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    Dal dono alla bellezza: il volto quotidiano della grazia (cap. 5 di: Parola di Dio e vita quotidiana)


    Armido Rizzi, PAROLA DI DIO E VITA QUOTIDIANA, Elledici

      


    Carattere estetico e liturgico della vita quotidiana

    La bellezza, dicevano i medievali, è la bontà e verità delle cose che manifesta il suo splendore. Possiamo tradurre nella terminologia da noi adottata: la bellezza è il senso delle cose che si dispiega e si esibisce; o ancora: è il senso della vita che si oggettiva in figure adeguate. Perciò la vita quotidiana, in quanto luogo privilegiato del senso, è anche luogo di bellezza.
    Per sviluppare brevemente quest'idea possiamo ricorrere a due concezioni attuali dell'arte: la concezione ontologica e quella utopica. Secondo la prima, nell'arte la realtà viene trasmutata in forma, cioè viene liberata dalla propria imperfezione e incompiutezza, e raggiunge la verità a cui è profondamente chiamata. La concezione utopica aggiunge che lo stato perfetto della realtà trasfigurata in arte è un'anticipazione del mondo liberato, dove l'arte cesserà perché tutta la vita ne avrà raggiunto la perfezione.
    Una teologia della vita quotidiana (cioè una considerazione della vita quotidiana alla luce della parola di Dio) può sviluppare un'estetica a metà strada tra queste due concezioni. Dire che nel gesto del dono le cose arrivano al loro compimento equivale ad attribuire a questa loro condizione un'esteticità, che ne sviluppa le virtualità immanenti e le traduce in forma, dove la loro esistenza di fatto eguaglia il loro essere ideale, dove ritrovano l'innocenza e la freschezza della creazione. La differenza dall'opera d'arte è che questa vive di un'esistenza duratura perché fissata nell'oggettività solida della materia; invece la vita quotidiana disegna figure di senso e di bellezza che continuamente si dissolvono e che continuamente devono essere ricreate; sono figure mobili, forme fluenti, che possono richiamare l'arte della danza (non per nulla un libro recente porta il titolo: «danzare la vita»). Ma anche nei confronti della danza esse presentano uno scarto essenziale: alla loro base non sta un'abilità tecnica ma quella superiore qualità che è la libertà buona, la volontà di giustizia, la logica del dono.
    Qui è anche lo specifico della loro funzione utopica: mentre l'opera d'arte può solo rappresentare un futuro mondo perfetto, l'opera della vita ne pre-contiene il germe; quella ne esprime il desiderio e l'assenza, questa ne offre l'incoativa presenza e dunque la promessa.
    Estetica della vita quotidiana è perciò altra cosa dal circondarsi di oggetti belli; è rendere bella la vita, secondo un ideale che era già greco ma che alla luce biblica acquista un significato diverso: non è tanto l'esaltazione delle possibilità individuali che qui conta, quanto l'armonia che sprigiona dalla fraternità vissuta, la bellezza che s'irradia dall'incontro, dal dono offerto, accolto e corrisposto. Si tratta di quella gratuità che, alla fonte, è la generosità del donare, e, nel suo manifestarsi, è l'autofinalità della fruizione reciproca. Dostoevskij scrisse un giorno che la bellezza salverà il mondo; ma per la bibbia la bellezza, più che salvatrice, è il mondo salvato.
    Questa visione estetica si completa poi in visione liturgica, quando la vita diventata forma viene vissuta alla presenza di Dio, dinnanzi al suo sguardo. Vivere nella forza della giustizia e nella gioia del dono non è possibile che nello Spirito di Dio; ma la liturgia non è soltanto l'evento sacramentale della potenza di Dio nell'uomo: è anche il gesto offertoriale della gratitudine dell'uomo verso Dio. Parlare della vita come liturgia significa allora sottolineare che la sua esteticità, in quanto compimento della creazione, viene vissuta sotto gli occhi di Dio e offerta a lui come azione di grazie.
    Questo tema meriterebbe una riflessione approfondita, ma, invece di proseguire nel delinearlo teoricamente, vogliamo presentare, a titolo di esempio, due immagini di questo modo estetico e liturgico di vivere il quotidiano.

