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    Marco: un manuale

    di educazione alla fede

    Juan José Bartolomé

    (NPG 1996-09-45)

    Il racconto di Marco che, nella presentazione del suo autore, è vangelo di Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio (1,1) può a ragione essere considerato un vademecum per la formazione del discepolo. La ragione è ovvia: il «chi è Cristo» per il credente determina il come deve essere il cristiano. Poiché Egli vive oggi, chi lo segue deve continuare sempre a vivere come ieri è vissuto Lui. La presentazione kerigmatica di Gesù serve, infatti, all'edificazione della vita cristiana; proprio perché il Vangelo di Marco è predicazione di Cristo, esso diventa un manuale per la formazione del cristiano.
    Pertanto, dal momento che la visione kerigmatica di Gesù di Nazaret che ci viene offerta da Marco ha come obiettivo quello di incidere nella vita dei suoi lettori, il mondo da lui creato deve sostenere tanto la biografia narrata di Gesù Cristo, quanto la biografia presunta dei suoi seguaci; la maniera in cui il narratore si è immaginato il suo personaggio e il mondo di questi ha direttamente a che vedere con il modo in cui egli desidera vedere i suoi ascoltatori nel proprio.
    E benché i discepoli di Gesù, a parte Giuda, non intervengano nella narrazione in modo deciso, è estremamente significativo che, nel mondo ricreato da Marco, Gesù si trovi costantemente accompagnato dai discepoli: più che per quello che lui fa, il discepolo appartiene alla sua cerchia per stargli vicino e per seguirlo da vicino. Prima di passare all'analisi della relazione di Gesù con i suoi discepoli, esempio e norma di ogni relazione tra Cristo e i suoi seguaci, conviene quindi situarla all'interno della cornice narrativa nella quale Marco la esplicitò e scoprire la funzione che in essa svolgeva. Soltanto quando sarà chiaro il ruolo che i discepoli di Gesù svolgevano nel mondo di Marco, saremo in condizioni di apprezzare l'importanza del fenomeno e, cosa più importante, inventariare le sue mete e il metodo seguito da Gesù per raggiungerle.

    UN MODO DI AVVICINARSI AL RACCONTO DI MARCO

    Il mondo nel quale Marco ambienta l'azione resta definito per mezzo dei luoghi e dei tempi nei quali egli colloca i suoi personaggi (e i lettori), e per le persone o gruppi di persone che lo abitano e in esso intervengono; quello che egli dice su di esse e - non meno decisivo - quello che su di loro tace, è la sua maniera di identificarle.
    Questo mondo letterario, creazione redazionale, possiede un intreccio narrativo e segue un copione preciso; la trama è il mondo nel quale si sviluppano i fatti narrati, i quali, al contrario di quello che può sembrare, non sono prodotti in maniera casuale, bensì strutturati in una sequenza ordinata con estrema attenzione; il narratore si serve di questa strutturazione ordinata degli avvenimenti per creare tensione drammatica e suscitare di conseguenza nei suoi lettori una risposta determinata, quella che lui giudica conveniente, e allo stesso modo per screditare giudizi o atteggiamenti sbagliati che egli presume nel proprio pubblico di ascoltatori.

    Tempo e spazio

    Nel mondo narrativo che Marco crea non esistono barriere tra il soprannaturale e l'abituale: Dio, gli angeli, i demoni, gli uomini appaiono sulla scena, e scompaiono, prendendo sempre posizione di fronte al personaggio principale. Nonostante una massiccia presenza del divino, il mondo narrato resta nell'ambito della quotidianità; l'impressione globale che lascia è di assoluta normalità. In special modo è il paese degli ebrei ad essere lo scenario dominante e quasi esclusivo del racconto; l'ambientazione più significativa gira intorno alla sequenza Galilea-Gerusalemme-Galilea; altri luoghi, come il deserto di Giudea (1,2-6.12-13) o il tempio di Gerusalemme (11,27-12,34) hanno una indubbia importanza, come spazio per la rivelazione dell'identità di Gesù e luogo di conflitto con i suoi antagonisti, però non modificano la disposizione di base del racconto.
    Temporalmente le determinazioni cronologiche che appaiono nei primi tredici capitoli sono generiche; servono fondamentalmente come nesso letterario tra episodi e per dare a questi verosimilità storica. Marco ambienta la narrazione, che comprende lo scopo del ministero del Battista, di quello di Gesù e l'inizio della missione dei discepoli dopo la Pasqua, nel tempo del compimento, che è il tempo del vangelo; di fatto egli inizia la sua cronaca proprio con 1,14-15 quando, programmaticamente, Gesù proclama il vangelo del regno di Dio, e la termina con 16,8 con l'annuncio della buona notizia della resurrezione di Gesù.

