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    Una nuova rubrica di NPG

    PAROLE ADOLESCENTI

    Virginia e il professore


    18. La verità, vi prego,

    sull'amore

    virgy parcoCaro Professore, eccoci qui, dopo la scuola, sulla soglia di un’estate nuova, da vivere e scoprire. Quali novità ci/mi porterà. E Lei?

    Siamo quasi al termine di questo nostro intenso dialogo, che era partito quasi in sordina ed è poi diventato per me davvero importante, e c’è ancora un argomento su cui mi piacerebbe confrontarmi con Lei. Ma parto già con un po' di imbarazzo e già so che forse non si potrà mai comprenderlo davvero a fondo: l’amore.
    So di essere inesperta su questo argomento, ma anche che è tremendamente intrecciato alla mia vita. Chi, anche alla mia età, non si è mai preso una cotta per qualche ragazzino/a? Chi non ha mai sentito le farfalle nello stomaco?

    Da quando ero piccola ho guardato film, letto libri, studiato poesie che parlano di questa strana cosa chiamata amore. Da bambina sognavo l’abito bianco, sullo stile di Julia Roberts. Sognavo di incontrare il principe azzurro che sarebbe venuto ad aiutare me, una principessa che ha bisogno di essere salvata. Poi, con il passare degli anni, ho smesso di vedere il mondo come se fosse il gigantesco scenario di una bella favola, ho smesso di credere che esistano principi azzurri e di credere di essere una principessa. Non ho più sentito vero (o "realistico") il "per sempre felici e contenti", l'appartenersi reciprocamente, il perdersi nell'altro. In definitiva, ho smesso di sognare un amore senza fine, e non mi è più piaciuto pensare all’amore come a una “dipendenza” da un’altra persona (anzi, come "dipendenza" la vedo come una cosa "pericolosa"). Ho iniziato a vederlo come un qualcosa di infinitamente bello sì (appunto, un "sogno"), ma anche tristemente fragile e caduco (appunto, tanta "realtà"). Il bellissimo principe azzurro ha ceduto il passo a una persona la cui anima sia compatibile alla mia, che mi faccia sentire capita e amata. E ho capito che non importa se non dura per sempre, l’importante è essere – almeno un po’ – "felici e contenti" negli attimi fugaci che ci sono dati.
    Ho iniziato anche a capire che dietro agli amori che durano tutta la vita (oggi, vedo, sempre più rari) ci sono litigi, lacrime, cambiamenti. L’amore cambia: in un amore durato 50 anni non c’è la stessa passione che c’è nel (piccolo grande) amore tra due ragazzini, e in quest’ultimo non c’è la stessa profondità che c’è nel primo. Quali "certezze" dà l'amore, quando può finire anche appena iniziato o... sul più bello (o nel più brutto)? Sapesse quanto mi confonde e mi spaventa questo!
    Io bramo l’amore, dal di dentro di me stessa, non sono cinica... ma mi dà l’idea che sia un vicolo senza lampioni in mezzo alla notte, che può portarti alla felicità o può farti perdere nel buio.

    Sa, da quello che ho studiato quest'anno ho colto delle "verità" o almeno delle suggestioni. Penso a due storie d’amore che mi hanno affascinata e interrogata.
    L’amore tra Odisseo e Penelope mi sembra simboleggiare un aspetto importante dell'amore. Odisseo ha lottato per 10 anni per tornare dalla sua amata, senza arrendersi di fronte a sirene, ciclopi e terre sconosciute. Penelope l’ha aspettato, senza avere nessuna certezza. Non ha perso la speranza, anche quando chiunque l’avrebbe fatto, perché lei aveva bisogno di sperare. Penelope ha così mostrato che anche il suo cuore era il coraggioso cuore di un eroe. Bella storia, vero?
    L’amore tra Enea e Didone mi sembra invece simboleggiare l’amore infelice, quello effimero, destinato a non durare, che non dà la risposta ai bisogni interiori più profondi, anzi ne distoglie, e diventa così un rischio di fallimento. Se Enea fosse rimasto con Didone, avrebbe proseguito il viaggio e dato inizio alla storia di un popolo nuovo? Avrebbe così tradito il suo dovere, la sua missione in nome di una felicità personale? La scelta di fronte a cui si è trovato è drammatica: permettere all’amore di cambiare la sua vita (e tradire la sua missione), o in nome del suo dovere (futuro) tradire l'amore (presente)? Ma dove sta allora la felicità?
    Non so darmi una risposta a queste domande, anche se – dentro di me – sento che, sia tu Penelope o Didone, valga la pena di innamorarsi.

