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    Le 20, 27-38

     

    Per risolvere il problema - discusso allora, come oggi - del destino eterno dell'uomo, Gesù ricorre all'immagine di Dio che egli proponeva: non il Dio legislatore o il Dio giudice, ma il Dio della vita, che offre vita gratuitamente, che rende figli coloro che s'abbandonano a Lui.
    L'occasione è offerta dai sadducei, i quali erano della casta sacerdotale, rappresentavano il gruppo colto, razionalista - ma per un altro aspetto tradizionalista, perché si richiamavano ancora alle tradizioni antiche della religione ebraica, che non conosceva un destino dopo morte. Pensavano infatti che con la morte tutto sarebbe finito per l'uomo, eventualmente sarebbero sopravvissute solo delle ombre nello Sheòl. Dio perciò veniva visto non come il Dio della fedeltà nel donare vita, ma come il Dio che offre l'avventura sulla terra imponendo determinate condizioni, fissate dalle leggi. L'osservanza della legge era vissuta per assecondare la volontà di Dio, per vivere bene sulla terra. Quello dei sadducei era un gruppo minoritario rispetto a tutto il popolo ebraico, ma autorevole, fedele: viveva con impegno la fede, solo che, non credendo alla continuità della vita dopo morte, negava la resurrezione. I farisei, al contrario, come la stragrande maggioranza del popolo ebraico, utilizzava già da qualche secolo il modello della resurrezione per tradurre la fede nella continuità della vita.
    Il caso che i sadducei presentano a Gesù è ipotetico, fantastico, creato per metterlo alla prova, cioè per mostrare l'incongruenza della sua dottrina. L'incongruenza in questo caso appariva dalla difficoltà a risolvere il problema di chi sarebbe stata moglie una donna che avesse avuto sette mariti morti uno dopo l'altro.
    Gesù risolve il problema molto semplicemente, dicendo: saremo in un'altra condizione; nella vita futura non c'è la stessa regola che vige sulla terra, né la stessa modalità di vivere i rapporti. Quindi il problema non si pone. Richiama poi l'importanza dell'immagine di Dio, del modo come si vive il rapporto con Dio, per capire il senso della speranza nel futuro: non è una speranza fondata sulla nostra conoscenza della realtà umana, è una speranza fondata sulla fedeltà di Dio, che è il Dio dei viventi e non dei morti. Oggi questa affermazione di Gesù appare in una valenza ancora più ricca di quella che poteva apparire allora, perché nella loro concezione Dio come principio della vita aveva già creato tutto nella sua identità, nella sua forma. Anche le persone umane erano già tutte presenti "nei lombi di Adamo", cioè la realtà era già tutta fatta. Quindi in questo senso era il Dio della vita perché aveva già stabilito l'ordine della creazione.
    Nella concezione attuale la formula ha un significato molto più ricco, perché vuol dire che Dio conduce giorno per giorno ad una vita sempre più ricca e sempre nuova, ad una modalità di esistenza che ancora non conosciamo. Questo non vale solo in rapporto al dopo morte, ma vale anche per il processo che la vita ha, non solo sulla terra, ma nel cosmo intero. Nei miliardi di galassie, che contengono miliardi di stelle, certamente ci sono tante altre forme di vita - fondate sul carbonio o su altri elementi, non sappiamo; certamente sul carbonio è possibile, perché gli elementi che sono sulla terra esistono ovunque. Quindi quasi certamente esistono altre forme di vita che possono essere pervenute anche a modalità superiori se hanno trovato meno resistenza che sulla terra. Perché, giunta a livello di libertà e di consapevolezza, la vita si sviluppa solo attraverso scelte che possono essere di armonia o di disarmonia, di sintonia con la forza creatrice o di rifiuto della forza creatrice.
    Ma quello che è importante è che Gesù fonda la fiducia nel futuro dell'uomo sulla fedeltà di Dio. E la fedeltà di Dio non è affermata per una conoscenza teorica delle perfezioni divine, bensì per l'esperienza che ogni giorno noi ne possiamo fare. Più giungiamo a sperimentare la fedeltà di Dio nella nostra vita, più siamo in grado di attendere, cioè di coniugare la nostra speranza, giorno dopo giorno, in attesa del futuro che non conosciamo, che non possiamo descrivere, ma che attendiamo dall'inventiva e dalla creatività dell'amore di Dio.
