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    Santità "quotidiana"

    Massimiliano Scandroglio *

    Nell'Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, pubblicata nel marzo 2018, papa Francesco ribadisce un principio, che, per quanto all'apparenza scontato, può risultare disatteso nel quotidiano vissuto ecclesiale: ogni cristiano è chiamato alla santità. Ricorda, infatti, che: «Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché "Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità". Il Signore nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza ad un popolo» (GE, n. 6).
    A questo popolo, chiamato alla salvezza, lo Spirito non fa mancare i suoi doni di grazia, che lo santificano; che lo rendono, cioè, trasparenza affidabile del volto del Padre nella capacità di amare "a sua immagine e somiglianza". E, nel sintetizzare la finalità complessiva di questo suo documento Francesco afferma: «Quello che vorrei ricordare con questa Esortazione è soprattutto la chiamata alla santità che il Signore fa a ciascuno di noi, quella chiamata che rivolge anche% te: Siate santi, perché io sono santo» (GE, n. 10).
    Quest'ultima affermazione è ripresa direttamente dal libro del Levitico (11,44-45; 19,2; e anche 20,7.26; 21,6), di cui costituisce una sorta di "motto", capace di esprimere la tonalità e lo scopo di tutto lo scritto. Nella contemplazione di Dio e della sua santità, Israele può riscoprire anche il senso della propria elezione: testimoniare con le parole e con le opere la misericordia del Signore, di cui è primo e immeritevole beneficiario. Levitico si configura come una sorta di "carta fondamentale" del popolo di Dio: popolo reso santo dall'opera della grazia (cfr Levitico 20,26: Siate santi per me, perché santo sono io, il Signore, e io vi separo dagli altri popoli per essere miei). In questa antologia variegata di leggi, concentrate in misura dominante, anche se non esclusiva, sulle questioni legate al culto, Israele possiede un florilegio di indicazioni utili a non rendere vana la propria vocazione. E anche noi, oggi, possiamo trarne spunti importanti per cogliere in tutte le sue sfaccettature il senso della sandali acni siamo chiamati.

    Levitico e il concetto di "santità": una posizione rivoluzionaria

    L'aggettivo ebraico qadós ("santo" pare derivare etimologicamente da una radice qdd con il significato di "tagliare/ separare", giustificando pertanto la sua applicazione a tutte quelle realtà che, a motivo della loro "sacralità", devono essere mantenute "distinte" da ciò che è impuro, o più semplicemente profano. Ovviamente questa qualità è riconosciuta in primis a Dio, il "tre volte santo", come lo definiscono i cori angelici contemplati da Isaia in occasione della sua vocazione (Isaia 6,3: Santo, santo, santo il Signore delle schiere; tutta la terra è piena della sua gloria! (cfr anche Salmo 99,3.5.9). Parlare del Signore come del "Santo" per eccellenza significa confessarne l'assoluta singolarità nella capacità di amare, e quindi di salvare; sono, infatti, le opere da lui compiute durante la storia della salvezza a dare piena conferma di questa sua qualifica.
    A motivo della relazione distintiva che intrattiene per grazia con il Signore, Israele è chiamato a partecipare della medesima condizione di santità: ovvero, ad amare secondo il suo esempio. L'essere santo per Israele significa, in altre parole, corrispondere nei fatti e con libertà alla figliolanza che gli è stata immeritatamente donata e a essere così testimone credibile della misericordia del Padre (cfr Esodo 19,5-6).
    La qualifica della santità, tendenzialmente riferita al popolo dell'elezione nella sua totalità, è tuttavia attribuita anche ad alcune particolari realtà, che più direttamente richiamano la trascendenza di Dio, la sua meravigliosa alterità: si tratta di tutto ciò che in un modo o nell'altro ha a che fare con la sfera del culto. Luoghi, oggetti, persone e riti sacri sono strumenti dei quali il Signore si serve per entrare in comunicazione con il suo popolo e per santificarlo. A Israele è chiesto pertanto di mostrare rispetto per ciò che gode di questa particolare condizione, nutrendo così gratitudine per il dono della relazione filiale con Dio.
    Levitico, da questo punto di vista, propone un passo in più. Chiamato a divenire "nazione santa e popolo sacerdotale", Israele deve essere consapevole che è tutta la sua esistenza a dover essere spazio di comunione con il divino, luogo della sua adorazione e occasione per esprimere amore verso di lui. È la vita così a diventare santuario, e l'amore per il prossimo il mezzo privilegiato per rendere culto a Dio. Questo principio, che già è inscritto nella forma e nei contenuti del Decalogo (Esodo 20; Deuteronomio 5) è ripreso dall'autore del libro del Levitico e correlato al tema teologico della santità.
    Per apprezzare questa – a suo modo – rivoluzionaria prospettiva, il testo più promettente è Levitico 19,1-19a: una miscellanea di leggi, costruita avendo come punto di riferimento autorevole proprio il Decalogo. Il brano si apre con l'espressione – una sorta di aforisma – che ha contribuito alla sua popolarità: Siate santi, perché / come io, il Signore, vostro Dio, sono santo! (v. 2a). Più che un vero e proprio comando a essere santi, qui troviamo rivelata la possibilità straordinaria di essere santi. Pertanto, tutto ciò che segue non deve essere inteso banalmente come una serie di disposizioni finalizzate al conseguimento, bensì all'accoglienza di tale condizione, sempre gratuita e sempre immeritata. Tali disposizioni sono organizzate sostanzialmente in due sezioni: nei vv. 2b-8 sono esposte alcune normative attinenti alla relazione con Dio, mentre nei vv. 9-18 altre che riguardano la relazione con il prossimo, su cui ci soffermeremo.

