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    La parola di Dio dà senso alla vita. Problemi di principio: ermeneutica, parola di Dio, vita quotidiana (cap. 3 di: Parola di Dio e vita quotidiana)


    Armido Rizzi, PAROLA DI DIO E VITA QUOTIDIANA, Elledici

     


    La coscienza ermeneutica

    Abbiamo visto come il testo biblico si sia costituito, forgiato, modellato dentro il vivo della storia di uomini; poi, come esso sia stato rivissuto dalla storia di altri uomini, portato ogni volta a contatto con quel catalizzatore che è l'esistenza dei lettori, individui e comunità.
    Era naturale aspettarsi che le due linee di esigenza e di collocazione vitale non sempre convergessero, che interessi e concetti, problemi e categorie della tradizione non sempre collimassero con quelli della bibbia. Tra la vita del lettore e il mondo del testo biblico si è verificato spesso un incontro sbilanciato in direzione della prima. E questo, sia che gli interessi vitali del lettore fossero riconosciuti e accettati, sia che, al contrario, Si presumesse di eseguire una lettura altamente oggettiva. In questo caso si prendeva per oggettività universale quella che era la mentalità (europea) del lettore; e si proiettavano nella bibbia schemi mentali, problemi di pensiero e d'azione propri dell'uomo moderno.
    La svolta fondamentale nel modo di accostare la bibbia può essere sintetizzata in una sola parola: coscienza ermeneutica.
    Coscienza ermeneutica è la consapevolezza della storicità di ogni parola umana, del suo collegamento essenziale a una situazione di vita, da cui trae sostanza di significato e di comunicazione; ed è, ancora, la consapevolezza della storicità di ogni lettura, del suo collegamento essenziale al mondo di interessi e di prospettive del lettore. L'ermeneutica è una teoria che porta a una pratica; ed è una pratica che porta in sé, con avvertenza riflessa più o meno acuta, una teoria. Quanto abbiamo detto, nelle prime due parti, sul nascere e sul rivivere delle pagine bibliche dentro le situazioni vitali cangianti della comunità di fede, è frutto della coscienza ermeneutica contemporanea nel suo risvolto pratico, nella sua applicazione a concreti problemi di interpretazione dei testi e di storia della loro interpretazione. Ma per ricomprendere questi testi dentro il nostro oggi dobbiamo fissare anche alcuni punti di carattere più teorico della svolta ermeneutica; dobbiamo, in particolare, considerare con una certa attenzione quello che è il fuoco, il centro della teoria ermeneutica: il rapporto stesso tra lettore e testo, cioè l'atto dell'interpretare e del capire.

