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    Le lacrime

    della preghiera

    Pietro Citati

    Nella religione cristiana Dio ha due aspetti: c'è un Dio altissimus et secretissimus, come diceva sant'Agostino, irraggiungibile nell'alto dei cieli, incontenibile, nascosto, incomprensibile; e un Dio proximus et praesentissimus, più vicino a noi della vena del nostro collo, del nostro respiro, della nostra immagine riflessa allo specchio. Nella tarda cultura bizantina e specialmente nell'opera di Gregorio Palamas - teologo, mistico e vescovo di Tessalonica, vissuto nel quattordicesimo secolo - questa opposizione tra trascendenza e immanenza di Dio ha un aspetto particolare. Palamas distingue, in Dio, un'essenza e delle energie: un volto che guarda verso il sé stesso nascosto e uno che guarda verso di noi. Sottolinea con tale slancio questi due aspetti, e li porta fino all'estrema evidenza, che i suoi oppositori (platonici e cristiani) lo accusarono di immaginare due Dèi separati.
    Mentre cerca l'essenza di Dio, Gregorio Palamas eredita la tradizione dei Padri greci e di Dionigi l'Areopagita. «Dio solo è il medesimo, sempre, prima del tempo, in ogni tempo e ancor oggi, e rimane immutabile» ripete Palamas. «Non ha principio, non ha fine, non diviene né si corrompe, non cresce, non diminuisce; in nessun modo e in nessun luogo è soggetto a mutamento; eterno, increato, non conosce mutazione, confusione, confine.» Se lo guardiamo coi nostri occhi, è un paradosso vivente, perché è insieme essere e non essere, abita dovunque e da nessuna parte, ha numerosi nomi ed è innominabile: è assolutamente tutto e nulla di ciò che è. Egli sta sopra ogni luce e ogni parola. Quindi noi non possiamo conoscere né possedere con la mente Dio: non riusciamo a penetrare nella sua essenza, né a vedere o descrivere la sua natura; e
    le nostre parole, per quanto cerchino e si affannino, non giungono a ciò che sta al di sopra della parola. Eppure noi lo conosciamo, insisteva Dionigi. La nostra ignoranza di Dio è superiore a qualsiasi forma di conoscenza: la tenebra in cui lo intravediamo è luminosissima, più splendida di ogni luce. Siamo come gli apostoli sul monte Tabor.
    «Non vedendo assolutamente più nulla, divennero capaci della vera visione» diceva Andrea di Creta. Come gli apostoli, noi conosciamo Dio in un paradosso: lo vediamo, «invisibilmente visibile», rapiti in spirito dall'inaccessibile luce divina. La nostra contemplazione sopraggiunge quando tace ogni attività della mente. E allora, mentre guardiamo con sguardi senz'occhi, in quel lampo di tenebra siamo uniti all'inesprimibile.
    Le energie, alle quali Palamas dedica la propria attenzione, non sono emanazioni di Dio, come nei grandi sistemi neoplatonici e gnostici, dove successive epifanie si allontanano sempre più dall'Essere supremo. Sono increate come l'essenza: così Palamas rispondeva a chi lo accusava di creare due Dèi separati; sono «le potenze che esprimono l'esistenza di Dio». Con la sua sottigliezza teologica e una robusta esperienza religiosa, Palamas impediva che il cosmo bizantino si scindesse in due parti opposte. Ma
    egli insisteva sul valore delle energie per le creature umane. «Se l'essenza divina e inconoscibile non possedesse un'energia distinta da sé stessa», noi ignoreremmo completamente che Dio esiste; ed Egli sarebbe per noi soltanto un'immaginazione e una fantasia dello spirito. Dopo aver dichiarato la sua fedeltà al Dio incomprensibile, Palamas aveva bisogno di proclamare che Dio esiste, vitale, attivo, vicino a noi, onnipresente nella storia umana, prossimo come le vene del nostro collo. Il centro del suo mondo religioso era rappresentato dal Cristo, al quale dedicò le più belle tra le sue Omelie.