    Le disposizioni etiche in Levitico 19

    All'inizio della sezione di Levitico 19 dedicata ai rapporti con il prossimo vi è un riferimento a due contesti altamente simbolici: la mietitura e la vendemmia (vv. 9-10), ossia due passaggi decisivi dell'anno agricolo, nei quali l'israelita può toccare con mano la benedizione di Dio sulla sua casa. Proprio in quella circostanza lo si esorta a non dimenticarsi di coloro che non godono della medesima possibilità. Si richiede di non essere troppo scrupolosi nel raccogliere i frutti della terra, ma di lasciare qualcosa sul campo, in modo tale che i poveri che vi passeranno in seguito per spigolare e per racimolare vi possano trovare di che sfamarsi, partecipando della medesima benedizione (cfr anche Deuteronomio 24,19-21).

    Levitico 19,9-18
    9Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; '°quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. [...] 11Non ruberete né userete inganno o menzogna a danno del prossimo. 12Non giurerete il falso servendovi del mio nome: profaneresti il nome del tuo Dio. [...] 13Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; non tratterrai il salario del bracciante al tuo servizio fino al mattino dopo. 14Non maledirai il sordo, né metterai inciampo davanti ai cieco, ma temerai il tuo Dio. [...] 15Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero né userai preferenze verso il potente: giudicherai il tuo prossimo con giustizia. 16Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo prossimo. Li 17Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. 18Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso.