    I personaggi

    Gli attori che abitualmente e popolano il mondo di Marco sono Gesù, le autorità religiose, i discepoli e il popolo. Insieme a questi appaiono altre figure, le quali o esercitano delle funzioni importanti in un determinato momento del racconto (Giovanni Battista [1,4-8], Erode Antipa [6,14-29], Pilato [15,1-15] o sporadicamente servono per sottolineare dei comportamenti che, per contrasto, definiscono quelli del personaggi principali (la fede di Giairo in Gesù [5,21-24, 35-43]; Simone di Cirene fa quello che dovrebbero fare gli apostoli [15,2; cf 8,34]).
    Gesù è il protagonista del racconto, che domina completamente (salvo 1,4-6; 6,17-29) e a cui dà unità; la maniera in cui lui sottopone a giudizio avvenimenti e personaggi è accettata dal narratore e da questi proposta come normativa ai suoi lettori. Attraverso quello che dice e fa, Gesù lascia vedere la sua identità personale, che ha le sue fondamenta in una relazione unica con Dio (1,11; 9,7; 12,6). Soltanto il narratore (1,1) e i personaggi soprannaturali (Dio: 1,11; demoni: 1,24.34; 3,11; 5,7) conoscono la filiazione divina di Gesù; gli uomini, siano seguaci o antagonisti, reagiscono con perplessità (1,24, cf 1,27, 1,34, cf 2,7; 3,11, 4,41; 5,7, cf 6,3); l'opinione pubblica si mostra divisa (6,14-16) e potrà soltanto osservare con curiosità il suo mistero personale alla fine del racconto: per sapere chi egli sia si deve aspettare di vederlo in croce (15,39). Il lettore che conosce il punto di vista del narratore può valutare l'errore di tutti e la sua causa.
    Le autorità, sia civili che religiose, sono gli antagonisti. Dopo Gesù essi sono gli attori più influenti del racconto. Marco, che li vede come gruppo in contrasto permanente con Gesù, ne presenta un'immagine molto ostile e negativa (3,4.6; 7,6-7): mancano di vera autorità (1,22); non conoscono il punto di vista di Dio né conoscono le Scritture (2,25-26; 7,10-13; 10,2-9; 12,10-11.26-27.35-37); finiranno per tradire e ingannare Gesù (3,6; 11,18; 12,12; 14,1.10-11.55-61). Fin dall'inizio il lettore riceve la sensazione che il conflitto sia inevitabile e che il suo finale sarà tragico: l'antagonismo diventa più intenso e diretto (2,1-3,6.22-30; 7,1-13; 8,11-13; 11,15-18; 12,1-12; 14,56-58), i temi in discussione più decisivi (2,7.15-17.18-20.23-28; 3,1-5.22-30; 7,1-13; 8,11-13; 10,2-12; 11,15-19.27-33; 12,1-12.13-27.34.38-40; 14,64) man mano che il racconto procede. Con gli apostoli il suo comportamento ugualmente di chiusa opposizione (2,32-34; 7,1-5; 13,9-10); anche con la gente la relazione è negativa (6,34; 11,18; 12,12.38-40); 14,1-2; 15,9-13). Il redattore non permette ai suoi lettori di farsi una idea benevola: se in un primo momento, anche se pensano di disfarsi di Gesù, discutono con lui; quando li metterà a tacere non penseranno ad altro che alla sua morte.
    I discepoli sono presentati con meno nitidezza e scarso protagonismo; salvo Giuda, non intervengono direttamente nel corso degli avvenimenti. Seguaci di Gesù fin dal principio, sembra che non facciano niente per avvicinarglisi durante il racconto; il lettore è portato a giudicarli sempre più negativamente man mano che li conosce meglio. Il conflitto con Gesù, inesistente all'inizio, diventa sempre più profondo quando vengono pian piano a galla le esigenze reali di coloro che lo seguono; di fatto, e questo dato è significativo, il seguirlo diventa, andando avanti nel racconto, da imperativo (1,16-20; 2,14; 3,13) a condizionale (8,31-35; 9,31-34; 10,35-41). Anche se Marco distingue tra discepoli (2,15-16.18.23; 3,7.9) e i dodici (3,16-20) o ne mette in risalto di volta in volta quattro (3,17; 10,35.41; 13,3), tre (5,37; 9,2; 14,33) o uno (1,30.36; 8,29.32.33; 9,5; 10,28; 11,21; 14,29.37.54.66-76; 16,7), abitualmente li considera come un solo gruppo (6,7; cf 30-31.35; 9,31, cf 9,3335; 11,11, cf 11,12-14; 14,17, cf 14,32): sono leali a Gesù (1,16-20; 13-16; 10,28), però incapaci di comprenderlo (4,13.40-41; 6,48-50; 7,17-18; 8,17-21); quanto più Gesù si avvicina alla sua fine, tanto più essi si allontanano (8,31-35; 14,10-11.31.43-46.50.66-72): la loro incapacità di comprenderlo li condurrà al tradimento. Nonostante tutto questo il racconto non si conclude con la loro condanna: ad essi viene concessa una nuova opportunità (16,7; cf 14,28).
    Nemmeno il popolo ebreo è ben definito; messo di fronte a Gesù esso non è il suo nemico dichiarato; anzi al contrario Gesù gli dedica tempo e desidera conquistarselo (2,2; 6,34); il popolo lo cerca (1,37.45; 2,13; 3,7-8.20; 6,31; 10,1), meravigliato per un potere (1,27; 6,2) che Gesù sperimenta sugli infermi (1,34; 3,10-12; 6,6.53-56); si riunisce intorno a lui (2,2), lo ascolta con piacere (1,21-22; 6,2; 11,18; 12,37), però non riceve i segreti del regno (4,10-11.33-34); e se lo segue momentaneamente (3,7; 5,24; 6,32-34; 10,46), non si trasforma in suo seguace (3,32-35; 4,10; 15,41); la sua ammirazione, il suo stupore non portano alla comprensione (6,51-52). Quando Gesù cadrà nelle mani delle autorità, il popolo si unirà ad esse nei suoi propositi omicidi (14,43.48-49; 15,15.29-30): la folla è ben disposta verso Gesù (2,6-7.12; 11,18), però non finisce per credere in lui. Se inizialmente mostra una certa buona disposizione verso Gesù, finirà per comportarsi come un suo antagonista.

