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    Un'istanza decisiva: la spiritualità della carità educativa (II/cap. 3 di J.E.Vecchi)


    Juan E.Vecchi - Pastorale giovanile. Una sfida per la comunità ecclesiale - Elledici 1992


    Capitolo terzo

    UN'ISTANZA DECISIVA: LA SPIRITUALITÀ DELLA CARITÀ EDUCATIVA

    C'è oggi una ricerca e un parlare sul tema della spiritualità. Ma quando si ragiona della spiritualità in genere, o di una spiritualità particolare, se non si vuole equivocare, è necessario un chiarimento iniziale: che cosa è «spirituale» e che cosa dobbiamo intendere per «spiritualità»? Non si tratta di una domanda filosofica. Non intendiamo definire che cosa sia lo «spirito». Si tratta invece di chiarirci il significato pratico che si deve conferire a «spirituale» nella nostra esistenza quotidiana. Il chiarimento ce lo offre san Paolo (cf Rm 8,2-17; 1 Cor 1,19-26; 2,10-15).
    Secondo questi testi, «spirituale» non è una qualità delle cose. Una chiesa non è più spirituale di una casa di famiglia. Non è nemmeno una qualità interna degli atti che l'uomo compie. Pregare non è più spirituale che lavorare o mangiare. Per san Paolo «spirituale» è un orientamento e una comprensione della persona che entra in contatto con le cose e compie azioni, rendendoli entrambi «spirituali».
    San Paolo vede gli uomini mossi da forze interne diverse, come se vivessero la propria vita a differenti livelli. C'è un tipo di uomo che è carnale. Egli coglie la realtà, usa cose e si rapporta alle persone secondo le energie spontanee della natura, come sono per esempio l'istinto di possedere, la tendenza al godimento. Carnale non vuol dire perverso o cattivo, ma alla mercé delle cose del mondo che finirà. Vuol dire «transitorio», perituro.
    C'è un altro tipo di uomo che egli chiama «animalis». La denominazione non ha niente di peggiorativo. Si tratta dell'uomo che si lascia guidare dalle capacità umane drintelligenza e sensibilità; che vive e affronta la realtà con normale ragionevolezza, secondo la propria condizione umana (anima–vita).
    C'è ancora l'uomo «intellettuale, sapiente di questo mondo» (in greco: noeticós). È quello che si lascia sfidare dagli interrogativi dell'esistenza e cerca il senso della vita con un vero sforzo di ricerca, con tutte le forze della sua ragione, approfittando anche della riflessione fatta da altri, la saggezza appunto di questo mondo. Sembra che l'Apostolo abbia una certa simpatia per questi intellettuali, ricercatori di senso e di ragioni per vivere. E allo stesso tempo sperimenti un sentimento di condanna per la loro pretesa di voler chiarire il mistero della vita umana, del suo destino e della sua salvezza, con le sole forze della ragione.
    Infine, come al vertice di questa scala, c'è l'uomo «spirituale». È quello che possiede un «senso» che lo aiuta a scoprire i significati più profondi della vita, a rapportarsi alle persone attraverso l'amore, a percepire la presenza di Dio negli eventi. Ha ricevuto lo Spirito di Dio. Nel suo cuore e nella sua mente si è diffuso un dono che è la carità. È una connaturalità di figlio riguardo a Dio, che porta a scoprirlo e ad amarlo in se stesso e negli uomini: chi ha lo Spirito è figlio di Dio!
    Non sono gli oggetti, i segni, le azioni o le situazioni ad essere spirituali. Ci sono cose che sembrano molto spirituali, e invece diventano carnali per la persona che le assume con determinate disposizioni. Così san Paolo fa vedere che prendere parte all'Eucaristia per occupare posti d'onore e mettersi in vista e disprezzando gli altri è carnale. Lo stesso capita quando nell'Eucaristia avvengono divisioni tra coloro che mangiano molto e coloro che non hanno niente. L'Eucaristia è una realtà santa; ma, in mano a un determinato tipo di persone, può diventare «carnale».
    Lo stesso viene detto riguardo ai carismi. Sono cose buone. Ma se vengono desiderati per propria soddisfazione, per mettersi in evidenza nella comunità, per dividere piuttosto che per costruire, diventano desideri carnali.
    Al contrario, alcune altre realtà che a noi sembrano molto vicine alla materia o alla vita naturale (per esempio il governo della propria casa, il matrimonio, il mangiare) diventano «spirituali» per chi le vive nello «Spirito».
    Spirituale non si oppone, dunque, a materiale, ma a carnale,naturale, chiuso nei ragionamenti terreni. Significa totalmente impregnato e mosso dalla carità, da quell'amore che Dio ha diffuso nei nostri cuori.
    La spiritualità è allora una grazia, una proposta e un cammino di vita in Dio, mediante la fede che lo scopre negli avvenimenti e nelle persone: mediante la speranza che va seguendo i suoi passi nella storia e attende l'incontro finale con lui; mediante la carità che lo cerca e si unisce continuamente alla sua persona, alla sua volontà, al suo progetto.
    Ma come viene vissuto tutto questo nello stile di don Bosco?

