troppa foga qualche mese prima.
    Ritornare... quelli di prima: come se nulla fosse accaduto, superando persino il sorriso beffardo degli amici di un tempo, che non avevano capito la strana voglia di mettersi dietro quel tipo di Nazareth, che stava facendosi un mucchio di nemici con le sue idee.
    Molti discepoli avevano già preso la strada del ritorno. Adesso toccava anche a loro. Buoni buoni, avevano deciso di ritornare ad Emmaus, a casa propria. Come se nulla fosse successo.
    Camminavano senza scambiarsi una parola. Non ne avevano più: le ultime si erano spente in gola con il saluto triste agli amici che restavano a Gerusalemme.
    All'improvviso, si avvicina un viandante, spuntato quasi dal nulla. Veniva come loro dalla direzione di Gerusalemme. Ma non l'avevano notato prima.
    "Buongiorno". "Salve". "Dove andate?". "Veniamo da Gerusalemme e torniamo a casa nostra ad Emmaus. Manca ormai poco, per fortuna".
    Insiste il pellegrino: "Posso unirmi a voi? Io vado oltre. La strada è lunga e, di questi tempi, anche un po' pericolosa. Possiamo farci compagnia?".
    "Accidenti... che facce tristi avete. Non l'avevo notato prima. Mi sembrate appena spuntati da un funerale. Mi sbaglio?".
    La risposta è pronta. Le parole corrono come uno scroscio di pianto. "Veniamo davvero da un funerale. Ne parla tutta Gerusalemme. Come fai a non saperlo? Hanno ucciso Gesù di Nazareth. Era nostro amico e nostro maestro. Noi stavamo con lui, condividevamo la sua passione per la liberazione d'Israele e la sua speranza nel futuro di Dio. L'hanno ucciso, inchiodato sulla croce, dopo un processo che sembrava studiato apposta per condannarlo".
    Una pausa per prendere fiato e per riandare agli ultimi bagliori di quella speranza che aveva loro infiammato il cuore.
    "Aveva fatto solo del bene: guariva gli ammalati, trattava bene i poveri, aveva una parola buona anche per i peccatori. Ha resuscitato persino dei morti. Hai sentito parlare di sicuro di Lazzaro, quello di Betania. Gesù l'ha riportato in vita, tre giorni dopo che era morto. Purtroppo parlava con eccessiva libertà di Dio e della legge. Voleva troppo bene alla povera gente.
    L'hanno ucciso. Chi? Lo sai di sicuro... i romani, ma con la complicità dei nostri sacerdoti e dei dottori della legge...
    Prima di morire, aveva promesso che sarebbe ritornato in vita, anche lui, come il suo amico Lazzaro. Ma ormai sono passati tre giorni... e non è capitato proprio nulla".
    Il secondo incalza: "Proprio nulla... non è vero. Sai, nel nostro giro c'erano anche delle donne. Stavano con noi per servire Gesù. Un paio di loro dice di aver visto Gesù risorto. Nessuno ci crede. Sono donne fanatiche... Se lo sono immaginato, accecate dal dolore e dall'amore.
    I capi, Pietro e i dodici, non hanno visto nulla.
    Tutto è finito. Torniamo anche noi a casa".
    "Calma. Non correte troppo nelle conclusioni", riprende la parola lo strano compagno di viaggio. "State facendo una lettura scorretta degli avvenimenti. Vi fermate a quello che avete visto con gli occhi. Mi spiace per voi: siete un po' ciechi. Non sapete leggere dentro gli avvenimenti".
    "Aiutaci tu... se ci riesci". "Volentieri. Ascoltate".
    Un passo dopo l'altro si avvicinano a casa. Un passo dopo l'altro, il compagno di strada aiuta a rileggere gli avvenimenti dal mistero che si portano dentro. Cita brani della Scrittura. Ricorda profezie antiche e nuove. Rende attuali lontani ricordi.
    Neppure nei tempi in cui stavano con Gesù, avevano vissuto un'esperienza simile. Allora erano tutti proiettati verso il futuro. Si erano quasi dimenticati del passato. Il presente e i progetti su esso erano troppo importanti per pensare ancora al passato.
    Adesso, invece, dal presente vanno verso il passato. Lo ricomprendono, immergendolo nel mistero di Dio. Le cose meravigliose che Dio ha compiuto per il suo popolo, diventano una specie di nuova lettura del presente. Anche il buio, l'incertezza e il dolore cambiano tono. Brillano di qualcosa che non avevano mai scoperto.
    Si guardano negli occhi. "Strano... ma allora non hanno ucciso la nostra speranza. Ce l'avevano spenta. Avevano tentato di spegnerla ed eravamo caduti nella trappola. Senza passato il nostro presente diventava disperato. Tornavamo a casa perché eravamo senza futuro. Invece... c'è speranza. Aveva ragione Gesù quando ci parlava del chicco di grano che deve morire per diventare spiga".
    "L'hanno ucciso... ma non hanno vinto. Dio vince la morte. Era tutto programmato nei piani misteriosi di Dio".
    Spontaneamente sulle labbra affiorano le parole dei Salmi. Hanno un sapore nuovo. Non se n'erano mai accorti prima.
    "E se tornassimo a Gerusalemme?". "Domani. Oggi è tardi. Non possiamo rifare il cammino di notte. È troppo pericoloso. Domani".
    Poi, ormai, ecco le prime case d Emmaus. Sono arrivati a destinazione: domani mattina, alle prime luci, si torna a Gerusalemme.
    Il compagno di viaggio fa finta di salutarli per rimettersi in cammino. "Prosegui? A quest'ora?". Insistono: "Fermati con noi. Nella nostra casa, un posto per te lo troviamo senza problemi. Dai... fermati".
    Erano rassegnati a tornare alla vita di prima. Avevano tirato i remi in barca, scoraggiati e delusi. Ma l'esperienza di Gesù li aveva segnati dentro. Respiravano l'esigenza dell'ospitalità, quella vera. Le loro parole non erano di circostanza. Venivano dal cuore. "Sta' con noi. Sei ospite nostro".
    Il viandante misterioso si ferma. Qualche resistenza, forse per saggiare l'autenticità dell'invito. Poi si ferma. Accetta l'atto di ospitalità.
    Si mettono a tavola.
    Ad un certo punto... si aprono gli occhi.
    Gesù ha fatto strada con loro. Ha pregato lungo la via con loro, aiutandoli a rileggere gli avvenimenti dal mistero che essi si portavano dentro. Li ha aiutati a pregare contemplando.
    Ora la preghiera esplode nella celebrazione. Gesù prende il pane e la coppa del vino. Li benedice e li condivide.
    Un grido: "È lui, il crocefisso è risorto. Possibile che non ce ne siamo accorti prima? Eravamo proprio ciechi, di dolore e di rassegnazione".
    Non c'è più. È tornato nel silenzio da cui è venuto.
    Le poche ore trascorse con loro, hanno lasciato il segno. Li ha guidati per mano in un'intensa esperienza di preghiera, che li ha cambiati profondamente.
    La speranza e la passione ritorna prepotente nei loro cuori intorpiditi. La preghiera e la celebrazione si spalancano verso la vita.
    Adesso non è più tardi per tornare a Gerusalemme. Non ci sono più i pericoli del viaggio notturno. Partono, di corsa: l'esperienza vissuta va comunicata agli altri.
    Ritornano a Gerusalemme, per gridare a tutti: Gesù è risorto, la sua avventura per la vita e la speranza di tutti... continua. Anzi: ricomincia.
    (Luca cap. 19)