    La trama

    La narrazione fa presupporre una attenta disposizione degli avvenimenti narrati e una chiara intenzione redazionale; niente di ciò che viene narrato è casuale e tutto viene raccontato per suscitare nel lettore una determinata reazione.
    Nel racconto stesso, nella sua composizione, vi sono le chiavi della sua corretta interpretazione: quello che inizia come la cronaca di una predicazione del regno di Dio, termina tragicamente con il racconto della morte e della sparizione del predicatore; un conflitto permanente tra i personaggi e i loro progetti costituisce il motore del racconto. Gesù è al centro del conflitto e rappresenta il suo unico motivo; egli lotta contro le autorità e per Israele, e fallisce; lotta con i propri discepoli e per loro, e la battaglia rimane aperta; la resurrezione annunciata interrompe il fallimento apparente e rende possibile una seconda, e non narrata, opportunità per i discepoli. Il lettore si sente invitato a far sua l'opera che non sa se i protagonisti abbiano infine realizzato.
    Per portare a termine questo progetto editoriale, il redattore ordina la propria opera in modo consapevole: dopo il titolo, scelto dal redattore e che rivela la propria personale comprensione dell'opera (1,1), segue un prologo (1,2-13), il quale serve come presentazione del personaggio centrale che irrompe nella narrazione predicando il vangelo di Dio (1,14-15). Il racconto riguarda la sua missione evangelizzatrice, prima in Galilea (1,16-8,26), poi verso Gerusalemme (8,27-10,52), per finire tragicamente nella città santa (11,1-15,41). Un epilogo interrompe la narrazione senza chiuderla completamente (15,42-16,8).
    Il racconto di Marco incomincia e si conclude in luoghi inospitali, nel deserto (1,2-13) e vicino al sepolcro (15,42-16,8), luoghi di morte e di Dio; in effetti in entrambi interviene Dio, più direttamente all'inizio (1,11), e c'è un messaggero che parla del Signore che verrà e del suo cammino (1,2-3; 16,7).
    La Galilea (1,16-8,26) e Gerusalemme (8,27-10,52), le due parti più estese, presentano una composizione analoga, centrata intorno a un discorso, parabolico (4,1-34) ed escatologico (13,3-37). Il discorso in Galilea divide la narrazione in due sezioni; la prima si apre con la chiamata degli apostoli (1,16-20) e si conclude dichiarandoli famiglia di Gesù (3,31-35); in mezzo resta la cronaca dell'agire con autorità di Gesù (1,21-3,30). La seconda sezione si apre con la prima traversata sul mare (4,35-41) e si conclude con la seconda (8,13-21). Il discorso in Gerusalemme si divide allo stesso modo in due sezioni; la prima inizia con l'arrivo al tempio di Gesù (11,1-11) e si conclude con Gesù che osserva nel tempio la gente (12,41-13,2); in mezzo si trova l'affermazione della autorità di Gesù (11,12-12,40); la seconda si apre con la preparazione di Gesù per la sepoltura con l'unguento (14,1-19) e si conclude con la narrazione della sua sepoltura e la sua scomparsa (15,40-16,8); in mezzo si trova la narrazione della passione (14,10-15,39).