    1. L'ESPERIENZA FONDAMENTALE: IL SISTEMA PREVENTIVO

    «Don Bosco visse nell'incontro con i giovani del primo oratorio un'esperienza spirituale ed educativa che chiamò "Sistema Preventivo". Era per lui un amore che si dona gratuitamente, attingendo alla carità di Dio che previene ogni creatura con la sua Provvidenza, l'accompagna con la sua presenza e la salva donando la vita. Don Bosco ce lo trasmise come modello di vivere e di lavorare per comunicare il Vangelo e salvare i giovani con loro e per mezzo di loro».
    Queste parole rivelano il luogo tipico e il momento fontale della spiritualità di don Bosco. In esse si manifesta un insieme di elementi che non bisogna lasciar sfuggire. Il sistema preventivo è chiamato «esperienza spirituale» e non solo pedagogia. «Si ispira alla carità di Dio»: non è dunque soltanto il risultato di una ricerca educativa né per ciò che riguarda i suoi fondamenti, né per ciò che riguarda la pratica.
    L'esperienza nasce e si sviluppa «nell'incontro con i giovani», che costituisce l'humus, la terra dove si trovano le sostanze nutrienti per questa pianta. L'esperienza non nasce né si sviluppa nei monasteri, nelle biblioteche, nella propria camera..., bensì nell'«incontro», e nell'incontro educativo.
    Per illustrare questa spiritualità commentiamo tre affermazioni chiave.

    2. LA CARITÀ: CENTRO DELLA VITA SPIRITUALE

    La prima affermazione consiste nel fatto che la carità è il centro e la fonte della vita spirituale. Ciò è comune a tutti. La carità è la forza e la manifestazione di tutti i tipi di santità che appaiono nella Chiesa, dagli apostoli, attraverso gli anacoreti, fino ai santi «attivi» dell'epoca moderna. È il primo dei comandamenti. Non la si raggiunge per uno sforzo di volontà. È una virtù infusa, una grazia, un dono di connaturalità che Dio infonde nelle persone affinché tendano verso di lui, si sentano interpellate dove appare un segno della sua presenza. Chi non ce l'ha passa di fronte al divino come uno sventato di fronte a un libro, a un ragionamento. Non ha nemmeno l'attitudine fondamentale per recepirlo. Gli manca il codice di lettura.
    Questa grazia è alla radice di ogni processo spirituale e di ogni santità (cf 1 Cor 13). La carità non è soltanto l'ornamento complementare e marginale degli atti virtuosi, ne è la sostanza. Così lo spiega san Paolo: «Se parlassi tutte le lingue... se dessi tutte le mie sostanze ai poveri... se avessi una fede capace di smuovere le montagne... se tutto ciò non è mosso dal di dentro dall'amore, non vale niente» (1 Cor 13,2-3).
    Perciò quello che rimane, non soltanto per la vita futura ma anche nella storia dell'uomo, è quello che si costruisce nell'amore. Nella storia si fanno molte cose. Alcune attraversano i tempi e costruiscono la persona, la società. Altre cadono. Quello che rimane e costruisce progressivamente il definitivo, in questa storia transitoria degli uomini, è quello che si fonda sulla carità.
    I Salesiani non direbbero una grande novità se dicessero che il centro e la fonte della loro spiritualità è la carità. Infatti, la medesima affermazione si ritrova in tutte le forme di vita religiosa e in tutti i trattati sulla santità, a partire da Gesù Cristo. I diversi tipi di santità non sono stati che realizzazioni diverse di questo dono e comandamento dell'amore. È importante però ribadire che anche per i Salesiani è così. Ogni tanto, infatti, confratelli che sono alla ricerca di esperienze spirituali scoprono improvvisamente, dopo aver vissuto anni nella vita salesiana, la centralità e l'importanza dell'amore.