    Figure del quotidiano

    La vita quotidiana, anche intesa come spazio, non è un'area immobile e definita una volta per tutte, ma presenta confini diversificati a seconda sia della situazione che delle scelte personali, e per di più mobili, data la mutabilità sia di quella situazione che di queste scelte. Tuttavia vi sono alcuni luoghi in cui la vita quotidiana trova come il suo ambiente originario e naturale; luoghi che della vita quotidiana sono il «simbolo reale»: reale, perché ne sono una particolare attuazione; simbolo, perché sono una parte che rappresenta il tutto e in cui si possono vedere raffigurate come in miniatura le strutture generali del quotidiano. Questi luoghi simbolico-reali - o figure - del quotidiano sono la giornata e la casa; l'una è figura per eccellenza del tempo quotidiano, l'altra dello spazio quotidiano.

    La giornata

    La tradizione cristiana, dalla pratica monastica alla «Vita comune» di Bonhoeffer, ha attribuito grande importanza alla scansione strettamente quotidiana del tempo (basti pensare alla «liturgia delle ore») In questo fenomeno giocava indubbiamente anche l'appartenenza quasi totale della vita umana ai ritmi e cicli della natura dentro la società contadina, ma non era tutto qui. C'era la percezione che quei ritmi, aldilà della loro funzione biologica ed economica, hanno una connaturata valenza simbolica, parlano da se stessi all'uomo in cerca del senso del suo esistere, e quindi sono il luogo originario in cui la parola di Dio risuona e che essa vuol colmare di senso.
    Il ritmo fondamentale della giornata, quello che addirittura la costituisce, è l'alternanza giorno-notte. Essa presenta due significati antropologici di base, cioè due linee di ricerca di senso, su ognuna delle quali si innesta, come conferimento di quel senso, un significato spirituale.