    Quante pagine tragiche, commosse, inebriate, i Padri occidentali e orientali hanno scritto sull'incarnazione! Anche chi non crede, deve ammettere che, come rarissime volte nella storia umana, una creazione teologica ha trasformato radicalmente la vita, lo spirito, l'immaginazione e la letteratura di duemila anni di civiltà europea. Senza l'incarnazione, l'Europa non esisterebbe: nessuno di noi saprebbe né pensare né agire né parlare né scrivere come agiamo e parliamo. Pochi teologi hanno dato un rilievo così centrale, come Gregorio Palamas, all'incarnazione del Cristo. Essa, per lui, non è stata soltanto l'evento nella storia dell'uomo, ma l'evento nella storia di Dio. Senza di essa, il Padre non si sarebbe rivelato come vero Padre, né il Figlio come vero Figlio. Dio aveva bisogno, potremmo aggiungere, dell'incarnazione per essere Dio e dimostrare di essere Dio. Malgrado la sua venerazione per il Verbo che precede il tempo, chiuso nel silenzio originario, Palamas ama molto di più il Verbo incarnato. Ciò che è fondamentale per lui è l'assoluta novità della vita divina e umana dopo Betlemme e la Croce. Come aveva detto Paolo e ripetuto Simeone il Nuovo Teologo: «Se c'è in Cristo una nuova creazione, le cose antiche sono passate, tutto è diventato nuovo». Quale rottura nel tempo: quale balzo nel tempo; quale passo su una via eternamente nuova.
    Anche per Palamas, l'incarnazione è un mistero, il supremo fra tutti i misteri: «mistero da credere, non da conoscere, mistero da adorare, non da indagare», inconoscibile agli uomini come agli angeli e agli arcangeli. Eppure egli cerca di seguire con le parole questo mistero. Dio, che non si può circoscrivere, si lascia circoscrivere: Dio, che non si può vedere, si lascia vedere: Lui che non si può comprendere, si lascia comprendere: Lui che è padrone di tutto, diventa schiavo; dunque, Dio capovolge e trasforma totalmente la propria natura. Come aggiunge Nicola Cabasilas, Cristo non si riveste semplicemente di un corpo umano, ma prende un'anima, una mente, una volontà, e tutto ciò che è proprio della natura umana, per potersi unire a noi. Non importa che l'immaginazione bizantina si soffermi assai meno di quella occidentale sulla vita umana e le sofferenze del Cristo. Nei Padri bizantini come in quelli d'Occidente, non siamo noi a cercare il Cristo: è lui che ci cerca con una tenerezza infinita. E se nei tempi antichi inviava agli uomini angeli e mediatori per aiutarci, ora Egli agisce di persona. Non è un altro, ma un altro noi stesso: «Cristo è più intimo a noi di noi stessi». Lo conosciamo nella realtà e non nel simbolo. Così il regno dei cieli si è avvicinato alla terra: si è abbassato fino a noi. Come dice il salmista, Egli «piegò i cieli e discese».
    L'incarnazione ha rivelato l'ultima verità sull'uomo. Il corpo umano non è quella scoria impura, quell'infame prigione, che credevano i neoplatonici e gli gnostici. Se Cristo ha assunto il corpo e lo spirito umano, allora il corpo umano è sacro e perfetto. Dopo l'incarnazione, gli angeli hanno una natura meno nobile della nostra; e perfino gli apostoli sono inferiori agli uomini dei tempi nuovi, perché essi hanno visto sul monte Tabor la luce divina dall'esterno, mentre noi la contempliamo in noi stessi. La creazione è ai nostri piedi. «Tutte le cose periscono e passano come un sogno, non c'è nulla di solido e di permanente nel visibile. Il sole, gli astri, il cielo e la terra, tutto passa: di tutto questo resta soltanto l'uomo» diceva Simeone. Non c'è più nessuna antitesi tra l'anima e il corpo: perché l'anima cristiana ama il corpo, non desidera lasciarlo, e non lo lascerebbe mai se non vi fosse costretta. Anche il peccato ha meno rilievo. Come i Padri greci, Palamas deplora il peccato di Adamo e i nostri peccati: eppure sembra che, per lui, non abbiano corroso la nostra sostanza né cancellato dal nostro volto l'impronta divina. L'uomo rimane intatto. Quell'infinita e amara conoscenza di noi stessi, degli intrichi e delle doppiezze e delle incertezze e delle bassezze dell'anima, che la cultura dell'Occidente ha desunto per secoli da sant'Agostino, sembra estranea a molta parte della spiritualità bizantina.