    Prima del discorso la narrazione è dominata dalla questione dell'autorità di Gesù: in Galilea viene riconosciuta da demoni, apostoli e gente, e crea opposizione da parte dei suoi nemici; in Gerusalemme l'autorità viene messa in discussione soltanto da questi, anche se non sono in grado di negarla. Quando Gesù opera in Galilea, i suoi avversari vengono da Gerusalemme (3,22; 7,1; 10,32.33-34); quando si trova a Gerusalemme i suoi apostoli vengono riconosciuti come galilei (14,71). In Galilea Gesù è il protagonista dell'azione; in Gerusalemme gli avvenimenti cadono addosso a lui. Concludendo il cammino di Galilea, e prima di incominciare la permanenza in Gerusalemme, si ripete la guarigione di un cieco, in Betsaida (8,22-26) e durante il viaggio verso Gerusalemme (10,32; 11,1), in Gerico (10, 46-52).
    Il cammino (8,27; 9,33-34; 10,32.52) è lo spazio tra la Galilea e Gerusalemme e la cattedra dalla quale insegnare a coloro che lo seguono il proprio stile di vita e conquistarli al suo programma: seguirlo si trasforma in optional, quando il discepolo conosce le conseguenze; quello che iniziò come esercizio di obbedienza sostenuto dalla promessa di Gesù (1,17-18) diventa poi decisione cosciente e responsabile (8,34; 9,35; 10,44-45); a coloro che percorrono il cammino accanto a Gesù viene predetta la sua fine (8,31; 9,31; 10,33).

    DATI ESSENZIALI PER UNA PEDAGOGIA APOSTOLICA

    Con una certa riserva distinguerei tre elementi essenziali nella pedagogia dell'insegnamento di Gesù: il regno di Dio come unico motivo o ragione che ha portato Gesù a trasformarsi da predicatore itinerante in educatore di uomini; la convivenza permanente come scelta metodologica fondamentale che predomina l'iter formativo che hanno dovuto percorrere i suoi discepoli; l'accettazione del proprio destino personale, come obiettivo o meta finale che si prefigge di raggiungere come maestro e che egli propose come ineludibile ai propri seguaci se intendevano diventare suoi discepoli.

    Il regno di Dio come motivo

    Che Gesù inizi il suo ministero con la predicazione del regno (1,14-15) e con l'invito a seguirlo (1,16-20) non è una semplice casualità: il primo intervento dell'evangelizzatore inaugura l'insegnamento. Durante tutta la sua vita pubblica Gesù non si occupò di nient'altro che di annunciare come prossimo il regno di Dio (1,21-22) che le sue opere proclamavano già incipiente (1,32-34); e sempre, salvo limitate eccezioni (6,14-29; 14,53-15,40), era circondato da persone che, seguendolo da vicino, trasformarono il Dio di Gesù nel Signore delle loro vite, desiderando viverle mettendo in pratica la volontà sovrana di Dio (3,31-35).
    Il discepolato, prima istituzione a nascere dalla predicazione del regno, ha la sua origine e causa nell'impegno da parte di Gesù di proclamare agli uomini la volontà di vicinanza di Dio che sta per realizzare in un futuro immediato. La sua coscienza di apostolo del Dio vicino gli impone la vicinanza agli uomini; da loro si dirigerà se si sono allontanati, e con loro conviverà se sono i suoi eletti.
    Non è dunque discepolo colui che ama e se lo propone, bensì colui che è amato da Gesù e riceve l'invito. Però l'amore del predicatore e la sua chiamata sono conseguenza ineludibile della propria vocazione: il discepolo, allo stesso modo del suo Signore e attraverso di lui, è al servizio del regno di Dio. Dio che verrà, la sua sovranità instaurata, sono la ragione di essere del discepolato, come lo sono della missione personale di Gesù (2,15-17).