    Veglia-sonno

    Giorno e notte sono anzitutto (e lo sono tuttora malgrado i grandi rivolgimenti indotti dal modo industriale di produzione) il tempo della veglia e il tempo del sonno.
    Che cos'è la veglia? È l'attivazione della coscienza, cioè del fondamentale rapporto recettivo nei confronti del mondo. La coscienza è il luogo in cui il mondo invade l'uomo, lo sollecita, lo invita al colloquio con le cose. Ora, questo incontro tra l'uomo e il mondo ha bisogno del giorno, perché è mediato soprattutto da parte dell'uomo, dalla vista, da parte delle cose, dalla luce. E davanti allo sguardo ed avvolte nella luce che le cose emergono dall'indistinzione, dal caos e prendono figura, si dispiegano in paesaggio, diventano mondo. Al buio non ci sono, per l'uomo, le cose; ci sono eventualmente fonti ignote di rumori, di odori, di resistenza al movimento, Come canta un inno liturgico recente, «le cose riemergon dal buio - com'era al principio del mondo». Ogni mattino è questo ritrovare il mondo, questo ritrovarsi cittadini di un mondo che, nel bene o nel male, nella gioia o nell'angoscia, è il nostro unico habitat.
    Fin qui si tratta di una semplice constatazione, aiutata da una elementare fenomenologia: svegliarsi non è, prima di tutto, scegliere; è trovarsi immersi in qualcosa che circonda la nostra vita prima di ogni nostra possibile scelta: è ritrovare la realtà come dato, come insieme organizzato con cui fare i conti e dentro cui muovere i passi, come esistente di cui interrogare il senso e dentro cui cercare il nostro senso.
    Ora, la parola di Dio ci dice che il mondo è creazione: quest'insieme di cose in cui bello e brutto si avvicendano, che ci offrono momenti d'incanto e periodi d'angoscia, sono parole pronunciate da una libertà amorosa, sono doni scaturiti da una mano provvida e generosa. Se la creazione è il mattino del mondo, ogni mattino è la nuova creazione: conferimento di un senso radicale che sottende tutte le cose e le vicende, aldilà del loro monotono consistere e del loro tumultuoso accadere. Il mattino è allora il tempo della sempre rinnovata scoperta del senso; il tempo in cui sullo sguardo che si ridesta al mondo si innestano gli «occhi della fede», perché la luce che avvolge la figura delle cose è avvolta dalla luce di benevolenza che scende dal volto di Dio. Svegliarsi è sempre salutare il mondo; ma svegliarsi da credenti vuol dire salutare, dietro il mondo dei fenomeni - cose e avvenimenti - l'essere di dono che li genera e li regge. Ma anche l'essere del perdono che li rigenera: il mattino è il tempo della creazione e il tempo della risurrezione di Cristo (che però ha a disposizione una giornata particolare nel ciclo settimanale: la domenica). Allora, il mattino è il tempo della lode, dell'azione di grazie. Quella dimensione di accoglienza del mondo come dono, che costituisce l'atteggiamento di base dell'esistenza credente, trova nella sveglia e nelle prime azioni mattutine il momento privilegiato della sua attualizzazione ed esplicitazione. Questo non è sempre facile. Il risveglio può essere duro: perché il riposo è stato insufficiente, o perché la giornata si presenta carica di occupazioni e preoccupazioni; o, più generalmente, perché «è un giorno come un altro», immerso nella nebbia della monotonia e dell'insipidezza di possibilità povere di senso. Ma la fede nella creazione, e la lode che ne scaturisce, non sono formule di ottimismo ideologico o di effervescenza psicologica. Sono una sintonizzazione sul senso profondo della realtà; e si sa che nessuno strumento mantiene per sempre la sintonia, ed è necessario di tanto in tanto accordarlo. Il primo mattino è allora il tempo in cui il cuore credente si accorda sul cuore nascosto del mondo: «Voglio cantare, a te voglio inneggiare: - svegliati, mio cuore - svegliati arpa, cetra - voglio svegliare l'aurora» (Sal 57,9).
    E la notte? La notte significa, come sfondo da cui le cose emergono, sia il nulla iniziale che, e più ancora, la potenza del male che ha rovinato la creazione e che viene vinta nella ricreazione, che ha dissolto il dono e che viene debellata nel perdono. Questo rapporto notte-male è presente sia nella bibbia che nella tradizione spirituale: la notte è tempo di paura, di tentazione: il sonno toglie all'uomo l'autopadronanza, lo mette in balia di poteri estranei. Scrive Bonhoeffer: «In tutte le antiche preghiere serali notiamo la ripetuta richiesta di essere preservati, durante la notte dalle insidie del diavolo, dal terrore, da improvvisa e brutta morte. I nostri padri sentivano ancora l'impotenza dell'uomo durante il sonno, sapevano della parentela tra sonno e morte, della astuzia del diavolo, che fa cadere l'uomo quando è indifeso. Perciò invocavano l'aiuto degli angeli e delle loro armi auree, e la presenza degli eserciti celesti, lì dove Satana vuole sopraffarci».