    Il termine "Padre", che noi utilizziamo (o "Madre", o "Principio", o "Fonte") vuole appunto sottolineare questa condizione: siamo totalmente dipendenti da una forza che ci investe, da un'azione che ci costituisce, da un amore che ci avvolge e ci conduce a un destino che non conosciamo. Per questo diciamo "destino di figli", appunto perché utilizziamo i termini "Padre" o "Madre". Ma sono termini analogici, anzi, metaforici, per indicare la nostra condizione di creature: continuamente dipendenti da una forza che ci sta sollevando dalla morte alla vita, dal nulla da cui siamo partiti al tutto a cui dovremo pervenire; dal nonsenso che ci ha preceduto, che è la non esistenza, al senso compiuto che, attraverso i piccoli frammenti delle scelte sensate che possiamo compiere ogni giorno, giungiamo ad acquisire, ad accogliere nella sua forma compiuta.
    Anche il termine "resurrezione" è metaforico, e corrisponde a un modello legato alla particolare cultura del tempo di Gesù, alla cultura semita. La cultura greca utilizzava un altro modello: quello dell'anima già costituita, immortale e chiamata dunque ad una forma di esistenza perenne, eterna; anzi, per alcuni sempre già esistita. Il modello della resurrezione, invece, è un modello tipicamente semita, diventato poi il modello tradizionale della chiesa, anche se leggermente modificato proprio per l'influsso della cultura greca.
    Però questo modello non dev'essere assunto nella sua materialità, cioè nei contenuti intellettuali con cui lungo i secoli è stato utilizzato, perché ogni generazione deve riformulare il modello che utilizza. Anche il modello della resurrezione nei diversi secoli è stato inteso secondo modalità realmente diverse, secondo la concezione che avevano della materia, pensata come realtà statica, passiva, per cui doveva essere trasformata, per giungere ad essere corpo glorioso. Invece nella concezione attuale questo modo di pensare è insensato. La resurrezione non consiste nella ripresa degli atomi, delle molecole, delle strutture del corpo che ora noi abbiamo, come la testa, le mani, i piedi... queste sono modalità molto contingenti della nostra esistenza. Allora che cosa indica il modello della resurrezione?
    Potremmo dire che implica in primo luogo la continuità, nel senso che la realtà personale, che ora si sta enucleando attraverso l'esperienza corporale, giunge ad una forma che continua ad esprimersi oltre la morte.
    Possiamo chiamarla in tanti modi. Il catechismo degli adulti della CEI: «La verità vi farà liberi», accennando a questo problema dice che di per sé potremmo anche utilizzare il termine "anima", per indicare questa realtà che si sta costituendo in una forma definitiva, fino a raggiungere l'identità dei figli di Dio. Ma capite che in questo senso "anima" ha un significato diverso da quello che aveva presso i greci, per i quali invece era una realtà precedente, che si trovava a disagio nel rapporto col corpo. E anche di per sé il significato del termine "anima" utilizzato così è distinto dal termine ebraico "nefesh" (tradotto abitualmente "anima" o "vita"), che voleva dire "l'uomo in quanto vivente", e quindi indicava la concretezza della persona umana nella sua dimensione di vita.
    I termini cambiano continuamente, ma la realtà cui si riferiscono resta. Siccome la realtà a cui si riferiscono (il nostro divenire figli di Dio) è molto più ricca di quello che noi riusciamo a pensare e ad esprimere, comprendiamo perché lungo i secoli i termini hanno subito cambiamenti semantici profondi. Nell'usare questo termine, quindi, e nel pensare al nostro futuro, credo che sia necessario individuare quali sono i messaggi fondamentali veicolati attraverso parole e pensieri.
    Il primo elemento del messaggio è quindi l'idea della continuità, cioè la stessa realtà che si sta formando giunge poi ad una forma compiuta e definitiva, che non sappiamo in che cosa consiste.
    Il secondo messaggio fondamentale è che la nostra esistenza attuale pone le condizioni della modalità di esistenza futura. Cioè noi saremo quello che ora stiamo diventando. E lo stiamo diventando attraverso i nostri pensieri, le nostre decisioni, le nostre fantasie, i nostri desideri, gli atti che compiamo. Nella loro realtà ambigua: per il bene che contengono, consentono il divenire positivo della nostra dimensione personale - o spirituale - ma per il male che contengono resistono al divenire, impediscono il fluire della vita, non consentono all'azione creatrice di tradursi in strutture nostre: non siamo in grado di interiorizzare tutto il dono offertoci.