    La convivenza permanente come metodo

    Nel racconto di Marco la vita e l'opera di Gesù restano definite dalla presenza/assenza dei suoi seguaci: appare pubblicamente in Cafarnao (1,21) dopo aver conseguito i suoi primi seguaci (1,16-20) e si appresta a morire quando gli vengono a mancare tutti i suoi discepoli (14,50-52). Colui che è morto «solo» (15,34) non ha potuto vivere senza compagni.
    In ogni momento Gesù, che per avvicinare il Regno di Dio agli uomini non ebbe una dimora fissa, impose a chi lo seguiva di fare del cammino la loro casa: l'occupazione abituale del gruppo di Gesù fu di vagare da un luogo all'altro; e la sua logica conseguenza fu la emarginazione sociale e lo sradicamento familiare. Nonostante il continuo cambiamento di posto, possono essere segnalate tre tappe nel suo ministero, che si caratterizzano anche per una diversificazione delle mete che Gesù perseguiva e per i processi che incoraggiava nell'educazione dei suoi discepoli. Nonostante la fine tragica di Gesù e del suo fallimento come educatore, nulla si conclude con la sua morte: in Galilea, di nuovo, potrà ricominciare lo sforzo.

    Galilea, un inizio promettente

    In Galilea (1,21-8,26) i discepoli di Gesù sono invitati prima di tutto a stare con lui (1,17a; 3,14a) e, in un secondo momento, saranno invitati a predicare al suo posto (1,17b; 3,14b; 6,7). In entrambi i casi i seguaci di Gesù, allo stesso modo che i dodici, si vedono designati come suoi compagni di vita e di opere apostoliche.
    Essere discepolo di Gesù consiste sostanzialmente nel convivere con lui seguendolo in pianta stabile (1,18.20; 2,14; 8,34; 10,21.28; 15,41); questo non vuol dire che chiunque lo segue debba essere considerato tale (3,7; 5,24; 10,52; 11,9). La compagnia di Gesù non sempre è la migliore, però è sempre il frutto di una scelta sua (2,17). Durante un lungo periodo di tempo apprenderanno da Gesù mentre questi eserciterà il proprio potere di curare e predicherà il vangelo alla folla (1,21-3,7), saranno a volte difesi dalle critiche dei loro avversari (2,18-27) o presentati pubblicamente come familiari (3,31-35). Ascolteranno insieme alla gente la parabole del Regno (4,1-19) e riceveranno in privato una spiegazione migliore (4,10-34): si aprono loro i segreti del regno. Dopo aver contemplato una serie di prodigi (4,35-5,43) e aver assistito alla scena in cui Gesù viene respinto dai suoi concittadini (6,1-6a), saranno inviati da lui nel suo nome e con i suoi poteri (6,6b-13.30), moltiplicando la sua attività messianica.
    Esercitati già nella missione, tornano a convivere con Gesù: contemplano incredibili prodigi (6,30-53) e di nuovo vengono difesi pubblicamente (7,1-15) e istruiti in privato (7,16-23). La ripetizione dei prodigi (7,24-8,10) prepara il serio avvertimento di Gesù contro il desiderio di avere dei segni e rappresenta un punto culminante nel cumulo di fraintendimenti che è stato fino ad allora l'essere seguaci di Gesù (8,11-21). Il periodo in Galilea si concluderà in modo significativo con la guarigione di un cieco che non si trasformò in discepolo (8,22-26): vedere non basta per credere, essere guarito non è il preambolo per essere seguace.
    In Galilea i discepoli sono compagni costanti di Gesù, dalla cui decisione essi dipendono sempre: sono scelti (1,16-20) e selezionati (3,13-14), inviati (6,7) e accolti (6,30-32), istruiti (4,10-11.34) e mandati in missione (6,8-11). Stando costantemente con Gesù, assistono ai suoi prodigi e ascoltano i suoi insegnamenti, si convertono in suoi rappresentanti legali che predicano nel suo nome e con la sua autorità (3,14-16; 6,7.12-13), cacciano i demoni (6,13, cf 1,34.39), invitano alla conversione (6,12, cf 1,14-15), ripetono gli insegnamenti (3,15; 6,30, cf 1,21-22) e i miracoli (3,15; 6,7.13, cf 1,34; 3,10), per infine, come apostoli, per ritornare alla convivenza (6,30).
    In Galilea la vicinanza al loro maestro li distingue dalle autorità e la loro permanenza vicino a lui dalla moltitudine. Però nella loro mancanza di fede i discepoli sono simili agli altri (4,13.41; 6,51-52; 7,18; 8,21). E dalla Galilea i discepoli usciranno quando saranno usciti dalla loro incredulità (8,29). Il tempo della permanenza con Gesù coincide dunque con il tempo della incomprensione: scelti personalmente e dotati del suo potere (1,16-20; 3,13-15), testimoni presenti a quanto Gesù fa e dice (1,21-22.23-28.32-34.38-39; 2,8-12; 3,10-12), non riescono a comprendere quello che lui predica (4,13; 7, 18) né quello che vedono (4,41; 6,51-52; 8,14-21): non comprendono le parabole di Gesù, l'origine della sua autorità, né la sua identità personale. Gesù, che avrebbe sperato da loro un'altra reazione, non smette di fare affidamento su di loro (6,7-12); fa in modo che l'incapacità dei suoi seguaci di comprenderlo non mini la loro realtà né rovini la loro vita in comune.