    Non voglio nascondermi dietro a figure mitiche, anche se mi hanno fatto capire insieme bellezza e rischio dell'amore; adesso dico di me. Non posso dire di essermi mai “innamorata”, ma posso assolutamente dire che la felice confusione, o addirittura il confusionario dolore, che ho provato quando qualche ragazzo mi ha fatto accelerare il battito del cuore è inspiegabilmente e incomprensibilmente bellissimo. Tutto acquisisce un valore speciale quando si è sotto l’effetto dell’amore. Ogni piccola cosa sembra incantata quando siamo felici, e stupendamente triste quando stiamo soffrendo. Sembrerà strano, ma (almeno per me) l’amore fa essere speciale anche il dolore. E il motivo per cui tutto diventa così speciale è che sono io a sentirmi più speciale. Degna di amore per qualcuno che reputo degno di amore, e questo non può che farmi innamorare un po’ anche di me stessa. Ma quando l’amore finisce, non c’è forse il rischio che mi possa sentire inadatta, di smettere di amare la persona che sono?
    Allora, l’amore fa bene o fa male? Rafforza o distrugge? E l’amore che fa male e distrugge, è davvero amore?

    Sono tante le domande che mi pongo, e non so se troverò mai le risposte che cerco. L’amore mi affascina e mi fa paura anche per questo motivo: è un enorme bellissimo spaventoso enigma. Io voglio riuscire a trovare una risposta a tutte le mie domande. Mi piace dare una spiegazione a quello che vivo e sento. Ma forse con l’amore non può succedere. Forse bisogna viverlo così com’è, senza starci troppo a pensare e senza saperlo spiegare a tutti i costi. E quando esso "succede"... succede (come lascia ancora intravedere la mitologia greca, in quel dio-bambino Eros che, munito di arco e frecce, come in un gioco scaglia le frecce a caso, indifferente a quanto può accadere in chi ne viene colpito).
    Capire il senso dell'amore o... viverlo? Anche quando ci travolge? O è solo un'illusione il credere che è il destino – un dio – che ce l'ha fatto capitare?
    E io, da inguaribile romantica, ho deciso che voglio crederci, voglio provarci.
    Sto sbagliando, professore? Magari fra un po' d'anni Le racconterò come è andato o come sta andando, OK?
    Sua,
    Virgi

    marcoCarissima Virginia,

    l’estate sempre tanto attesa è giunta, ma non preoccupiamoci di cosa ci porterà, bensì occupiamoci di ciò che di buono possiamo portare noi a coloro che incontreremo, vedremo, sentiremo in questi mesi. Il sole potrà ogni tanto essere coperto dalle nubi, l’importante è averlo dentro e non tenerlo solo per sé!
    Questa tua lettera sull’amore sarebbe un impegnativo compito per le vacanze, tuttavia cercherò di balbettare qualcosa sull’argomento – senza farti attendere troppo – anche solo per premiare il fatto che hai superato l’imbarazzo di parlarne. Sai, dopo le tue lettere iniziali, volta per volta, mi aspettavo che prima o poi, immersa nella tua adolescenza, mi avresti posto la questione più facile e più difficile del mondo.
    Sei inesperta, hai ragione, ma chi può dirsi esperto nell’amore? Non ci sono scuole, università, corsi, apprendistati, tutorial in grado di darci un titolo, un diploma, una laurea, una competenza in questo campo. Neanche l’età, la cosiddetta “maturità”, ci insegna davvero qualcosa, perché chi ama o si sente amato pienamente ritorna bambino anche a 100 anni; e non è negativo questo, tranne quando da adulti ci si gestisce in pubblico o in privato come se si fosse senza alcuna responsabilità. Amare richiede invece l’essere responsabili di chi si ama, il prendersene cura, cioè rispondere al bisogno dell’altro persino prima del proprio; il contrario è l’egoismo e, purtroppo, troppe volte ciò che chiamiamo “amore” è solo il riflesso di noi stessi, il desiderio di qualcuno che ci ritenga il centro del mondo, di un “specchio delle mie brame” che ci dica che siamo “i più belli del reame”!
    Pensaci, accade anche nell’uso quotidiano e negli affetti; noi diciamo “ti voglio bene”, ma è lo stesso di affermare “voglio il tuo bene”?