    Lavoro-riposo

    Il primo incontro col mondo è, per l'uomo, di tipo recettivo: l'uomo non ha la possibilità di produrre le cose dal nulla ma le trova già fatte e schierate attorno a sé. Tuttavia questa iniziale passività non è destinata a chiudersi su se stessa, in una forma di inerte godimento; essa costituisce la base per l'attività, per l'intervento dell'uomo sul mondo. Svegliarsi non è solo trovare le cose; è trovare il lavoro che ci attende a riguardo delle cose. Perché, se esse sono già fatte, sono non ancora finite; il mondo rivela come un'incompiutezza, l'attesa di qualcuno che lo aiuti a crescere, a diventare interamente se stesso.
    È evidente che il lavoro «dà senso» alle cose; che la trasformazione del mondo imprime in esso quel segno dell'umano che è la ricerca di senso. Ma quale senso? Quello di un immediato soddisfacimento dei propri bisogni? o il grande programma di dominio totale dell'uomo sulla natura? Un'attività che collabori con la forza vitale presente nel cosmo, che ne prolunghi la finalità, o un intervento senz'altro criterio e limite che la volontà di potenza del soggetto umano? Per rispondere a queste domande bisogna passare, ancora una volta, dal livello puramente antropologico a quello teologico e spirituale.
    Alla luce della parola di Dio, il lavoro umano non è pura e arbitraria iniziativa ma «responsabilità», cioè corrispondenza a un incarico di fiducia, esecuzione di un compito. L'uomo non fonda il senso delle cose ma le interpreta per cogliere quel senso radicale che esse portano in sé come possibilità e che attende di essere portato alla luce, messo in opera, realizzato. La libertà umana è obbedienza creatrice.
    Ma l'intenzionalità portante cui essa deve obbedire è il dono, il senso radicale del mondo che essa deve cogliere e sviluppare è quella gratuità con cui il mondo è stato fatto e in forza della quale soltanto può sussistere e riuscire. La libertà umana è così chiamata ad essere l'operosa concretezza della logica del dono.
    Ed ecco la seconda dimensione simbolico-reale del mattino: all'inizio della giornata di lavoro, attualizzare quella logica di responsabilità che fa del lavoro stesso un compito di fronte a Dio, e quella logica di dono che ne fa un servizio agli uomini. Anche qui non si tratta di cullarsi in infantili illusioni che pensano di poter trasformare interamente il lavoro in gioco o di poterlo sublimare integralmente in una specie di celebrazione cosmica. Il lavoro, come tutto l'umano, è sotto il duplice segno della grazia e del peccato, della creazione e della caduta, della gioiosa produttività e della pesante alienazione. La spiritualità del mattino è di disporsi al lavoro come dono attivo, dopo aver lodato Dio per il dono ricevuto; è di chiedere forza per portarne l'alienazione e luce per disalienarlo, energia per la fatica e passione per la creatività: che l'una non accasci e l'altra non esalti, ma ambedue siano comandate dall'obbedienza al progetto creatore e dall'amore ai fratelli.
    E quale sarà allora la spiritualità della sera e della notte? Al lavoro succede il riposo: è, questa, una legge fisiologica e psicologica fondamentale. Ma dietro di essa si profila (e su di essa si innesta) un significato spirituale di prima importanza: noi non siamo padroni del nostro lavoro, non siamo gli architetti nella costruzione del mondo; noi operiamo dentro un progetto che non ci appartiene, a servizio di un disegno di cui non possediamo i termini estremi. Responsabile non è sinonimo di signore ma di servo: vuol dire essere chiamati a rispondere di ciò che si fa, renderne conto a un altro. Il nostro lavoro è un compito: la dimensione progettuale, che pure gli è necessaria, non è la prima né l'ultima; essa è retta da una dimensione di ascolto e di accoglienza, di esecuzione e di corrispondenza. Chi progetta, si ritaglia la misura del proprio lavoro; chi esegue un compito, se la vede ritagliata da chi glielo affida: la misura del lavoro del credente è la volontà del suo Signore.
    Ora, l'alternanza quotidiana lavoro-riposo è come la trascrizione di questa legge spirituale nei ritmi biologici. Se fossimo padroni dei nostri progetti, riposeremmo soltanto dopo averli condotti a termine. Ma la necessità di interromperli, di spezzarli ogni sera secondo una modalità che non è loro intrinseca ma che dipende da una necessità naturale, è il segno della creaturalità dell'uomo; la sua dipendenza da questa elementare necessità è il simbolo vivo della sua dipendenza da un progetto superiore.
    Perciò, da una parte il riposo vuol dire rinuncia a quella volontà di onnipotenza con cui il soggetto umano vorrebbe dominare integralmente il mondo e gestire senza residui la propria vita; dall'altra vuol dire la liberazione da quell'affanno che è l'altra faccia della volontà di potenza (come la paura è l'altra faccia della presunzione). La spiritualità della sera si esprime nel gesto della «riconsegna»: ecco, Signore, ho svolto il compito che oggi mi hai affidato.
    La giornata acquista così una sua compiutezza, una sua unità più profonda di quella che può essere l'unità del progetto: di qui il nome di «compieta» per la preghiera della sera. La soluzione di continuità tra lavoro e riposo viene saldata dalla più radicale continuità dell'accettazione dell'uno e dell'altro dalla mano di Dio, di colui che è signore del vegliare e del dormire, del lavorare e del riposare. Anche il riposo diventa un atto responsabile; non declino delle proprie responsabilità ma abbandono del «troppo» che facilmente le accompagna: il protagonismo o l'ansia, lo stakanovismo o la paura. «A ogni giorno basta il suo affanno» (Mt 6); «invano andate tardi a riposare: il Signore darà pane ai suoi amici nel sonno» (Sal 127). L'attività insonne di Dio culla il sonno dell'uomo, perché «non s'addormenta, non prende sonno il custode d'Israele» (Sal 121). Perciò «sono tranquillo e sereno, come bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131); perciò ancora «in pace mi corico e subito mi addormento» (Sal 4).