    Cammino di Gerusalemme, mete e metodologia di formazione

    Il cammino verso Gerusalemme (8,27-10,52) resta contrassegnato da un doppio atto di fede: è un tragitto che si apre con la confessione di fede del discepolo Pietro (8,29) e si conclude con quella del cieco Bartimeo, trasformato in vedente e seguace di Gesù (10,52).
    Nonostante tutto, quella dei suoi discepoli non sarà una fede completa (cf 1,1; 8,27), come Gesù avrebbe desiderati (8,32-33). Logicamente, lo sforzo educativo di Gesù si concentra sui suoi discepoli; trasforma il suo viaggio in scuola e si pone come obiettivo di conquistare i suoi affinché lo seguano; il problema per loro non gira intorno al mistero della sua persona, è centrato sulla comprensione del destino del maestro e sulla necessaria solidarietà dei discepoli. Credenti a metà, Gesù desidera condurre i suoi all'accettazione del piano di Dio, che si realizzerà con la sua passione, morte e resurrezione. Per tre volte, ed ogni volta con maggiore chiarezza, annuncia la sua fine cruenta e la sua immediata resurrezione (8,31; 9,31; 10,33-34); invariabilmente i discepoli reagiscono opponendosi frontalmente (8,32), proteggendosi con il silenzio (9,32) o, cosa anche più grave, chiedendo riconoscimenti per il futuro (10,35-40): incontrarsi con l'autentica identità di Gesù comprende l'accettazione senza mezzi termini del suo destino personale.
    Gesù approfitta dell'incapacità dei suoi discepoli per manifestare, mediante una catechesi basata quasi monotematicamente sul dare la propria vita e sull'essere al servizio degli altri (8,34-38; 9,33-37; 10,41-45), poiché tale è il progetto di Dio. Seguirlo è ora una scelta personale e rivolta a tutti (8,34); però la resistenza cresce e il conflitto con i suoi discepoli si radicalizza: il primo credente si converte in un indiavolato tentatore (8,33), non volendo pensare a Gesù come Dio desiderava. L'accortezza pedagogica di Gesù è comunque evidente: dopo il primo annuncio della sua morte e la prima indicazione sulle condizioni per diventare suoi seguaci (8,34-9,1), si lascia vedere, come è in realtà, come un ammaliatore: si mostra divino (9,2-13) e vincitore del male laddove il discepolo risulta vinto (9,14-29); però l'ordine che, scendendo il monte, dà a coloro che lo avevano visto, di non raccontare l'esperienza (9,9), rivela la convinzione del narratore che soltanto dopo la resurrezione il destino e l'identità di Gesù saranno compresi.
    Collegata alla seconda predizione (9,30-32) c'è una lunga serie di istruzioni sulla vita del discepolo: il servizio (9,33-37), la tolleranza (9,38-41), la vita esemplare (9,42-50), l'indissolubilità matrimoniale (10,1-12) e il valore delle ricchezze (10,17-31). Lo sforzo di Gesù risulta inutile: non appena ha ripetuto l'annuncio della sua consegna, i suoi seguaci cominciano subito a impelagarsi nella discussione sul più grande tra tutti; continuano a pensare secondo categorie umane e non seguendo il progetto divino (9,35-37.39; 10,26).
    Il terzo annunzio della sua morte (10,32-34), benché sia il più chiaro ed esteso, suscita di nuovo una disputa interna tra i discepoli e provoca l'ultima catechesi sull'autorità cristiana e sul modo di esercitarla (10,35-41): la ricerca del potere non appartiene al cammino di Gesù: la sua meta, e la via, è servire senza servirsi di nessuno.
    Per quanto Gesù, lungo il cammino per Gerusalemme, si sia impegnato nell'educazione dei suoi discepoli, già credenti a metà, non riuscirà a guadagnarseli per il progetto di Dio, per il quale solo lui è necessario. E affinché essi arrivino a consegnarsi corpo e anima, dovrà darsi lui prima in corpo e anima per loro. La fede del discepolo smetterà di essere presentimento o semplice sospetto soltanto quando si sarà consumata la morte del suo Signore.