    3. LA CARITÀ PASTORALE

    Ma nella scala delle progressioni c'è un secondo passo: il centro del nostro spirito è la carità pastorale. Che cosa si intende con questa aggiunta?
    La carità spinge alcuni a ritirarsi nel deserto per contemplare il mistero di Dio, dal quale sono stati come attirati nella quiete e nella solitudine. C'è stato un santo che, mosso dalla carità, è salito su una colonna, dalla quale predicava e dava testimonianza della relatività di tutte le cose che preoccupavano i suoi contemporanei. Altri sono spinti dalla carità verso lo studio o la contemplazione silenziosa e raccolta.
    «Pastorale» è una parola che segna una differenza specifica. La carità «pastorale» è quella che si esprime inserendo il nostro «lavoro» umano nell'opera salvatrice di Dio. Si manifesta, dunque, spendendo tempo, energie, qualità e denaro per salvare tutti gli uomini, ciascun uomo, tutto l'uomo... per salvarlo un «poco», se non si riesce a fare di più, aiutandolo a dare un passo verso la sua immagine vera.
    L'amore porta in questi casi ad accogliere Dio e unirsi a lui non tanto né principalmente attraverso la contemplazione intellettuale (pensiero) o la preghiera affettuosa, quanto attraverso il darsi da fare per creare situazioni di salvezza, convinti che Egli opera per mezzo di noi.
    Ogni spiritualità ha i suoi momenti di esaltazione e di gioia gratificanti: pensate ai carismatici nella preghiera, al contemplativo nella «visione». La carità pastorale sperimenta la sua gioia ed emozione propria quando è consapevole di partecipare alla salvezza insieme al Signore. È una gioia simile a quella che sperimenta chi riesce a strappare alle acque uno che sta per affogare o a evitare una morte o un incidente.
    Ciò ci qualifica nel contesto ecclesiale. Ci sono infatti alcuni che affidano tutta la salvezza a Dio. Propongono la conversione, la fede e l'esperienza religiosa in forma perentoria e definitiva. Coloro che accettano l'invito saranno da loro curati e accompagnati. Gli altri rispondano essi stessi della propria vita.
    Altri invece sentono quell'amore pastorale che, come faceva Gesù, va cercando, offrendo e motivando chi ha bisogno di accompagnamento, sostegno e aiuto, anche se non è ancora entrato nell'ovile. Chi è mosso dalla carità pastorale si dà all'azione in favore degli altri per aprire loro il panorama dell'esistenza, per far loro scoprire il vero valore della propria vita.
    Quando ottiene qualche risultato, anche piccolo, sperimenta la gioia della sua partecipazione alla paternità e all'azione divina. È quello che dice il Vangelo: «C'è più gioia nel cielo per un peccatore che si converte...».