    Il pasto

    Oltre all'alternarsi di lavoro e riposo, un altro è l'appuntamento quotidiano fondamentale: il pasto. Anche il pasto risponde a un'esigenza biologica; ma, anche qui, essa fa da terreno per una ricca fioritura simbolica esistenziale. Non ci riferiamo all'atto di mangiare come tale, e quindi alle diverse manducazioni che, almeno nei paesi ricchi, accompagnano la giornata normale; qui infatti, pur non mancando una dimensione simbolica, prevale l'aspetto funzionale della nutrizione (o della «gola»). Vogliamo riferirci al pasto come atto comunitario, che raccoglie attorno alla tavola i membri della famiglia (o della più ampia comunità).
    Il termine che riassume il significato spirituale di questo atto è: convivialità. Esso vuol dire comunità-in-festa. C'è più di un rapporto tra comunità e festa. Anzitutto: poiché ciò che separa i membri della comunità è normalmente il lavoro, la sospensione del lavoro torna spontaneamente a riunirli. L'attività lavorativa disaggrega la comunità (anche nelle aziende familiari c'è un'inevitabile divisione del lavoro) per unire gli individui in una aggregazione funzionale allo scopo produttore; la cessazione del lavoro - dunque la vacanza, la «festa» - permette la ricomposizione della comunità.
    Ma questo rapporto è ancora esterno: può darsi che il ritrovarsi dopo la quotidiana separazione sia semplicemente un fatto di abitudine, sprovvisto di significato e di valore. Anche qui bisogna allora passare dal livello strutturale a quello spirituale: la comunità è collegata alla festa perché e quando ne vive il valore intrinseco, la fraternità e l'amicizia che lega tra loro i membri. La festa non è semplicemente assenza di lavoro; è il tempo dell'attività gratuita, fine a se stessa, espressione della bellezza del mondo. Ora, la forma più alta dell'agire gratuito è appunto la fruizione reciproca degli esseri umani nell'amicizia; è l'amicizia che, aldilà delle sue funzioni di aiuto e di servizio, diventa splendore e godimento della reciprocità. In questo senso si può dire che la festa è l'atto che definisce la comunità in quanto tale.
    Ora, il pasto è la festa quotidiana. E intendiamo soprattutto il pasto serale, dove convergono la cessazione del lavoro e la ricomposizione della comunità, che creano le condizioni per l'espansione della gratuità. Il pasto si coniuga al riposo nel disegnare la compiutezza della giornata: se ad ogni giorno basta il suo affanno, ogni giorno ha la sua gioia. Una gioia che, pur essendo fine a se stessa, non è però chiusa in se stessa. La tradizione cristiana conosce l'apertura verticale del pasto, che vede in esso l'immagine del mondo futuro (banchetto escatologico). Ma c'è anche, più incalzante, l'apertura a quel futuro terreno che è l'umanità riconciliata e piena: la pace universale, la partecipazione di tutti ai beni della terra e dell'amicizia. Quest'orizzonte universale è la più matura ricchezza dei nostri pasti; ma è anche la loro ferita, fino a quando esso rimane promessa inadempiuta. In alcune comunità ebraiche a tavola c'è una sedia vuota; è il posto per il Messia che deve venire. Alle nostre tavole dev'essere preparato il posto per l'umanità affamata (di pane e di amicizia, di cibo e di solidarietà): è il Messia che bussa alle porte.

