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    La violenza nel mondo giovanile:

    quale risposta educativa?

    Intervista a don Rossano Sala

    Marco Mancini



    Negli ultimi anni siamo venuti sempre più a conoscenza, attraverso i media, di numerosi atti di violenza, talvolta anche efferati, riconducibili a ragazzi adolescenti. Cosa spinge secondo lei, soprattutto i più giovani, ad assumere tali atteggiamenti?

    La violenza, in molte delle sue espressioni, è la punta di un iceberg che si chiama “disagio”. Il comportamento violento è ciò che emerge, che noi in genere chiamiamo appunto “emergenza”, come reazione ad una vita che non si mostra all’altezza delle sue promesse.
    Tutti noi abbiamo bisogno di amore, affetto, riconoscimento e attenzione. Un ragazzo e un adolescente più di tutti, proprio perché la sua esistenza si trova in un momento importante di passaggio dove lui stesso non riesce più a comprendersi e ad accettarsi. Non per nulla alcuni identificano questo tempo specifico nella logica di una “nuova nascita”. E per nascere e rinascere c’è sempre il travaglio del parto.
    La violenza non nasce mai dal nulla, ma è un punto di arrivo rispetto ad un mancato riconoscimento della persona, che risponde facendosi notare in modo plateale. La violenza è evidente, va sui giornali, si parla di te. Tutti finalmente sanno che esisti. Quando un ragazzo è violento non passa inosservato, ma in un certo senso dimostra di esserci, chiede attenzione, desidera essere riconosciuto.
    Dentro e dietro la violenza di un adolescente c’è sempre un grido d’aiuto, un appello ad essere amato. Bisogna intercettare questa richiesta di vicinanza, di accompagnamento, di aiuto.

    In molti casi, addirittura, sembrerebbe che tali episodi non abbiano neanche un vero movente, ma verrebbero messi in atto per il solo gusto di trasgredire o per provare nuove emozioni. Quanto è preoccupante questo secondo lei?

    Anche la trasgressione è da leggere prima di tutto in ottica adolescenziale. È il modo in cui ci si confronta con i limiti della finitezza. Si prende coscienza fin dove può arrivare. Con la trasgressione e con i giochi rischiosi l’adolescente si sente vivo, emozionato, potente. Sapere fin dove può arrivare il mio corpo, fin quando posso resistere, è un esercizio in sé buono – pensiamo al mondo dello sport – perché mi mette a contatto con il limite e mi aiuta a dilatarlo. Quando diventa una sfida mortale contro se stessi può essere assai pericoloso, lo sappiamo.
    Il movente della violenza a volte è anche la sfida verso il mondo adulto. È una minaccia verso l’autorità, è compresa talvolta come espressione di una libertà che vuole decidersi in autonomia. Anche qui l’esperienza del limite: fin dove posso arrivare con questi adulti, con questo mondo?
    Un altro aspetto che non va dimenticato è la repentina digitalizzazione del mondo, che ci rende affettivamente analfabeti e quindi molto insensibili. Tutto ciò che vediamo soprattutto sui personal media – e gli adolescenti su questo non hanno molti filtri, purtroppo – ha a che fare col provare emozioni brevi e forti, che paradossalmente ci fanno perdere la capacità di sentire con finezza le nostre emozioni. Ottundono i sensi, ci fanno perdere la capacità di andare in profondità nelle cose, di cogliere il loro senso profondo e originale. Pensate a ciò avviene su TikTok: una scena dopo l’altra che attira l’attenzione per qualche secondo e poi si passa alla successiva: scariche di adrenalina e di dopamina che si susseguono in forma ossessivo-compulsiva. Diventa una droga, a un certo punto non se ne può fare a meno: va continuamente nutrito altrimenti scatta la violenza, appunto. E la fatica dell’adolescente a distinguere tra finzione e realtà, tra morire in un videogioco e morire davvero, fa il resto.

    Ritiene che siano i giovani ad aver subito delle trasformazioni nel corso degli anni o è il contesto sociale in cui vivono attualmente ad aver contribuito a renderli violenti?