    Gerusalemme, la tomba del maestro e del discepolato

    Gerusalemme (11,1-15,47), città di Dio, sarà tomba di Gesù e sepolcro della fedeltà dei suoi. Gesù dedica i giorni del suo soggiorno all'insegnamento pubblico del popolo (11,27-12,12.35-40), a mantenere maggiori distanze con le autorità (12,13-34), che riesce a ridurre al silenzio (12,34), e ad aprire la propria intimità ai suoi discepoli e annunciare loro quello che sta per succedere (11,20-23; 12,41-13,37). Tutto inutilmente.
    Fatti tanto clamorosi come l'ingresso in Gerusalemme (11,1-11), la maledizione del fico (11,12-14) o la purificazione del tempio (11,15-19) non riescono a motivare la fede di quanti lo seguono (11,22-25), già avvisati di quanto stava per succedere (13,1-37). L'elogio della vedova che consegnò a Dio tutto quello che aveva per vivere è l'ultimo insegnamento ai suoi (12,41-44): in netto contrasto rispetto sia agli scribi, che si servono di Dio per vivere (12,38-40), sia ai discepoli, che per salvarsi perderanno il loro maestro, questa donna si è messa nelle mani di Dio, ponendo nelle sue mani tutto quello che aveva per sopravvivere.
    Quanto più si avvicina la pasqua, tanto più difficile si fa la fedeltà da parte del discepolo e più inevitabile la morte del maestro. Con la morte, culmine del conflitto di Gesù con le autorità di Israele (3,6; 11,18; 12,12; 14,1-2), si interrompe violentemente il suo mistero pubblico e la possibilità che si comprenda il suo mistero personale; però allo stesso tempo questo costituisce l'avvenimento che risolve definitivamente l'enigma di Gesù, disincatenando l'atto rivendicatorio di Dio e la rivelazione della sua identità.
    Durante lo svolgimenti di una cena, l'ultima (14,12-16.22-24), Gesù annuncia la propria consegna, la interpreta come alleanza e predice il tradimento - già programmato - di un discepolo (14,10-17.21.43-49), la negazione ripetuta da parte di un altro (14,216-31) e la fuga di tutti i suoi discepoli (14,27.50-52): la sua volontà di darsi non ha affatto smosso la debolezza del gruppo; chiedendosi ognuno se egli stesso non sarà il traditore, resta evidente l'insicurezza di ciascuno: tutti sono capaci di questo tradimento, anche se soltanto uno lo consuma (14,31.43-46).
    E abbandonato dai suoi, Gesù lotta per non essere abbandonato dal suo Dio (14,32-42); la lealtà dei suoi discepoli si spezza e la solitudine di Gesù non potrebbe essere più drammatica. La notte della sua consegna è la notte del tradimento (14,43-46) e della fuga dei suoi discepoli (14,50) oltre che dell'abbandono di Dio: Dio e i suoi coincidono nell'abbandono, anche se per ragioni ben distanti le une dalle altre. E mentre Gesù darà testimonianza della sua missione messianica (14,53-65; 15,1-15), Pietro starà rinnegandolo, come era stato previsto (14,66-72). Condannato e oltraggiato, Gesù morirà gridando il suo abbandono (15,29-32.35-36). Soltanto allora, davanti alla croce, potrà nascere la vera fede: quella che egli non trovò in un discepolo, nascerà in un pagano (15,39; cf 1,1); per la prima e ultima volta qualcuno che non sia Gesù (14,63; cf 2,6) rivela senza riserve chi egli sia. Ciò che non ottennero i suoi discepoli né accettarono i suoi antagonisti, lo conseguì il centurione romano. Un fallimento più grande non si potrebbe immaginarlo per un programma di educazione alla fede!
    La fedeltà del discepolo, per quanto fosse favorita durante il periodo di convivenza e di istruzione privata, non fu possibile fino a che Gesù non sarà fedele a Dio e ai suoi fino all'estremo. Ammaestrare fede o promettere fedeltà senza accettare che colui che è stato crocifisso è il figlio di Dio, è uno sforzo inutile; è una cattiva pedagogia cristiana quella di educare per una vita di discepolato che non faccia conto su Cristo, e su questo crocifisso (cf 1 Cor 2,2).