    4. LA CARITÀ PEDAGOGICA: UN AMORE CHE EDUCA

    Ma la riflessione sul «luogo tipico» della spiritualità di don Bosco ci porta ancora più avanti, verso un'ulteriore specificazione. Infatti la carità pastorale non ne definisce totalmente lo specifico. Il Concilio propone l'esercizio della carità pastorale anche ai vescovi e ai sacerdoti quando afferma che «sviluppando ogni forma di carità pastorale» (realizzazione di tutte le possibilità del ministero sacerdotale...) essi si santificano (cf LG 41; PO 13).
    La carità nello stile di don Bosco ha un'altra qualificazione più precisa che non la restringe, ma la definisce meglio: è una carità pedagogica. È un amore che sa creare un rapporto educativo, che si esprime sulla misura dell'adolescente e dell'adolescente povero che deve aiutare ad aprirsi, a scoprire la ricchezza della vita, a crescere. Per questo adolescente povero, a volte scarso di parole e di pensiero, la carità deve diventare segno leggibile dell'amore di Dio. È una carità che arriva agli ultimi, ai più umili.
    Una delle maggiori difficoltà che i ragazzi a rischio e a disagio presentano all'inizio è appunto quella di non sapersi esprimere di fronte a persone adulte estranee, di fronte alle istituzioni e a coloro che le rappresentano, inclusa la Chiesa. Le istituzioni sono per loro l'immagine di quel mondo organizzato dal quale si sentono esclusi. L'amore educativo deve essere capace di gesti tali che aiutino a prendere la propria vita con gioia e speranza, ad aprirsi alla fiducia e al dialogo, anche nel contesto di una vita povera e nei condizionamenti personali.
    All'ardore spirituale di questa carità unisce, dunque, la saggezza, il tatto pedagogico e il senso pratico, l'ottimismo educativo e la pazienza di chi deve sostenere e coltivare i germi di vita. Tutto ciò esprime quello che afferma lo studioso don Alberto Caviglia e riprende Giovanni Paolo II nella «Juvenum Patris»: La santità di don Bosco si plasma come santità educativa (cf JP 5).
    L'ardore profetico di taluni predicatori, che nelle piazze si fanno interpreti del comando di Dio di convertirsi e annunciano la fine dei tempi, non può essere negato: essi hanno zelo religioso. Ma non si può affermare che questo sia lo «stile» della carità «pedagogica» che ascolta, aiuta e accompagna le persone.
    La carità pedagogica contiene ardore, ma anche tatto, buon senso, misura e affetto. In una parola, saggezza paterna che insegna ad affrontare la vita.
    Ci sono due temi emergenti in don Bosco. Uno è quello della saggezza. Appare nel primo sogno insieme all'immagine della «Maestra» e si colloca nel trinomio che propone ai giovani. L'altro tema rilevante è la paternità. Tutti e due, saggezza e paternità, insieme danno l'immagine esatta dell'atteggiamento, della personalità e dei gesti di chi si apre alla vita in tutta la sua ricchezza.