    La casa

    Giornata e casa sono saldamente connesse; parlare dell'una ci ha già portati a parlare dell'altra. Ma la nota dominante della giornata è il tempo, mentre la casa richiama prevalentemente uno spazio. Perciò dobbiamo aggiungere alla nostra riflessione alcune considerazioni ulteriori.
    A prima vista la casa è una parte dello spazio, un pezzo del mondo che l'uomo occupa ed entro cui si muove. In realtà, essa è molto di più. Come rileva con perspicacia il filosofo ebreo E. Lévinas, la casa è la prospettiva dalla quale l'uomo si apre al mondo ed entra in rapporto con il mondo. Vale della casa ciò che vale del proprio corpo: lo si può considerare da un punto di vista «oggettivo», come una delle cose che occupano lo spazio, dotata delle stesse proprietà di altre e in rapporto di interazione con esse. Ma l'aspetto fondamentale è un altro: prima di essere un oggetto tra tanti, il mio corpo è il punto di vista dal quale - e dal quale unicamente - posso considerare tutti gli altri; è il corpo «vissuto», che s'identifica con la mia stessa soggettività aperta al mondo.
    La casa è il prolungamento del corpo vissuto; i due hanno la stessa funzione esistenziale di prospettiva originaria sulla realtà, e non è certo casuale l'uso di espressioni come: gli occhi sono le finestre dell'anima, i sensi sono la porta sul mondo. La casa è dunque, come il corpo, la radicazione prima, la situazione vitale che sta alla base di tutte le altre, l'humus che riceve ed elabora ogni succo e la piattaforma da cui decolla ogni iniziativa.
    In che rapporto sta la parola di Dio con la casa così intesa? A prima vista sembra un rapporto di opposizione e di esclusione. Come non ricordare che l'avvio della storia di salvezza si identifica con un atto di sradicamento? «Lascia la tua terra, la tua patria, la tua casa»: così dice il Signore ad Abramo; e non si tratta certo di un atto episodico e passeggero; esso esprime piuttosto una legge, una costante. La relazione tra parola di Dio e sradicamento non è contingente ma necessaria; la Parola chiama sempre «fuori», è sempre appello all'esodo: si tratti di Abramo o di Israele o dei discepoli di Gesù, essa comporta sempre un «lasciare», una rottura con il mondo anteriore, un abbandono della casa d'origine.
    Ma qual è il vero significato di tale rottura? Se è facile identificarne il punto di partenza - la casa, appunto, come luogo e simbolo reale delle relazioni naturali - meno facile è individuarne lo scopo, la destinazione. Una lunga tradizione ha contrapposto alla casa-terra la patria-cielo; dove la casa è diventata allora esilio, lontananza, quando non addirittura carcere. Vicina a questa e ad essa collegata è la tradizione che oppone casa e deserto, esistenza nel mondo ed esistenza monastica, vita naturale (nelle sue dimensioni affettive e sociali, economiche e politiche) e vita «angelica» (nella pratica di povertà, castità e obbedienza); e più tardi, con gli Ordini mendicanti, oppone stabilità e itineranza, sicurezza e aleatorietà.
    Molto più recente è un'interpretazione socio-teologica, che vede nella casa il tipo di rapporti che caratterizzano la società rurale, con la sua immobilità e il suo legame alla terra, e nella partenza la libertà, il pluralismo, la mobilità propria della società industriale.
    C'è qualcosa di vero in tutte queste interpretazioni; ma esse non colpiscono il centro autenticamente biblico della rottura che la parola di Dio esige e determina. Noi abbiamo visto e verificato che il luogo di questa rottura è il desiderio nella sua tendenza al possesso, e che la destinazione è il passaggio alla logica del dono. Abramo lascia una terra e ne trova un'altra; Israele, uscito dall'Egitto, passa attraverso il deserto ma per approdare alla terra promessa; la comunità cristiana non cancella i rapporti naturali ma li inscrive nel quadro della comunità fraterna. Il vero significato della rottura che la parola di Dio introduce nell'ordine naturale, nello spazio della casa e della terra, è che essi non costituiscono più il fondamento delle relazioni tra gli uomini; tale fondamento è posto dalla Parola stessa, ed è la vocazione alla partecipazione, alla libertà per l'amore. La casa in cui è entrata efficacemente la parola di Dio non è più il luogo esclusivo della famiglia (e poco importa, da questo punto di vista, che sia la famiglia mononucleare borghese o la famiglia patriarcale) ma il luogo aperto della comunità; non è la più la terra dove si coltivano gelosamente affetti e interessi al tepore della consanguineità, ma il crocevia dove si incontrano strade diverse, che vengono da lontano e riportano lontano.