    Tutta una trama di dichiarazioni trionfali aveva attraversato nei secoli i testi dei Padri greci. «Cristo si è fatto uomo perché noi fossimo fatti Dèi» (Atanasio); «Noi diventiamo divini attraverso di Lui» (Gregorio di Nazianzo); «Se Dio è diventato uomo, l'uomo è diventato Dio» (Cirillo d'Alessandria); «Per questo il Dio Verbo, il Figlio di Dio Padre, è diventato uomo: per fare Dèi gli uomini» (Massimo il Confessore). E Palamas ribadisce: «Dio è diventato uomo perché noi diveniamo Dio». Questa divinizzazione della natura umana non dipende dai nostri sforzi: è un dono della grazia di Dio. Ma non avviene solo alla fine dei tempi, quando lo vedremo «faccia a faccia». Avviene già ora, nei nostri tempi, nelle nostre fragili condizioni terrene, in questo periodo di incertezze e di dubbi, perché Gesù Cristo si è incarnato nel tempo – anche se resta, ineliminabile, una distanza tra noi e Lui. Così Palamas conclude idealmente le sue omelie con una grandiosa visione cosmica. Mentre il regno dei cieli si piega verso la terra, le cose della terra si innalzano verso i cieli. «Oggi, infatti,» egli declamava a Tessalonica nel giorno di Natale «io vedo uguale la gloria del cielo e della terra, e vedo tutte le cose di quaggiù elevarsi a gara verso quelle di lassù, mentre quelle, a gara, si abbassano; se infatti esiste un cielo dei cieli..., e se esiste un luogo o una sede o un ordine al di sopra del cosmo, nulla esso possiede di più mirabile né di più prezioso di una grotta, di una greppia e delle fasce di un bimbo.»
    Mi chiedo cosa avrebbe pensato un antico greco davanti a questa trionfale fiducia nell'incarnazione e nella divinizzazione, che percorre il pensiero cristiano occidentale
    e sopratutto orientale. Forse avrebbe risposto soltanto che l'uomo è una creatura effimera, «simile alle foglie», diceva Omero. Come potrebbe pretendere che la riflessione e l'attività essenziali di Dio siano dedicate a lui? Che Egli esiste sopratutto per salvarlo e per divinizzarlo? Probabilmente, lassù, in quel regno che non conosciamo, Dio ha infiniti, immensi, vertiginosi pensieri: la loro essenza supera la natura e i limiti della nostra intelligenza, prigioniera del principio di non contraddizione. Chi può dire cosa pensi Dio. Ma nessuno può escludere che Egli pensi anche agli alberi, agli animali, agli altri mondi, dove creature sconosciute attendono ancora l'incarnazione, alle galassie, alla natura del tempo e dell'infinito: a tutto ciò che noi nemmeno immaginiamo nelle nostre fantasie più accese. Non c'è troppa superbia nella grandiosa idea di Palamas che Dio aveva bisogno di incarnarsi per rivelare di essere Dio? Chi può giudicare Dio? Chi può misurarlo? Chi può limitarlo?
    Forse l'antico greco si sarebbe commosso. Che l'essenza della religione sia il sacrificio - non degli animali, non degli uomini, ma di Dio -: che le creature umane debbano essere sottratte alla morte, dedicata loro da Dio o dal destino, - forse almeno un barlume di questi pensieri ha attraversato la mente di qualcuno vissuto in Grecia, prima che mani delicate vergassero o traducessero in greco le parole dei Vangeli.

    San Simeone il Nuovo Teologo, un grande mistico bizantino del decimo secolo, pensava che gli uomini potessero vedere la gloria di Dio già in questa vita, come l'aveva vista Paolo. Egli viveva di visioni; e le raccontò al discepolo che ne scrisse la vita.
