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    Il cibo di vita eterna

    nel tempo della storia

    (Gv 6, 51-58)

    Carlo Molari

    LAlchimia Spirituale Eucarestia
    L'Eucaristia riassume tutta la vita della Chiesa; ci sono quindi molti aspetti concentrati nel rito che stiamo celebrando. Ne scegliamo solo uno, da esaminare in questa domenica, ed è il simbolismo eucaristico in ordine alla vita eterna. Abbiamo sentito l'espressione del Vangelo: «Chi mangia di questo pane ha la vita eterna». Cosa può significare? E il "pane" a che cosa si riferisce?
    Il capitolo 6 di Giovanni in realtà non parla immediatamente dell'Eucaristia, né si riferisce all'ultima cena, ma all'azione di Gesù, che nella moltiplicazione dei pani dà nutrimento agli affamati e che con l'insegnamento guida alla vita. Il mangiare e il bere viene preso in questo brano come simbolo dell'assimilare l'insegnamento di Gesù: il pane è la sua parola.
    "Vita eterna" non significa semplicemente la vita dopo la morte, ma la dimensione spirituale della nostra esistenza, cioè quella realtà della persona che fiorisce quando viviamo il rapporto con Dio, quando entriamo nella prospettiva teologale, cioè esercitiamo la fede, la speranza e l'agape.
    Sappiamo che questa è la struttura fondamentale dell'esistenza cristiana. Noi spesso riduciamo l'esistenza cristiana alla vita morale, cioè alla legge da osservare, al bene da fare, alla verità da dire, alla giustizia da realizzare. Questo non è costitutivo della vita cristiana, ma derivato e secondario. Non dico che è male, ma che consegue alla vita teologale; non è la struttura fondamentale della vita cristiana. La vita teologale è esercitare la fede, la speranza e l'agape. Queste tre virtù teologali (si chiamano così appunto perché esprimono il nostro rapporto con Dio) traducono quell'atteggiamento fondamentale che ci costituisce figli, ma nella sua coniugazione temporale, cioè in rapporto al passato, al futuro e al presente.
    Sappiamo già che la struttura temporale è essenziale per la creatura: noi siamo tempo. Non possiamo vivere la nostra identità, se non nella successione; non possiamo pensare, se non un pensiero dopo l'altro. Non abbiamo la capacità di riassumere in un istante tutti i nostri sentimenti, tutti i nostri stati d'animo: abbiamo bisogno della successione. Per questo siamo tempo. E anche la vita teologale la viviamo temporalmente, coniugandola in forme diverse, secondo le tre dimensioni del tempo: il passato, il futuro e il presente.
    La fede è precisamente l'ascolto della Parola che viene dal passato e ci viene offerta dai testimoni. Per questo ogni volta che ci raduniamo per l'Eucaristia ascoltiamo dei racconti che narrano di esperienze del popolo di Dio, dell'azione divina nella storia degli uomini.
    La speranza è l'attesa del dono di Dio che non abbiamo ancora potuto accogliere, proprio perché siamo tempo e il nostro istante può interiorizzare solo piccoli frammenti, per cui dobbiamo costantemente attendere un dono nuovo. È l'attesa dello Spirito che introduce novità.
    L'agape, l'amore, è il rapporto nel presente con Dio, con l'Eterno che ci offre frammenti di vita, che in noi diventano doni per i fratelli.
    Quando ci raccogliamo per l'Eucaristia, facciamo memoria di eventi passati, per alimentare la nostra fede ed esercitarla; esprimiamo ed esercitiamo l'attesa del dono di Dio per i giorni che verranno, per la settimana che cominciamo, perché nulla vada perduto; e ci scambiamo reciprocamente doni di vita, con un impegno reale e compiamo gesti concreti in nome di Dio. Sono gesti simbolici, cioè richiedono l'atteggiamento interiore per essere significativi. Ogni gesto simbolico vale quando c'è un atteggiamento interiore. Se uno dà la mano ad un altro per esprimergli la propria amicizia, ma dentro di sé nutre odio o antipatia, quel gesto è un inganno. Se uno porta un mazzo di fiori per esprimere un amore che non esiste, quel gesto è falso. Anche l'Eucaristia può essere falsa. Quando non esprimiamo la fede in Dio l'Eucaristia è falsa. Quando non attendiamo il Suo dono, ma attendiamo il riconoscimento degli altri, il successo, l'aumento del capitale o tante altre cose, l'Eucaristia è falsa. Quando non esprimiamo un amore teologale reciproco, l'Eucaristia è falsa. Possiamo esprimere la simpatia per alcuni, l'amicizia per altri, ma questo non è l'amore teologale. L'amore teologale è volere il bene altrui perché si accoglie l'azione di Dio in noi e si è consapevoli del Suo amore per noi.
    Gesù l'ha espresso con una formula molto chiara nei vs. 9 e ss. del, capitolo 15 di Giovanni: «Come il Padre ha amato me e io rimango nel Suo amore, così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Amatevi gli uni gli altri». Non è quindi un semplice amore che intendiamo offrirci dandoci la mano, accostandoci insieme a ricevere l'Eucaristia: è la rivelazione dell'amore di Dio. Se non c'è l'atteggiamento interiore in ordine alla fede, alla speranza e all'agape, il gesto che insieme adesso celebriamo non è sacramento, cioè non è simbolo di una Realtà più grande, non esprime il Mistero della nostra vita, cioè l'azione di Dio in noi. Esprime la nostra simpatia, la nostra volontà di fare il bene... cose buone, ma siamo ancora noi, riveliamo ancora noi stessi, non riveliamo Dio.
    Il sacramento c'è quando c'è rivelazione di Dio. Cioè quando il Mistero della nostra vita viene espresso, tradotto, manifestato dagli uni agli altri. Ci sono dei momenti in cui realizziamo sacramenti. Ci sono dei momenti in cui sperimentiamo che cosa significa rivelarci reciprocamente l'azione di Dio. Sono i momenti luminosi di una comunità. Spesso però c'è stanchezza e distrazione; spesso siamo altrove.