    I giovani sono sismografi e sentinelle del loro tempo. Da sempre lo sono stati in tutte le culture e le epoche. Ogni generazione è diversa da un’altra perché cresce in un contesto sociale, culturale, religioso e relazionale sempre diverso. In italiano non abbiamo la parola “gioventù” al plurale, altre lingue lo hanno: ci sono tante gioventù, sia a livello diacronico che sincronico. Avere 16 anni oggi in Italia o in Congo o in India non è la stessa cosa. Avere 20 oggi in Italia e averli 50 anni fa è assai diverso. È evidente che attraverso di loro le contraddizioni e i contrasti di un’epoca si fanno sentire meglio che in altre categorie di persone.
    Il nostro contesto specifico è molto legato ad una cultura narcisistica e competitiva, secolare e sempre più interculturale, e questi tratti danno forma anche all’esperienza dell’essere giovani. La violenza è da una parte espressione di una cultura competitiva. Basta guardare le serie di TV che i ragazzi divorano per vedere come la violenza appare sempre più necessaria per sopravvivere. Molte di queste serie sono giochi ad eliminazione, dove non esiste vera amicizia, ma solo alleanze necessarie per distruggere altri. Mi alleo con te per far fuori altri, ma appena questo accade mi alleo con altri per far fuori te. L’idea che uno solo sia il vincitore apre il campo ad una violenza sistemica. Il mondo tribale, al confronto, era decisamente più umano.
    La violenza è anche però espressione di una reazione ad una cultura inaccettabile, perché non rispettosa dell’umano e delle sue esigenze. Pensiamo ad una violenza reattiva, come quella ecologica e sociale, che chiede cambiamento e giustizia. È un modo per dire che le cose così non vanno, per far sentire la propria voce, per battere i piedi. Forse talvolta una reazione esagerata, ma con un’intenzione che non va sottovalutata.

    Umberto Galimberti, nel saggio L’ospite Inquietante, ha attribuito al nichilismo le cause della desertificazione dei valori nel mondo giovanile che, tra le varie manifestazioni, comprende anche uno stato di aggressività e inquietudine che in alcuni casi sfocia in atti di violenza. Condivide questa disamina?

    Il nichilismo è un fantasma che si aggira da molto tempo nel mondo occidentale. Nasce dalla morte di Dio, dalla sparizione di una trascendenza che offre sicurezza e copertura. Nietzsche lo aveva detto che non ci sarebbe stato nulla di confortante in quell’omicidio, nel senso che adesso siamo noi padroni di noi stessi, siamo noi a doverci redimere senza l’aiuto di un Dio amico e alleato. E questa auto redenzione, lo percepiamo tutti i giorni, è un’impossibilità radicale. Senza Dio nell’orizzonte dell’uomo non sembra che le cose siano migliorate, anzi. L’uomo non si è fatto da sé e non si salverà da sé.
    A me pare che la lettura di Galimberti abbia delle ragioni storiche, e che certamente la violenza può essere anche letta in ottica nichilistica: se il mondo non ha senso ed è destinato al nulla, godiamoci la vita e facciamo quel che vogliamo, impostando la vita verso il massimo godimento possibile. E se facendo soffrire qualcuno ci viene del godimento, usiamo pure la violenza.
    Condivido personalmente l’idea che i giovani non si sono assuefatti al nichilismo, anche se nel mondo occidentale queste sirene continuano a cantare. C’è ricerca di “spiritualità” nel mondo giovanile, intendendo per questo termine la ricerca più o meno consapevole di livelli altri di esistenza rispetto alla mera sopravvivenza materiale e al godimento narcisistico. C’è dell’altro, e il cuore di ogni giovane lo percepisce, lo intuisce.
    Sant’Agostino parlava di inquietudine in senso buono, sano: è l’inquietudine di chi è in ricerca, di chi desidera un amore grande, di chi tende a ciò che non passa. I sogni e le nostalgie dei giovani vanno in questa direzione, e la violenza nasce anche quando queste tensioni sono schiacciate, oscurate, perfino negate. L’uomo è fatto per cose grandi – per la vita eterna, noi diciamo addirittura – e quindi è umiliante pensare a meno di questo. Galimberti ha delle analisi interessanti e anche buone intuizioni, di cui dobbiamo fare tesoro, ma in fondo non offre autentica speranza alle sane inquietudini del cuore umano.

    Quanto la cultura, nei suoi vari aspetti, può incidere nel riportare equilibrio e armonia nell’animo dei giovani evitando di coinvolgerli in episodi di violenza?