    Era notte. Simeone stava in piedi, in preghiera, nella sua cella. All'improvviso l'aria cominciò a raggiare nella sua mente, e gli sembrò di trovarsi fuori, all'aperto. Dall'alto brillò a poco a poco una luce d'aurora, che cresceva nell'aria, diventando simile allo splendore del sole nel mezzogiorno, e cancellando attorno a lui le mura della cella. Si sentì uscire con tutto il corpo dalle cose terrene. Mentre era pieno di gioia, di dolcezza e di lacrime, sentì che la luce si univa profondamente alla sua carne e gli penetrava le membra: il corpo, il cuore e le viscere, e lo rendeva tutto fuoco. Perse ogni sensazione del gesto, dello spessore, delle apparenze fisiche: smise di piangere. Aveva ancora la forma del corpo, sentiva che esso era presente in lui: ma era divenuto tutto luce, una luce senza figura né limiti, come se fosse immateriale. «Andai» disse Simeone «in cerca di Te. Allora Tu apparisti, Tu, invisibile, inafferrabile, intangibile. Mi sembrò che Tu immobile Ti movessi, Tu incangiabile Ti cambiassi, Tu senza figura prendessi una figura. Risplendevi oltre misura e mi apparivi tutto intero in tutto, a me che vedevo chiaramente. Allora osai interpellarti, e dissi: "Chi sei, o Signore?". Tu mi dicesti: "Sono il Dio che si è fatto uomo per amor tuo. Siccome mi hai desiderato e cercato con tutta la tua anima, d'ora in poi sarai sempre mio fratello, mio amico, coerede della mia gloria".»
    Tre secoli dopo, Gregorio Palamas non credeva che l'uomo potesse contemplare così direttamente l'essenza e il volto di Dio durante la vita. Ereditò e rielaborò una forma di preghiera - chiamata «esicastica» -, che si diffuse nei monasteri bizantini, ed ebbe un'immensa fortuna nel mondo greco ortodosso e slavo fino ai nostri giorni. Aveva predicato appassionatamente l'Incarnazione, e pensava che la preghiera, come diceva Giovanni Climaco, dovesse cercare «di circoscrivere l'incorporeo nel nostro corpo», invece di fissare con la mente Dio e il regno dei cieli. Il monaco, o il fedele, si sedeva, raccogliendo lo spirito e l'intelligenza: inspirava lentamente, molto lentamente, a fatica, così da rendere meno veloci i ritmi vitali: spingeva, forzava lo spirito a discendere fino al cuore; infine espirava profondamente. Lì, nel centro, nel cuore, si raccoglieva il centro della persona: la ragione, la volontà, la passione, il desiderio. Esso rappresentava «il regno dei cieli dentro di noi».
    Mentre inspirava ed espirava, il fedele pregava. Non una preghiera lunga, piena di definizioni e di richieste, la quale cercasse di convincere Dio e di attirarlo verso di lui. La preghiera doveva essere svuotata di ogni contenuto, ridursi alla semplice affermazione e ripetizione del nome e della presenza di Cristo, come quella dei sufi, che si riduceva anch'essa all'affermazione dell'esistenza di Allah. Il fedele diceva: «Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me». Nient'altro che queste nude parole. Ma la preghiera non doveva smettere mai: continua, incessante, come è continua la presenza di Cristo nel mondo.
    Palamas raccolse la raccomandazione di Isacco di Ninive. Sei secoli dopo Isacco, e ancora un secolo e mezzo fa, nei mirabili Racconti di un pellegrino russo, tutta l'esistenza del fedele diventava un bisbiglio appassionato e incessante, un mormorio ininterrotto, una bolla d'aria silenziosa, che si levava dalle profondità del corpo attraversando ad ali aperte gli spazi del cielo e varcando le porte del regno di Dio.