    Simbolismo sacramentale

    Potremmo cadere in una certa ambiguità e pensare che simbolo siano il pane, il vino, l'altare... Certo, tutti questi sono anche simboli. Ma perché ci sia sacramento ci devono essere gesti di uomini. Il gesto sacramentale noi dobbiamo compierlo: è il mangiare insieme. Questo è il gesto simbolico. Il pane come tale non costituisce sacramento. È il mangiare insieme, è lo scambiarci doni di vita, che costituisce il sacramento, cioè esprime il mistero di Dio, l'azione di Dio in noi: «Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Amatevi gli uni gli altri».
    Quando celebriamo l'Eucaristia dovremmo poter dire: «Come il Padre ha amato me». Ciascuno di noi: il padre e la madre nei confronti dei figli; la moglie e il marito reciprocamente; gli amici fra di loro, dovrebbero poter dire: «Come il Padre ha amato me e io resto nel suo amore. Sono consapevole che in gioco nella mia vita c'è un Amore più grande, che c'è una Presenza immensa, c'è un Mistero in gioco nella mia piccola storia. Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Amatevi gli uni gli altri». Noi dovremmo scambiarci messaggi di questo tipo, ogni volta che ci raccogliamo attorno all'altare.
    Ecco perché molte volte l'Eucaristia può esser falsa. Perché compiamo gesti, ma senza immettervi significati. È come se uno dicesse parole d'amore odiando un altro. Certo, le parole sono d'amore, ma non c'è il messaggio della vita. Nel caso del sacramento non ci sarebbe messaggio di vita eterna, cioè di quella dimensione profonda della persona che cresce solo di fronte a Dio, accogliendo la Sua presenza, entrando in un rapporto vivo con Lui.
    La falsità dell'Eucaristia può apparire ancora più chiara se ci riferiamo all'impegno di scambiarci doni di vita nella società in cui viviamo. Se noi celebriamo il sacramento e poi, incontrando un povero, lo ignoriamo; se, sapendo di persone che soffrono, chiudiamo la nostra casa; se, conoscendo situazioni di violenza, non ci impegniamo a diffondere dinamiche di pacificazione, ma ci limitiamo a condannare coloro che fanno il male, non viviamo il sacramento. La condanna non salva nessuno, è la comunione che salva. Solo quando le persone che sono consapevoli di questa situazione introducono nel luogo dell'odio e della violenza spinte nuove di vita, si fanno presenti con dinamiche di amore, di benevolenza, di misericordia, allora fanno comunione, come Gesù ci ha insegnato. Allora portano il peccato del mondo.
    Ricordiamo che l'Eucaristia è il sacramento del sacrificio di Gesù, cioè della sua dedizione piena all'azione di Dio, per esprimerla come potenza di amore, di misericordia e di perdono. In questo senso ha portato il peccato del mondo: «Ecco l'agnello di Dio, che porta il peccato del mondo». Noi ci impegniamo a continuare questa missione. Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia dichiariamo esplicitamente che vogliamo portare il peccato del mondo.
    "Portare il peccato del mondo" vuol dire essere in grado di introdurre amore dove c'è odio, mitezza dove c'è violenza, di esprimere misericordia dove c'è peccato, di caricarsi del male dei fratelli, perché nessuno può uscire dal suo male, solo gli altri lo possono portare.
    In questa settimana ci saranno decisioni importanti per la pace nel Kosovo e in tutta l'Europa. Ciò significa che qualcuno è in grado di esprimere amore, così da annullare le spinte distruttrici dell'odio. Ci devono essere persone che traducono in gesti concreti, nella proprio casa, incontrando gli altri, la forza della vita come pacificazione, come amore reciproco, come perdono per le violenze subite. Ci deve essere un luogo di creatività, dove emerge una forma nuova di umanità, di rapporto.
    Questo è il significato di una comunità che si riunisce per l'Eucaristia. Non perché siamo più bravi: siamo nulla e appariamo sempre di più incapaci di fare il bene. Ma Dio in noi, cioè l'azione della Vita in noi, può esprimersi al punto da diventare gesto inedito di salvezza, invenzione di comunione e di fraternità.
    Siamo disposti a questo, oggi, perché la pace sia definitiva tra di noi? Chiediamo al Signore la consapevolezza, che ci manca, della Sua azione: Dio può realizzare meraviglie quando trova comunità accoglienti e fedeli.
    Chiediamo al Signore di continuare la fedeltà di Gesù, per essere in grado anche noi, nel nostro piccolo, di portare il male dei nostri fratelli e di trasmettere la potenza di vita che viene dal rapporto con Dio.

    (Percorsi comunitari di fede, Borla 2000, pp. 227-231)


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