    Qui vorrei intendere per cultura prima di tutto quello che mi piace chiamare il “mondo degli adulti”. Il primo modo di aiutare i giovani ad evitare la deriva violenta nel mondo giovanile è avere una società adulta che sia veramente tale. Romano Guardini – grande educatore, oltre che filosofo e teologo – afferma che noi educhiamo prima di tutto con quello che siamo, poi con quello che facciamo e infine con quello che diciamo. Questo preciso ordine è necessario e offre coerenza al mondo degli adulti. Purtroppo troppe volte pensiamo che l’educazione passi semplicemente per ciò che diciamo. È troppo poco.
    Pensiamo a Gesù nei vangeli: dei farisei dice che “dicono e non fanno”. Ecco, a me pare che il mondo degli adulti in questo momento soffra di molta incoerenza. Decisamente troppa. Pensiamo solo ad alcune emergenze. Ai femminicidi, per esempio: la maggior parte di essi avviene tra adulti prima che tra giovani e adolescenti. Pensiamo anche alla questione degli abusi nella Chiesa: se un educatore, un pastore, un consacrato compiono atti indegni della loro identità e vocazione, questo è una porta aperta e un permesso anche per i giovani. La pedagogia – e quindi anche l’anti pedagogia – dei modelli funziona sempre: un buon esempio – così come un cattivo esempio – è mimetico. Più si è piccoli e più si ripete inconsapevolmente quel che si vede fare dagli adulti.
    C’è una letteratura sterminata sulla crisi degli adulti: molti di essi sono “adultescenti”, si dice. Pensiamoci bene: che un adolescente viva da adolescente è normale, ovvero che si sperimenti, che si metta alla prova, che sia fallimentare in alcuni suoi tentativi di crescita. Va bene, ci sta. Ma che un adulto viva come un adolescente è un problema serio: l’adulto dovrebbe essere caratterizzato da una fedeltà e da una coerenza rispetto alle scelte esistenziali che ha compiuto. Se non lo è, non è solo un problema per lui, perché diventa un cattivo testimone e quindi un pessimo educatore.

    La famiglia e la scuola, come agenzie educative, risentendo della logica commerciale del profitto e di una visione utilitaristica volta all’eccellenza delle competenze, potrebbero creare forti frustrazioni nei giovani portandoli a sfogare la loro repressione in comportamenti irrispettosi verso i loro pari, come avviene ad esempio negli episodi di bullismo o cyberbullismo?

    La famiglia e la scuola sono prima di tutto le grandi risorse sociali e culturali per l’iniziazione alla vita delle giovani generazioni. Prima di criticarle, dobbiamo riconoscere che sono i due pilastri su cui ogni società si è edificata durante i millenni. Più queste realtà relazionali hanno funzionato, più l’iniziazione è andata a buon fine. Dove non ci sono o sono deboli o in crisi è un grande problema.
    Ora il tema forte – e questo papa Francesco lo ha sottolineato varie volte – è la rottura del patto educativo, cioè il legame vincente tra scuola e famiglia. Se la famiglia diventa iperprotettiva e relazionalmente chiusa, la scuola è vista come nemica da combattere. Se la scuola diventa solamente uno spazio di “istruzione” senza dinamismi educativi, che cioè riguardano l’umanità delle persone e l’accompagnamento della loro esistenza, la famiglia fa fatica a contare su di essa.
    Anche qui entra in causa il mondo degli adulti e la loro capacità di fare e mantenere alleanza. Screditandosi reciprocamente si crea lo spazio della violenza, si apre la porta all’incomprensione, si offre ai ragazzi uno spazio aperto incontrollato e decisamente rischioso.
    Il bullismo e il cyberbullismo vengono da qui, da questa apertura negativa di credito che offre ai giovani il permesso di fare come fanno gli adulti. Se loro litigano, perché non possiamo farlo anche noi? Se loro si insultano, perché a noi questo lo vietano? Se loro si trattano male e perfino si uccidono, perché non possiamo farlo anche noi. Pensiamo a questa “terza guerra mondiale a pezzi”: è il modo più eclatante in cui la globalizzazione si presenta alle giovani generazioni.

    Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica post- sinodale Christus vivit, soprattutto nei numeri da 72 a 74, ha evidenziato le diverse cause in cui i giovani subiscono violenza e sono costretti a perpetrarla. In che modo la Chiesa potrebbe intervenire, contribuendo, invece, a condurre e accompagnare i giovani verso una crescita sana e fondata sui valori etici?