    5. GLI ATTEGGIAMENTI DELLA CARITÀ PEDAGOGICA

    La carità pedagogica crea nella persona che si lascia guidare da essa alcuni atteggiamenti specifici.
    Il primo è la predilezione per i giovani. Tutti coloro nei quali opera la carità possono ripetere con don Bosco: «Tra voi mi trovo bene. La mia vita è proprio stare tra voi». Non si sta tra i giovani «per obbligo di orario», «per mestiere» o «per guadagno». Non ci si consuma spiritualmente tra i giovani per poi caricarci di energie spirituali in altri momenti; con loro ci si trova bene: è il proprio momento spirituale!
    Nella gioventù questo può essere un movimento spontaneo e persino gratificante, soprattutto se si è capaci di sintonizzare e si è accolti con simpatia. I giovani esercitano una certa attrattiva per la loro vivacità, la capacità creativa, la voglia di vivere e condividere. Ma quando si esaurisce il movimento spontaneo, la decisione di «stare con i giovani» impegna la vita e richiede sforzo ascetico. A un certo momento della vita costa stare tra i giovani, e più ancora essere psicologicamente e culturalmente con loro, preferire il loro mondo ad altri ambienti più cordiali e formali.
    Il luogo dove gli educatori si rinnovano, dove producono nuove espressioni spirituali e generano nuovi membri, ispirati dallo Spirito, dove si rinnova l'entusiasmo e si esprime la creatività pastorale è lo spazio giovanile. In esso ha avuto luogo la nostra crescita umana e cristiana.
    La predilezione per i giovani significa «esserci», «collocarsi», «ritornare» al luogo tipico della nostra esperienza di Dio.
    Ma c'è un secondo atteggiamento: è la fiducia nei giovani.
    La carità di don Bosco intende incominciare non dai primi, ma dagli ultimi; non dai più ricchi dal punto di vista economico o spirituale, i quali hanno già attenzione e servizi, ma da coloro che non sanno a quale parrocchia appartengono. In questi giovani si deve suscitare una speranza e svegliare energie.
    Don Bosco diceva: «In ogni giovane, anche il più disgraziato, c'è un punto che, opportunamente scoperto e stimolato dall'educatore, reagisce con generosità e suscita l'energia di cui il giovane ha bisogno per trasformarsi».
    La fede in Dio Padre e l'evento di Cristo Salvatore ci dice che nessuno è definitivamente perso. Ogni giovane porta nel suo interno il segno del piano di salvezza, nel quale c'è una promessa di vita piena e felice per ciascuno.
    Le tre biografie esemplari che don Bosco scrisse fanno vedere come sia possibile portare ad alto livello la vita cristiana di chi è particolarmente dotato (Domenico Savio); di ricuperare chi ha un passato meno favorevole (Michele Magone); di accompagnare fino a uno sviluppo soddisfacente chi ha risorse normali (Francesco Besucco).
    La soddisfazione spirituale dell'educatore non sta soltanto nella capacità di proporre una meta a chi è capace di volare alto, ma di «salvare», prendere dal livello più basso ed elevare, aiutare a fare un passo in avanti. Questa è una partecipazione all'opera di Dio, che richiede fede e speranza. L'esercizio costante delle virtù teologali, dunque, costituisce l'ascetica dell'educatore: capacità dl seminare senza stancarsi e senza grettezza, di dare sempre una nuova opportunità, anche quando sembra che i risultati non ci siano, di vedere la vita in tutto il suo valore potenziale come mistero imprevedibile, sempre in attesa dell'azione della grazia.
    Per questo le tre energie interiori – religione, ragione, amore – che ogni ragazzo possiede sono anche i tre aspetti e le tre fonti di crescita per l'educatore. Egli deve crescere continuamente nella fede, riconoscendo la fecondità di Dio, seminato nella vita dei giovani attraverso la parola e la presenza; deve alimentare il suo ottimismo, che è speranza e fiducia nel futuro del suo lavoro; deve riconvertire il tutto in una carità che è prontezza e capacità di intervento a favore dei giovani.
    Insieme alla predilezione per i giovani e la fiducia nella grazia di salvezza che opera in essi, c'è un terzo atteggiamento: è l'amore «manifestato». L'amore vero si riferisce al bene assoluto dell'altro, che viene desiderato e cercato come proprio. Questa è l'espressione fondamentale, non legata alla simpatia reciproca tra coloro che si amano. Ma l'amore secondo don Bosco è quello che sa farsi amare perché ha intuito che in questa corrispondenza il giovane cresce. Sentendosi stimato, impara a stimarsi, ad avere fiducia e a donare anche lui gratuitamente.
    È il tema della lettera scritta da Roma nel 1884. È anche una conclusione della sua esperienza educativa. Quando don Bosco era seminarista, i Gesuiti, durante un'epidemia, gli offrirono di fare l'assistente in un soggiorno che essi avevano nei pressi di Torino, ove avevano inviato i loro giovani convittori. Don Bosco accettò l'invito per occupare il tempo, guadagnarsi da vivere e soddisfare la sua naturale inclinazione a stare con i giovani. Erano alunni di scuola media, dunque di buona società.
    Don Bosco non trovò difficoltà nel rapporto con loro. Impartiva loro ripetizioni di greco, assisteva nei dormitori e, stando alle sue parole, ebbe in quei giovani eccellenti amici che gli volevano bene e lo rispettavano. Ma si accorse di una cosa singolare: la difficoltà di influire profondamente quando il rapporto educativo è «finanziato». Il giovane può sempre dire: «Tu fai bene il tuo mestiere e io lo riconosco. Ma io pago il servizio». Il suo rapporto non era gratuito. Allora fece per sé una riflessione che il biografo ci ha tramandato: percepì la difficoltà di ottenere su quei giovani l'influsso pieno di cui si ha bisogno per far loro del bene e perciò si persuase di non essere stato chiamato ad occuparsi di giovani di famiglie agiate (cf MB I, 395).
    Il suo modo di educare non funzionava bene con quei giovani. C'era un buon rapporto. Ma si trattava di un rapporto piuttosto di cose che di persone. Era un interscambio di denaro con servizi, entrambi prestati con perfetta gentilezza e responsabilità. Ne scaturiva una relazione di rispetto e di amicizia, ma non di gratitudine. Invece il sistema che sperimentò dopo era basato sulla corrispondenza di affetto gratuitamente dato e gratuitamente corrisposto.
    Saper destare la fiducia è un aspetto della carità educativa, perché soltanto dove essa esiste è possibile il lavoro di educazione. Questo, come dice don Bosco, «è cosa di cuore».