    Narrare speranza: fatti + parole

    Un ultima cosa voglio condividere: la gente che ha trovato la speranza è contagiosa… perché riempie la testa degli amici, il territorio in cui abita, il lavoro che fa… della narrazione della speranza.
    Come?
    Della speranza parliamo producendo fatti.
    I fatti sono quelli di una qualità nuova di vita, che lascia tutti a bocca aperta, perché fa sperimentare che si può vivere come tutti, in uno stile e in una prospettiva tutta originale, come hanno fatto tanti cristiani impegnati e tanti uomini e donne coraggiose.
    I fatti però non bastano: abbiamo bisogno di “parole”, che li interpretino e li amplifichino.
    Molto lavoro resta da fare per restituire alle nostre abituali parole la capacità di interpretare – in modo consapevole e convincente – i fatti come fatti di speranza, riconducibili all’annuncio del Crocifisso risorto.
    Sono convinto che, nell’educazione e nella pastorale, dobbiamo dimenticare la vecchia lingua, che purtroppo abbiamo ormai nel sangue, per imparare una lingua nuova, l’unica che può davvero interpretare bene i fatti di speranza che produciamo.
    La lingua da dimenticare è… il “matematichese”: lo strumento linguistico attraverso cui comunichiamo le informazioni, sicure e precise, come sono le nozioni di matematica e le norme giuridiche…
    Quella da apprendere e utilizzare è l’ “amorese”: lo strumento linguistico attraverso cui, con parole e segni, diciamo ad altri il nostro amore, la nostra stima, i nostri progetti di vita.
    La comunicazione di regole matematiche, le norme giuridiche e quelle economiche esigono formulazioni precise ed esigenti. La scelta di altre modalità risulterebbe a scapito della comunicazione stessa. Le dichiarazioni di amore, la poesia e l’arte si collocano in quello stile di comunicazione in cui prevale il riferimento all’oggetto attraverso giochi di libertà e responsabilità molto personali.
    Magari, un giorno o l’altro, ne parliamo con più calma. Intanto, ripensa al cammino percorso: in “amorese” ti ho raccontato il “fatto” dei due discepoli di Emmaus.


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