    Dunque da inesperto, da egoista, da irresponsabile, da apprendista ti scrivo pure io, tuttavia, con una certezza a proposito di sogni, di favole, di principesse e di principi azzurri, che ricavo da questa frase dello scrittore inglese Chesterton: «Le fiabe non insegnano ai bambini che esistono i draghi. I bambini lo sanno già. Quel che le fiabe insegnano ai bambini è che i draghi possono essere sconfitti». Parafrasando, si può dire che non si tratta di credere all’amore da favola o alle favole d’amore, bensì di imparare che è possibile amare ed essere amati senza i limiti dell’egoismo, dell’irresponsabilità, dell’inesperienza. Del resto, quando guardiamo un bel film o leggiamo un libro appassionante, tranne che non siano tratti da storie vere, ci emozioniamo e ci immedesimiamo pur sapendo che non è la realtà, e ciò perché troviamo “l’essenziale che è invisibile agli occhi” e che “non si vede bene che con il cuore”, per dirla con “Il piccolo principe”.
    Proprio il principe della storia di Saint’Exupéry, dialogando con una volpe, può aiutarci a trovare una via in mezzo alle tante tue giuste domande; attenzione, però, non le risposte, ma gli indizi, le mollichine per strada, il “filo di Arianna”:

    Disse il Piccolo Principe: «Che cosa vuol dire "addomesticare"?».
    «È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...».
    «Creare dei legami?».
    «Certo», disse la volpe. «Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo».
    «Comincio a capire», disse il piccolo principe. «C'è un fiore... credo che mi abbia addomesticato...». (…)
    Ma la volpe ritornò alla sua idea: «La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...». La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: «Per favore... addomesticami», disse.
    «Volentieri», rispose il piccolo principe, «ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose».
    «Non si conoscono che le cose che si addomesticano», disse la volpe. «Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!» «Che bisogna fare?» domandò il piccolo principe. «Bisogna essere molto pazienti» (…).
    Il piccolo principe ritornò l'indomani. «Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora», disse la volpe. «Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti».
    «Che cos'è un rito?» disse il piccolo principe. «Anche questa, è una cosa da tempo dimenticata», disse la volpe. «È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore».
    Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: «Ah!» disse la volpe, «... piangerò». «La colpa è tua», disse il piccolo principe, «io, non ti-volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi...» «È vero», disse la volpe. «Ma piangerai!» disse il piccolo principe. «È certo», disse la volpe. «Ma allora che ci guadagni?» «Ci guadagno», disse la volpe, «il colore del grano».
    Poi soggiunse: «Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. «Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto».
    Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose. «Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente», disse. «Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico e ora è per me unica al mondo». E le rose erano a disagio. «Voi siete belle, ma siete vuote», disse ancora. «Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa».
    E ritornò dalla volpe (…) che disse: «È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante».
    «È il tempo che ho perduto per la mia rosa...» sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
    «Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa...».

    E a te, carissima Virginia, “inguaribile romantica”, mi permetto di dire che non stai sbagliando, stai solo affrontando in pieno questo tuo tempo e ti auguro di vivere questi riti:
    - di addomesticare e di essere addomesticata non come si fa con un animale, ma forzando l’etimologia fino “portare ed essere portati all’addome”, cioè al punto di incontro di due cuori, nel luogo in cui si sentono le farfalle nello stomaco, al convergere di ogni abbraccio;
    - di sentirti unica e di far sentire gli altri unici per te;
    - di essere luce per qualcuno e di avere chi è pronto ad illuminare i tuoi passi;
    - di essere paziente, perché dentro la pazienza ci sono la passione e il dolore, cioè i più evidenti segni di ogni amore;
    - di riconoscere intorno a te, in ciò che ti circonda, nel particolare come nell’universale, a suo tempo, i tratti dell’amore;
    - di trovare chi ti faccia palpitare il cuore nell’attesa e di sapere attendere per scoprire la vera felicità;
    - di preparare il cuore ogni giorno, anche versando qualche lacrima, ma sempre con il colore del grano negli occhi;
    - di essere la rosa per qualcuno e di perdere il tempo per la tua rosa;
    - di sentirti responsabile di chi ami e di sentirti amata da qualcuno davvero responsabile;
    - di diventare consapevole che dire “Ti amo” significa non tanto “morire per” (che è un grandissimo gesto d’amore!) - per quel “Ti” che è anche un po’ “Te” - bensì soprattutto “generare” cioè dare la vita!

    Scusa la lunghezza, ma quando si parla di amore ci si perde facilmente e felicemente; tuttavia non perderò la tua promessa finale, se vorrai, di raccontarmi fra un po’ di anni com’è andata o come sta andando.

    Grazie e serena estate!
    Con affetto.
    Tuo prof. Marco Pappalardo


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