    Interpretare è comprendere il mondo umano

    Mondo umano è tutto ciò in cui si incarna e si esprime un'intenzionalità, cioè un'idea, un progetto, una volontà d'azione. Un gesto e un manufatto, un rito e un'istituzione, un'iniziativa politica e un'opera d'arte: sono altrettanti fatti dotati di significato perché traducono un'idea in realtà, materiano una volontà in una situazione. Ora, interpretare è appunto capire quale significato sia inscritto nel fatto, di quale senso esso sia portatore; e poiché il significato non è altro che l'idea che il soggetto agente vi ha impresso, interpretare è leggere quest'idea, risalire dal fatto al progetto, all'intenzione che l'ha prodotto e lo anima.
    Questo vale anche di un testo: anche il testo è realizzazione di un'idea, è incarnazione di un progetto in quel materiale che sono le categorie culturali e i segni linguistici di cui l'autore si serve. Ogni testo è dunque storico perché vi si esprime un soggetto ben situato secondo le coordinate dello spazio e del tempo, del modo di produzione economica e di elaborazione culturale, oltre che - spesso - di situazioni puntuali e mutevoli Eppure tutto ciò non significa relativismo o soggettivismo, non compromette la verità di cui il testo è portatore; anzi, proprio la storicità del testo ne garantisce l'oggettività; esso è di fronte a me con quel mondo di significati che l'autore ha inteso comunicare e che nel testo si sono oggettivati e hanno acquisito una specie di esistenza eterna pur senza abdicare alla loro storicità. L'autore è «altro» dal lettore, e questa alterità è la fonte dell'oggettività della parola, dello scritto nella sua singolarità e concretezza. Interpretare non è prendere occasione dal testo per enunciare idee proprie; è lasciarlo parlare, ascoltare ciò che esso deve e vuol dire. Storicizzare il testo non è vanificarne la verità; inserirlo nella vita non è svuotarne il messaggio; al contrario, è l'unico modo per riscoprirlo quale esso è e non quale vorremmo che fosse. Con un gioco di parole: ridare al testo il suo contesto non è farne un pretesto è creare la condizione per individuarne l'identità.
    Ci sono due modi di fraintendere l'oggettività del testo: a un estremo, prendere tutto alla lettera, come se le parole fossero essenze immutabili e non prodotti storici dell'uomo; all'altro, scavalcare la lettera per trovare un senso che non è più frutto di interpretazione ma di invenzione. E come spesso gli estremi si toccano, anche qui da ambedue le parti si arriva a liquidare la serietà dell'impegno ermeneutico, cioè l'attenzione all'autore, l'ascolto, il rispetto, la considerazione per colui che parla attraverso il testo.
    Ma oggettività non è distacco impersonale. Si può entrare nel mondo di un altro, cogliere il significato che egli vuole trasmettere, soltanto se si è in sintonia con quel mondo, se si ha congenialità con quel significato. L'interpretazione è un fenomeno soggettivo perché personale; non è come un obiettivo che fotografi la realtà ma come un organismo che la assimila secondo la propria capacità di recezione e di reazione. Soltanto impegnando la soggettività dell'interprete si può entrare nell'oggettività del testo; diversamente, il testo rimane muto e insignificante. Questo non vuol dire abbandonarsi al gioco incontrollato della soggettività.
    C'è una soggettività buona, che mette il lettore sulla stessa lunghezza d'onda del testo, che ne permette o agevola la comprensione (e si chiama perciò precomprensione); e c'è una soggettività scorretta, che ostacola o addirittura chiude l'accesso al testo (ed è il pregiudizio). Si può dire che l'educazione ermeneutica è il cammino dai pregiudizi alla precomprensione, dalla cattiva alla buona soggettività.
    Questo cammino si impara praticandolo. L'apprendimento dell'interpretazione avviene attraverso lo sforzo e l'esercizio dell'interpretare stesso. C'è un influsso reciproco tra testo e lettore - chiamato «circolo ermeneutico» - che, se praticato con vigilanza, porta alla progressiva sintonizzazione del lettore sul testo e alla sempre più intensa capacità di penetrarlo.
    Un'ultima osservazione. Ogni testo può essere capito per ciò che vuol dire in se stesso, senza che questa comprensione implichi un'adesione, una partecipazione esistenziale in prima persona. In questo caso l'apporto della soggettività del lettore consiste nel portare dentro di sé una ricchezza di interessi culturali che lo rende sensibile all'argomento trattato, aperto alle sue problematiche. Ma si può anche accostare un testo chiedendosi che cosa esso può e vuole dire per me, quale verità esistenziale intenda consegnarmi perché io la accolga e ne viva. In questo caso il contributo del soggetto è più profondo: non basta un'identità di interessi culturali ma è necessaria una disponibilità al coinvolgimento vitale, alla messa in questione di se stessi, in una parola, alla «conversione». E' questo il caso di testi portatori di messaggi religiosi o comunque salvifici; è, in particolare, il caso della bibbia. Se per comprendere qualunque parola è necessario essere mentalmente aperti al suo significato, per comprendere la parola di Dio come tale bisogna essere integralmente aperti al suo messaggio. Ma con questo siamo ai problemi ermeneutici che la parola di Dio comporta specificamente.