    Di qui la necessità di avere momenti di riconciliazione, cioè di recupero del passato. E di qui la necessità di avere momenti di esercizio della speranza, di accoglienza del futuro che irrompe, in modo da prepararci, attraverso le scelte di ogni giorno, a ciò che dobbiamo diventare. A livello nostro, infatti, cioè a livello umano, per quello che ci è dato capire, il processo non avviene senza una consapevolezza e senza una armonia di vita. Non diventiamo viventi se non vogliamo. Possiamo restare quello che siamo, chiusi nei nostri pensieri, nella nostra sensibilità, nei nostri sentimenti - che hanno pure un valore, ma sono provvisori, sono inadeguati alla nostra vita. Sono funzionali ad un divenire, ma se il divenire non c'è? se lo impediamo? anche quello che noi siamo perde senso, se il suo senso sta nel rendere possibile il futuro.
    Questa è la ragione per cui molte volte noi scopriamo un'insensatezza di fondo nella nostra esistenza, una inutilità radicale di ciò che siamo e di ciò che facciamo - pur facendo delle cose buone, compiendo azioni in sé significative. Credo che questo stato d'animo, che è molto diffuso nella nostra società, dipenda proprio dalla mancanza di connessione col futuro a cui siamo chiamati. Le esperienze che compiamo in se stesse hanno un significato, ma siccome il loro significato vero, profondo, sta nella tensione che portano a ciò che saremo, quando questa tensione non viene colta consapevolmente, non viene vissuta, esse perdono il loro senso vero.
    L'insensatezza che a volte sperimentiamo non viene quindi semplicemente dal male che compiamo, dall'egoismo che introduciamo, dalla possessività con cui viviamo i rapporti e così via: l'insensatezza viene anche - e forse in modo più radicale - dalla mancanza di connessione tra le scelte che compiamo, gli stati d'animo che viviamo, i pensieri che alimentiamo, e il destino ultimo a cui siamo chiamati, l'identità definitiva di persone che pian piano dovrebbe costruirsi, ma che si costruisce solo se viviamo con consapevolezza, con sintonia vitale, le diverse esperienze che s'intrecciano nelle nostre piccole giornate.
    La conseguenza immediata è la responsabilità che ciascuno di noi ha nei confronti del suo futuro. Ma anche del futuro dei suoi fratelli, dato che questo processo non avviene in modo esclusivamente individuale. Il processo avviene attraverso connessioni, attraverso rapporti, in cui ciascuno scambia doni di vita con gli altri.
    Ma anche questo scambio di doni vitali porta il segno dell'insensatezza se non si coglie la connessione col destino ultimo cui tutti siamo chiamati e verso il quale insieme stiamo camminando.
    In questo senso la fraternità fra tutti gli uomini, nel suo fondamento ultimo, non è costituita dal fatto di venire tutti da Dio, dell'essere tutti stati creati da Lui, dall'avere tutti la stessa natura. Questo è ancora insufficiente. La vera fraternità, quella che Gesù aveva proclamato e continuamente ha richiamato, è la fraternità fondata su quell'azione di Dio che ci conduce al destino ultimo cui possiamo pervenire solo insieme ad altri fratelli.
    Per questo ogni volta che noi ci raccogliamo in preghiera nell'Eucarestia richiamiamo la legge della comunione. Non perché tutti veniamo da Dio (anche se questo è vero), ma fondamentalmente perché tutti siamo chiamati a raggiungere il traguardo del nostro destino come figli di Dio, a scambiarci doni di vita per consentire questo lungo cammino verso la nostra identità definitiva. La consapevolezza perciò del nostro destino, la responsabilità che abbiamo ogni giorno nelle nostre scelte, coinvolge tutti gli altri accanto a noi.
    Chiediamo al Signore di essere sempre attenti a questa nostra condizione, per non lasciarci condurre solo dalla superficie dei nostri stati d'animo, dei nostri istinti, della nostra sensibilità, dei nostri interessi e trascurare quella dimensione profonda della nostra persona per la quale siamo in comunione con tutti i nostri fratelli, chiamati dallo stesso Padre a raggiungere insieme lo stesso destino.


    T e r z a
    p a g i n A


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