    6. DAGLI ATTEGGIAMENTI ALLA PRATICA DI VITA

    Ci si può chiedere: come si manifesta la predilezione per i giovani? La fiducia nelle loro risorse? La capacità di amarli al di sopra della simpatia spontanea o della loro corrispondenza immediata? In altre parole, in quali espressioni si plasmano gli atteggiamenti della carità pastorale tipica di un educatore?
    Espressione tipica della carità pastorale è anzitutto l'incontro: il saper incontrare i giovani e incontrarsi con i ragazzi, facendo il primo passo. Questo ha relazione con la spiritualità. La spiritualità dell'educatore si constata nel «momento» educativo.
    Lo afferma con forza un testo salesiano: «Educare i giovani alla fede è, secondo don Bosco, "lavoro e preghiera"... Noi crediamo che Dio ci sta attendendo nei giovani per offrirci la grazia dell'incontro con Lui e per disporci a servirlo in loro riconoscendone la dignità e educandoli alla pienezza della vita. Il momento educativo diviene così il luogo privilegiato del nostro incontro con
    Lui» («...conversava con noi lungo il cammino»: per educare i giovani alla fede, LDC, Torino 1991, pag. 51-52).
    Si sa che don Bosco era maestro dell'incontro, del primo incontro e dei seguenti, e che non ha tralasciato di raccontarli nei suoi scritti pedagogici. In essi elimina le barriere della timidezza, della paura, dei pregiudizi; riusciva a suscitare la fiducia e a provocare la gioia.
    Ma perché l'incontro educativo con il giovane è pratica della carità e manifesta una spiritualità? Perché, internamente, ci porta ad una vera contemplazione: della presenza di Dio nel giovane, del suo piano salvifico, che è una manifestazione evidente nel fatto di essere stato chiamato alla vita, della forza salvatrice di Gesù. Ma l'incontro richiede anche un'ascesi e un esercizio di diverse virtù. Infatti non sono molti coloro che si sentono capaci di avvicinare qualsiasi ragazzo. C'è da vincere la comodità di restare sulle proprie, c'è da superare la diffidenza nella sua risposta, c'è il coraggio di mettere un velo sulle sue attuali abitudini, c'è da sperare nelle sue risorse. Possiamo pensare a quelli che cercano un contatto con i giovani delinquenti nelle grandi città o con i tossicodipendenti e a coloro che vanno ad incontrare i ragazzi delle carceri.
    Ma poi l'incontro che ridona fiducia e gioia unisce all'opera salvatrice di Gesù che tentò incontri insoliti, con la Samaritana, con Zaccheo, con l'adultera, con i peccatori. Non traccia Egli stesso l'immagine del buon Pastore come colui che va alla ricerca, trova e riporta la pecorella? L'incontro dell'educatore con il giovane è sacramento di questa presenza di Cristo, appassionata dell'uomo. Esige identificazione e unione con Lui.
    Una seconda pratica della carità pastorale è l'accoglienza, già inclusa nell'incontro, ma che può avere ulteriori. È accettare il giovane con tutto quello che porta con sé di limiti e di bisogno e farsene carico. Aprirgli le porte della propria casa e introdurlo anche nella propria vita e nella propria esperienza. Non riceverlo come un cliente o come un visitatore con tutta la correttezza che si vuole, ma per pochi minuti o nell'atrio del nostro essere. Ma dargli spazio nella nostra comprensione, dedicargli il nostro tempo, le nostre capacità.
    Accogliere vuol dire valorizzare il patrimonio che il giovane porta, aprire spazio alla sua partecipazione.
    «L'accoglienza tocca più profondamente, dice ancora un testo salesiano, quando a coinvolgere un giovane non sarà solo una persona, ma tutto l'ambiente carico di vita e di proposte» (o.c., p. 53).
    Infatti oggi si esige una sintesi maggiore tra l'aspetto comunitario e quello personalizzato.