    A essere, invece, evidenziato nei vv. 11-12 è il valore dell'onestà, a ogni livello. Il primo caso, presentato nel v. 11a, necessita di qualche precisazione dal punto di vista linguistico. La traduzione del verbo gànab con "rubare" non sembra, infatti, del tutto opportuna, in considerazione di quanto si richiede poi nel v. 13: si tratterebbe di uno strano doppione. Questa radice, che si ritrova anche nel testo del Decalogo (Esodo 20,15; Deuteronomio 5,19), oltre a indicare normalmente il furto, può essere impiegata anche per il sequestro di persona (cfr Esodo 21,16; Deuteronomio 24,7; e anche Secondo libro dei Re 11,2); più propriamente, per la illegittima riduzione in schiavitù di una persona a causa di un debito contratto ("schiavitù per debito"). Levitico 19 potrebbe, dunque, richiedere all'israelita di non ledere la dignità del fratello, rendendolo schiavo per motivi inconsistenti (così anche Amos 2,6).
    Nel v. 11b si ricorre, invece, a due espressioni che fra loro costituiscono una polarità, funzionale a indicare tutte le possibili sfaccettature di un determinato comportamento. Alla lettera la traduzione dovrebbe suonare come segue: Non negherete una verità (da kahass) e non affermerete una falsità (da saqad). La finalità del comando è di garantire una costante e piena corrispondenza fra la parola e la verità dei fatti; in modo particolare in contesti spinosi come – ad esempio – i processi giudiziari. Proprio a questo ulteriore ambito sembra essere dedicato il versetto successivo.
    La delicatezza delle testimonianze in sede processuale trova conferma nella ricca legislazione israelita in materia (ad esempio Deuteronomio 17,6-7; 19,15-20). In Levitico 19,12 è ribadita l'importanza di un corretto uso del giuramento in nome di Dio, che aveva nella testimonianza in ambito giuridico uno dei suoi contesti più comuni. Possiamo ragionevolmente immaginare che nei processi la testimonianza fosse introdotta da una formula di giuramento contenente il nome divino; in questo modo la persona chiamava il Signore a farsi garante della veridicità della propria testimonianza, e quindi eventualmente a intervenire – in tempi e modi a sua discrezione – in caso di dichiarazione menzognera.
    Nei vv. 13-14 è chiesto di astenersi da ogni forma di sfruttamento del prossimo, mostrando invece rispetto per la sua persona e per quanto possiede. Anzitutto la normativa si preoccupa dei beni materiali, ricorrendo ancora una volta a due espressioni fra loro complementari. Il v. 13a potrebbe anche essere reso così, senza forzarne più di tanto la lettera: Non prenderai (in maniera illegale) (da 'asaq) e non tratterrai (in maniera illegale) (da gazal) ciò che appartiene al tuo prossimo. Rispettare le proprietà equivale a rispettare la persona e la sua dignità. Ancora più specifico il dettato del v. 13b, dove tale premura è esemplificata in un caso concreto: la puntualità nella concessione del salario al termine di una giornata lavorativa (cfr Matteo 20,1-16). Tenendo presente che nel mondo biblico i lavoratori erano normalmente "a giornata", la corrispondenza della paga al momento opportuno costituiva una necessità vitale per colui che contava su questa retribuzione giornaliera per il mantenimento della propria famiglia; oltre a essere un'opportunità, sempre gradita, di vedersi riconosciuto il valore del proprio lavoro.
    Muovendosi nella stessa linea argomentativa, il v. 14 ribadisce il divieto di sfruttamento di un soggetto in condizioni di debolezza, offrendone due suggestive esemplificazioni. Il "timore di Dio", cioè la devozione nei suoi confronti da parte del credente israelita, si concretizza nel non profittare dei limiti del prossimo, mettendone in discussione l'onorabilità, per ricavarne un vantaggio personale. I due esempi forniti sono quelli del sordo che viene maledetto e del cieco che viene fatto inciampare. Il messaggio sotteso è piuttosto esplicito: il sordo potrà anche non udire e il cieco non vedere le ingiustizie ricevute, ma il Signore ci sente e ci vede benissimo!
    Ritornando ancora al contesto dei procedimenti giudiziari, il v. 15 invita a non usare alcuna forma di parzialità in giudizio, chiunque sia il convenuto in tribunale. Nessuno, povero o ricco che sia, deve essere reso oggetto di un'indebita preferenza, nel momento in cui si deve trattare il suo caso: ognuno dovrà essere giudicato secondo la legge, senza alcuna preferenza.
    Anche il seguente v. 16 pare rimandare all'ambito forense, per quanto in maniera meno diretta. Può essere utile anche in questo caso una parafrasi del testo, per coglierne meglio il contenuto: Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo (cooperando attivamente alla morte del fratello), né ti mostrerai indifferente di fronte all'ingiusta calunnia (cooperando passivamente alla morte del fratello). Qui si biasima la cooperazione attiva e/o passiva alla morte del prossimo mediante lo strumento della calunnia (cfr Geremia 6,28; 9,3; e anche Proverbi 11,13). La calunnia – attivamente alimentata o passivamente tollerata – può concretizzarsi in uno specifico capo di accusa, che, in casi di particolare gravità, potrebbe condurre anche all'ingiusta condanna a morte dell'accusato, come nel caso di Nabot (Primo libro dei Re 21).
    Il testo si conclude con espressioni, che danno ai vv. 17-18 il sapore di un epilogo, concentrato sul tema dell'amore del prossimo. In un primo tempo (v. 17) si proibisce di nutrire odio nei confronti del prossimo, e quindi di tramare concretamente il male contro di lui. Come rimedio, si esorta a ricorrere allo strumento della "correzione fraterna", che consente di non essere corresponsabile per omissione della colpa altrui (cfr anche Ezechiele 3,18). In un secondo tempo (v. 18) sono messi sotto accusa la vendetta e il rancore, intesi come frutti dell'odio contro il prossimo; l'uno nel campo dell'agire e l'altro in quello dei sentimenti e dei pensieri. L'idea di Levitico è che l'israelita che ha qualcosa contro il proprio fratello non deve cedere alla tentazione di farsi giustizia da solo, ma reagire a questa pulsione interiore con l'amore, concreto e fattivo.