    Papa Francesco in quei numeri denuncia che i giovani sono prima di tutto oggetto di violenza e manipolazione da parte della società e degli adulti. Dice anche che tante volte la violenza è l’unica alternativa che i giovani hanno per sopravvivere. Certamente il Santo Padre ha uno sguardo universale, e il mondo non è tutto omologato sull’occidente, dove vi è uno stato di diritto più o meno rispettato. In altri contesti la violenza è davvero la norma quotidiana, purtroppo.
    Se rimaniamo nel nostro contesto, penso che la Chiesa prima di tutto deve vivere con i giovani delle esperienze positive all’insegna della vita buona e del dono di sé. Pensiamo all’oratorio, un ambiente sociale dove si va non per vivere un conflitto, ma per crescere nella gratuità, nell’amicizia, nel gioco, nella buona relazione. Pensiamo al volontariato, dove l’altro non è un competitore o una minaccia, ma una persona da risollevare e con cui entrare in positiva alleanza. Pensiamo anche alla liturgia, dove entriamo in un mondo che ci fa sperimentare di essere molto di più di quello che pensiamo di essere, che ci fa entrare in una relazione felice e feconda con il Dio vivente.
    Fare esperienze con i giovani quindi, non fare teorie astratte sulla vita cristiana. Camminare con i giovani, coinvolgendoli in attività dove possano scoprire i loro talenti, e dove possano metterli a disposizione.
    Questo è quello che voleva un educatore come don Bosco, quando ha pensato al suo “sistema preventivo”: prima di attendere che i giovani vivano il male e la violenza, per poi recuperarli, cerchiamo di riempire la loro esistenza facendo il bene e vivendo il bene. Come dire: la miglior difesa contro la violenza è giocare all’attacco con il bene!

    Una pastorale giovanile “popolare” così come previsto sempre da papa Francesco nella Christus vivit, sarebbe sufficiente ad avvicinare i ragazzi di oggi alla figura di Gesù e renderli interessati alla sua Parola come strumento per dare un senso alla loro esistenza?

    “Popolare” è una delle qualificazioni della pastorale giovanile che emerge nell’esortazione apostolica postsinodale Christus vivit. Sta insieme ad altre, altrettanto importanti. La pastorale giovanile, per essere sintetici, è chiamata ad essere almeno sinodale, vocazionale e missionaria, oltre che popolare.
    L’idea di una pastorale giovanile popolare viene dal contesto latinoamericano, dove l’idea di popolo rimane centrale. Dice che la pastorale giovanile non può e non deve escludere nessuno, ma si deve fare ampia e capace di intercettare i diversi universi giovanili. Ci spinge ad intercettare tutti i giovani, nessuno escluso: per questo sono necessarie proposte diversificate, adatte ad ogni situazione e condizione.
    Ma la pastorale giovanile è chiamata ad essere anche sinodale, ovvero capace di fare squadra e fare rete prima di tutto tra gli adulti e poi anche con i giovani. Non è purtroppo difficile trovare anche negli ambienti ecclesiali dinamismi di rivalità, invidia e competizione. Questi stili vanno superati con coraggio: bisogna imparare a vivere e a lavorare in sinergia. Come dire: la comunione è la premessa all’educazione, e senza di essa le cose non vanno.
    C’è ancora il tema vocazionale: la pastorale giovanile non può pensare solo ad un impegno di animazione orizzontale. Il dono più grande che possiamo fare ad un giovane è quello di aiutarlo a scoprire la sua vocazione, il suo essere amato e chiamato da Dio in modo unico e irripetibile. La vocazione offre senso e destinazione all’esistenza, e quindi identità certa e solida. La crisi che abbiamo in occidente è crisi di identità, e solo la vocazione risponde adeguatamente a tutto ciò.
    Infine la pastorale giovanile non può che essere missionaria, ovvero in uscita verso i giovani più poveri e abbandonati, capace di un annuncio chiaro di Gesù come colui che la vita in abbondanza a tutti, nessuno escluso. La Chiesa è missionaria ed evangelizzatrice, e così ha da essere la pastorale giovanile, perché i giovani sono affamati e assetati di verità, e noi sappiamo che questa fame e questa sete può venire colmata sola da colui che una volta per tutte ha detto di sé di essere la via, la verità e la vita.

    https://www.didatticaermeneutica.it/2023/12/01/la-violenza-nel-mondo-giovanile-quale-risposta-educativa-intervista-a-don-rossano-ala/


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