    Questa preghiera non era soltanto una «memoria di Dio». Aveva una profonda efficacia psicologica sullo spirito umano, come sapeva un esperto conduttore d'anime quale Palamas. Lo spirito e l'intelligenza tendono per loro natura a disperdersi nella mobilissima molteplicità delle suggestioni sensibili, e a coltivare astrazioni intellettuali. La preghiera incessante, invece, abolisce l'attività dello spirito superficiale: cancella le immagini, le fantasie, le fantasticherie, quegli interlocutori invisibili che sono i nostri pensieri, le tentazioni spirituali, l'accidia, le erronee immagini del Cristo, le false contemplazioni del regno dei cieli. La parte appassionata dell'anima muore. Nello spirito non ci sono che calma, quiete e vuoto. Tutto viene ricondotto verso il centro, e concentrato attorno al cuore e nel cuore. La parte femminile e quella maschile della persona si congiungono in una sola figura: ne nasce un'immensa gioia, «come prova l'uomo che tornando a casa dopo un lungo viaggio ritrova la moglie e i figli». La ragione fusa nel cuore perde le sue pretese intellettuali, e il cuore diventa saldo, come un eterno presente.

    Mentre la preghiera non cessa mai, nemmeno nel sonno, l'anima e il cuore si imbevono silenziosamente dei suoi effetti: dolcezza, pace interiore, calore al cuore, gioiose palpitazioni, una strana leggerezza e freschezza. Qualcuno si sente circondato dai raggi della luce divina: una luce profumata, la stessa luce increata che aveva illuminato gli apostoli sul monte Tabor. Qualcuno sente un'esultanza tremebonda, una vibrazione, un sussulto, un sobbalzo - «il sospiro ineffabile dello Spirito». La mente è trasparente e leggera, così trasparente da scorgere se stessa nel proprio riflesso.
    Il cuore diventa tenero, umido. Gli occhi si riempiono di lacrime soavi: una sorgente, un fiume incessante. Giovanni Climaco aveva ricordato che la perfezione consiste nel piangere quando si prega: cioè sempre. Le lacrime discendono dagli occhi del fedele come acque di torrente, mescolandosi alle preghiere, alle letture, alla meditazione, al cibo e alla bevanda. Il fedele, diceva Simeone il Nuovo Teologo, «è una sorgente che sgorga: acqua viva, che danza e balza sempre e innaffia le anime con profusione, e come da una cisterna si rovescia su coloro che sono lontani, e fa traboccare le anime che ricevono la parola con fede». Non erano soltanto lacrime di pentimento, di compunzione e di purificazione. Dapprima lacrime di tristezza, rade e amare, poi sempre più abbondanti, sempre più dolci, «vera e propria rugiada celeste», che si trasformava in un radioso pianto di gioia, come se la gioia fosse la sostanza stessa del dolore cristiano. Era la grazia: questa fontana d'acqua, diceva san Giovanni, «che zampilla in noi fino alla vita eterna».
    Sette secoli prima di Palamas, Isacco di Ninive aveva detto parole ancora più ricche. Quando il fedele giungeva nel regno delle lacrime, comprendeva che la sua intelligenza era uscita dalla prigione di questo mondo, e aveva posto il piede sulla strada del mondo nuovo, e cominciato a respirare l'aria di lassù. La sua mente diventava limpida. Il dolore del passaggio aveva la dolcezza del miele. «Dalle lacrime l'anima otterrà la pace dei pensieri, dalla pace dei pensieri salirà alla limpidezza della mente, e con la mente limpida giungerà a vedere le realtà nascoste.» L'ultima tappa del processo spirituale era la visione. Ma, per raggiungere veramente la visione, bisognava rinunciare alla preghiera, diceva Isacco con parole che forse avrebbero allarmato Palamas. Bisognava andare di là, approdando al luogo della «non preghiera», che è più eccellente della preghiera, «perché i moti della lingua e del cuore nella preghiera sono le chiavi, ma ciò che li segue è l'ingresso nella casa del tesoro. Facciano silenzio allora tutte le bocche, le lingue, il cuore tesoriere dei pensieri, l'intelletto guida dei sensi e il pensiero veloce... e cessino le suppliche, perché il padrone della casa entra in lei... Quando si è oltrepassato questo limite, il pensiero non ha più preghiere, né moti, né lacrime, né potere, né libertà, né suppliche, né desiderio, né brama di nulla di quanto è sperato in questo mondo o nel mondo futuro. Quindi, dopo la preghiera pura, non c'è più preghiera. Oltre questo limite, c'è stupore... Di qui in avanti c'è la visione».

    (Fonte: Sogni antichi e moderni, Mondadori 2016, pp. 149-158)


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