    Popolo "santo", ovvero "capace di amare"... a partire dal prossimo

    Quest'ultima ingiunzione ci offre lo spunto per qualche suggestione conclusiva, che ci aiuti ad apprezzare ancor meglio la pregnanza e l'attualità di Levitico 19: Amerai il prossimo come te stesso! (v. 18). In ebraico il sostantivo rea` (cfr anche Levitico 19,13.16) identifica il soggetto – israelita o meno (cfr Esodo 11,2) – con il quale si vive una certa "prossimità" a vario titolo. L'attenzione del testo biblico per il rapporto con il prossimo non è da intendere, però, in senso esclusivo, come se presupponesse necessariamente un atteggiamento di astio nei confronti di chi "prossimo" non è (cfr anche Matteo 5,43). La richiesta di amare il prossimo è posta in evidenza, perché è il rapporto con costui a rappresentare il primo banco di prova della propria capacità di amare alla maniera di Dio, di essere santi alla maniera di Dio. Visto che Dio è il modello a cui l'israelita si deve ispirare e l'amore di Dio non è per nulla un amore dagli orizzonti limitati, questi stessi orizzonti sono quelli ai quali deve aspirare ciascun credente. Imparare dunque ad amare il "prossimo", per essere poi capaci di amare anche il "lontano"!
    Nella capacità di amare – amare Dio, amare il prossimo e amare chiunque senza distinzioni – il popolo eletto mette in atto la propria vocazione alla "santità"; ovvero, a essere figlio di Dio. È evidente come questa "chiamata alla santità", intesa alla maniera biblica, non conosca confini o condizioni di sorta. La partecipazione alla stessa santità di Dio – alla stessa capacità di amare di Dio – è possibile in ogni stato e in ogni circostanza di vita. Visto che il figlio dimostra di essere tale nell'imitazione del padre, così anche Israele può dirsi figlio – "santo" come Dio – nel momento in cui ama alla maniera di Dio; cioè ama di un amore oblativo – capace di donarsi, di giocarsi per il bene dell'altro – e creativo – capace di generare, di promuovere e di custodire la vita.

    * Professore di Antico Testamento, Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale (Sezione del Seminario arcivescovile di Milano)

    (Aggiornamenti Sociali febbraio 2019, pp. 154-158 )


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