    Di nuovo la Galilea...: la resurrezione del discepolato

    Che il racconto di Marco culmini sulla croce non significa che termini con essa. Anzi il suo racconto è rimasto incompleto; in questo risiede uno dei suoi tratti più caratteristici. Il fallimento di Gesù, che fu quello dei suoi discepoli, non durò neanche tre giorni: la sua tomba vuota svuotò di contenuto tragico la sua morte sulla croce e la morte della fede dei suoi.
    Quel giorno Dio si alzò di buon ora, più ancora dei suoi frettolosi becchini (16,-19): questi non incontrarono colui che era stato crocifisso nella tomba, perché era vivo in Galilea (16,7), proprio come egli aveva predetto (10,33-34; 14,28). La Galilea, ancora una volta, è la casa del discepolo recuperato per seguire Gesù, perché là si trova il Signore che lo ha preceduto...
    Marco tralascia di raccontare l'incontro del Resuscitato con i suoi discepoli in Galilea, benché l'esistenza del racconto (e della comunità di lettori) lo dia per certo. Non descrive, inoltre, la soluzione finale del conflitto tra Gesù e i suoi. Con loro invita il lettore a inventare il finale non narrato. Mentre Gesù vive - e vive per sempre - e ci sta aspettando, il discepolo potrà contare sempre sull'opportunità di rifare il cammino e tornare a essere seguace di Cristo. Il discepolato scomparità come istituzione del regno quando il figlio dell'uomo ritornerà a imporlo (8,38; 13,26-27; 14,62).
    La storia dei primi discepoli, le loro poche luci e la loro radicata incapacità è avvertimento e promessa, avviso e stimolo, mentre si sperimenta la propria storia di discepolo, adesso un poco più cautamente e molto più responsabilmente; perché, e a differenza dei primi, egli davvero sa che il finale della storia non è una tomba vuota in Gerusalemme, bensì i cammini aperti di Galilea...
    Mentre Lui ci precede là, ci si può avventurare a seguire le sue orme.

    Far proprio il destino di Gesù come meta

    Se il regno di Dio fu il motivo del comportamento pubblico di Gesù, e perciò la ragione dello sforzo per educare i suoi seguaci, tutto il suo lavoro pedagogico aveva per obiettivo quello di guadagnare a quel progetto di Dio tutti coloro che lo accompagnavano, mentre lo offriva al popolo. Il compito dovette sembrare semplice all'inizio, tanto a lui come ai suoi discepoli. Però quando questi si resero conto che il piano di Dio non coincideva con i loro piani, né il loro cammino coincideva con la via crucis che lo concludeva, ruppero con il maestro e abbandonarono la convivenza. Per il loro educatore il fallimento dei discepoli fu una disgrazia tanto significativa quanto la morte.
    Gesù tirò fuori alcuni uomini dal loro lavoro e dalla loro casa affinché, attraverso una vita e una missione condivisa, giungessero ad assumere il suo destino personale. La croce di Cristo, presentata soltanto a coloro che già credevano in lui... benché solo a metà, è stata - e continua ad essere - l'esame da superare per diventare discepolo. Però, a differenza dei primi, quelli che sono venuti dopo di essi sanno che Dio aspetta coloro che accettano la croce di Cristo come destino personale per mostrare loro, prima che spunti il terzo giorno, la vittoria sulla morte ed inviarli in Galilea dove li sta aspettando il Resuscitato. Nella croce di Gesù si incontrano gli uomini con Dio e nel suo sepolcro aperto si riprendono dai propri errori recuperando come missione la testimonianza davanti ai loro fratelli.


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