    Forse tempo addietro l'accoglienza che si prestava al giovane era soprattutto «istituzionale»: egli si inseriva in un grande ambiente scolastico o oratoriano e si «sentiva» accolto. I vantaggi che in essi trovava, le nuove amicizie di compagni e adulti erano una novità per lui, perché i luoghi di socializzazione erano scarsi. Oggi l'entrata in un ambiente multitudinario ma anonimo, non dice nulla al giovane. Ha valore invece l'accoglienza umana e personale, espressa con gesti sensibili di accettazione.
    Si può riproporre la domanda, formulata prima, perché l'accoglienza di un giovane è pratica concreta della carità pastorale e quindi manifestazione non indifferente di una spiritualità educativa. I termini della risposta non sarebbero diversi dalla precedente: «Chi accoglie uno di questi, accoglie me».
    Ma, se come dice il testo citato, l'accoglienza si realizza non solo da persona a persona, ma anche in un ambiente adeguato (famiglia-comunità) allora la carità pastorale e l'amore educativo porteranno a spendere intelligenza, tempo e salute per organizzare, mantenere e arricchire un ambiente capace di offrire ai giovani un'esperienza positiva di convivenza, responsabilità, impegno e vita di fede.
    Ciò può richiedere prestazioni e momenti come preparare un programma di contenuti educativi, predisporre celebrazioni o momenti culturali in cui la preoccupazione «spirituale» appare evidente; ma richiede anche attenzioni molto semplici e a volte «materiali». Un ambiente infatti è fatto di persone, clima di relazioni ma anche di pareti, ornamentazione, stimoli. Implica pazienza e amore come la cura di una casa e di una famiglia. Postula attenzione ai singoli, animazione di gruppi, composizione di conflitti, riproposta di motivazioni, articolazioni di attività e responsabilità. E chi potrebbe negare che tutto questo oltre che una prova di amore ai giovani è un esercizio di virtù?
    La preoccupazione per predisporre un ambiente per i giovani non è perdita di tempo e ha riferimento con la spiritualità. Non sono spirituali o carnali le cose (San Paolo). È la persona che, mossa dall'istinto, dall'egoismo o dalla carità, conferisce qualità all'azione e orienta le cose verso lo spirituale o verso il carnale.
    Insieme all'incontro personale, all'accoglienza, all'animazione educativa e religiosa di un ambiente, commentiamo un'ultima manifestazione della carità pastorale: il rapporto personale che aiuta la crescita.
    L'accoglienza forse richiama soltanto il primo momento. L'educazione richiede poi un accompagnamento sereno ma prolungato. La natura provvede a ciò nella relazione padre-figlio. In essa la generazione biologica si continua con la iniziazione alla vita.
    Paternità responsabile è quella che non si limita al primo momento della concezione, ma si prende cura della crescita umana della persona. C'è anche una responsabilità educativa e pastorale. Essa non può limitarsi al primo incontro di simpatia o a qualche proposta occasionale. L'opera va portata a compimento. Ora se l'incontro esige speranza e coraggio, se l'accoglienza richiede tenerezza e ampiezza di cuore, il rapporto educativo duraturo richiede responsabilità paterna matura. È fatto allo stesso tempo di autorevolezza e rispetto, di energia e affetto, di guida e spazio di libertà, di previdenza e fiducia. Prende il modello della «paternità di Dio». Cerca di imitarla e farsene trasparenza per il giovane. Ci serve anche per questo un testo che recita: il salesiano è consapevole che impegnandosi per la salvezza della gioventù fa esperienza della paternità di Dio «che previene ogni creatura, l'accompagna con la sua presenza e la salva donando la vita» (Op. cit., pag. 51).
    Che il rapporto educativo esiga generosità, purezza di intenzione e di cuore, distacco e comporti sofferenza non c'è chi non lo veda. Basterebbe interrogare in merito educatori e genitori.


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