    Intendiamoci: la casa deve restare casa: deve offrire rifugio e protezione, calore e sicurezza. Deve avere e dare radici. Ma radici così possenti da reggere un albero grande e robusto, dove tanti possano mettere il loro nido (non è questa un'immagine del regno di Dio? Mt 13,32). Uscire di casa non significa, nella sostanza dell'immagine, pellegrinare, ma accogliere; non significa non avere casa, ma fare della propria casa la casa di tutti, lo spazio dell'ospitalità.
    L'ospitalità è una delle pratiche caratterizzanti del cristianesimo primitivo; i fratelli in viaggio - predicatori itineranti o fedeli inviati ad assistere i condannati ai lavori forzati, o altro - sapevano di poter contare, presso ogni comunità, su un tetto, una tavola, su amici accoglienti anche se ignoti. La facilità agli spostamenti rende oggi di nuovo attuale questa pratica; la scarsità di alloggi la rende particolarmente preziosa. C'è però qualcosa che differenzia la situazione odierna da quella del cristiano dei primi secoli; c'è un «bisogno di casa» che non ha più come oggetto soltanto le quattro mura entro cui ripararsi ma una trama di rapporti personali entro cui riconoscersi. È facile fare della letteratura sulla solitudine dell'uomo contemporaneo; meno facile guardarla in faccia e tenderle la mano quando si presenta: nell'abbandono del vecchio e nel disorientamento del giovane, nell'isolamento dell'emarginato e nelle stranezze dello psichicamente disturbato.
    Dire che la solitudine - la solitudine cattiva - è mancanza di casa, non è usare una metafora letteraria ma esprimere il significato vivo che la casa assume per chi vi abita. Lo sappiamo già: casa è dove uno si sente radicato, difeso, capito, custodito; dove avverte di poter essere e apparire, crescere ed esprimersi, assimilare e comunicare. Uno si può sentire estraneo tra i muri di casa, e «a casa sua» nel luogo più disagevole. Ospitare è dare una casa nel senso pieno, è venire incontro a una solitudine e colmarla. Se in passato l'ospitalità accentuava l'aspetto esterno dell'accoglienza, è perché supponeva che questa portasse con sé quasi automaticamente il contenuto di umanità che le pertiene. Supposizione complessivamente vera: la casa incarnava un sistema di rapporti e di ruoli che, pur nella fissità istituzionale (o forse proprio per questo), mantenevano un volto umano, disegnavano una cornice di sicurezza ispirante fiducia. Il ruolo può guastare la vita, ma può anche - e prima di tutto - conservarla e darle sapore.
    La progressiva dissoluzione dei modelli istituzionali, da una parte moltiplica i «senza casa», dall'altra rende più difficile l'offrirne una da parte di chi, bene o male, ancora la conserva. Ospitare è un gesto sempre più necessario ma sempre più arduo. C'è sempre più bisogno di strutture d'accoglienza, ma l'accoglienza è sempre meno capace di farsi struttura, sempre più affidata alla disponibilità, alla pazienza, alla inventiva del singolo e della piccola comunità. La stessa compagine familiare non è più un luogo esistenziale che corrisponda spontaneamente al luogo fisico della casa; soltanto un'ospitalità reciproca sempre rinnovata può far sentire «a casa sua» ognuno dei membri della famiglia ed evitare l'allontanamento affettivo e spesso effettivo. Nessun luogo è più, in quanto tale, casa e patria; ognuno deve farsi casa per l'altro, vedendo in lui, aldilà delle etichette di appartenenza o di separazione, la solitudine che lo bracca, il bisogno di essere accolto, l'implorazione a essere ospitato.
    Come è stato scritto, la fede cristiana è un «tener compagnia», come Dio in Gesù si è accompagnato all'uomo nella solitudine del suo essere al mondo. Allora la pratica dell'ospitalità, questa piccola e dimessa virtù del quotidiano, diventa come la figura di quanto c'è di più essenziale, di più segreto, di più divino, nell'evento cristiano. Diventa il volto quotidiano della grazia. Di quella grazia che, seminata come dono, fiorisce come bellezza. Aperta all'accoglienza, la casa viene redenta; e con essa viene redento ciò che vi si trova e ciò che vi si fa: gli spazi, gli oggetti, i lavori domestici. Ridiventa luogo di benedizione.

     


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