    Coscienza ermeneutica e parola di Dio

    Se ogni testo ha una sua oggettività, che è l'intenzione dell'autore, qual è l'oggettività della bibbia in quanto parola di Dio? In una concezione destoricizzata, considerare la bibbia parola di Dio equivale a conferire a ognuna delle sue parole, a ognuna delle sue affermazioni, tutto il peso dell'autorità divina, indipendentemente dal suo contenuto, ogni proposizione biblica è vera, infallibilmente vera, perché garantita dalla veracità di Dio, che non può ingannarsi né vuole ingannare. Ma una volta che la parola biblica è letta e compresa dentro il gran mare della vita degli uomini, espressione della loro storia e dunque anche dei loro errori, non si può cercare in una legittimazione sacra di ogni frase il suo carattere di parola di Dio; questo va invece cercato sul piano del contenuto: di un contenuto di cui soltanto Dio possa farsi portatore, e di cui egli effettivamente si faccia portatore attraverso l'intrico di esperienze e parole umane. Questo contenuto è la salvezza dell'uomo.
    Per il momento non ci interessa determinare con più precisione che cosa significhi salvezza dell'uomo ma, piuttosto, che cosa significhi che essa è il contenuto centrale della bibbia in quanto parola di Dio. Che la bibbia sia stata scritta per la salvezza dell'uomo è un'affermazione che non fa problema. Ma questo dice soltanto che essa è il fine, la ragione che, per così dire, ha spinto Dio a ispirarne la scrittura. Affermando che la salvezza dell'uomo è il contenuto della bibbia, noi intendiamo dire qualcosa di più preciso; e cioè che la bibbia non parla d'altro che di questa salvezza; che essa non contiene né insegna direttamente dottrine su Dio e sul mondo, ma parla di Dio e del mondo solo in riferimento all'uomo, solo per parlare dell'uomo e del suo destino, della sua vocazione e della sua realizzazione. Ma proprio questo la qualifica come parola di Dio: soltanto Dio può dire all'uomo chi egli sia, da dove venga, dove vada; soltanto Dio può definire l'uomo, misurarne la realtà, e comunicargli questa misura che è la statura del suo essere. Questa è l'oggettività della parola di Dio.
    Su questo punto si innesta il discorso sulla soggettività dell'interpretazione. Per capire un contenuto ci vuole sempre una sintonia, una congenialità. Ma altro è percepire un contenuto «in sé», altro coglierlo «per me». Nel primo caso la sintonia è un interesse comunque motivato; nel secondo è adesione al testo, è consenso a ciò che esso dice. Si può accostare la bibbia con simpatia, come un grande documento culturale, leggendovi ciò che essa dice sull'uomo come un'ipotesi interessante e istruttiva, da ascoltare con rispetto e da confrontare con altre. E la si può accostare come parola di Dio, sentendo rivolta a sé quella definizione d'uomo, quella proposta d'esistenza che essa avanza, avvertendola come parola che ha la forza perentoria di un imperativo assoluto, di un'interpellazione incondizionata.
    Leggere la bibbia con fede è, insieme, leggerla come parola di Dio e come parola assolutamente valida sull'uomo. Ma come si accende questa fede, come si arriva a percepire nella bibbia la parola di Dio e, di conseguenza, ad accogliere da essa la parola decisiva sull'uomo? Le strade effettive sono molte, e appartengono alla biografia individuale. Ma c'è un cammino di diritto che passa dentro tutte le strade di fatto, che le qualifica - aldilà delle modalità individuali - come itinerari di fede, come accesso alla fede biblica. Fede autentica nella bibbia come parola di Dio è quella che ultimamente nasce non da circostanze esterne, come l'ambiente di provenienza o di appartenenza, né da un'idea di Dio già posseduta e poi applicata alla bibbia, ma dall'esperienza stessa della verità della bibbia, dalla percezione del suo valore intrinseco, dell'evidenza esistenziale del suo messaggio, dalla forza di convinzione della sua parola. E' come nella conoscenza di una persona: una cosa è rifarsi a una presentazione, a una raccomandazione, o comunque a un sistema di coordinate conoscitive e valutative correnti, altra cosa è scoprire direttamente il suo valore perché questo si impone con la stessa sua evidenza e irradiazione.
    Eppure, per quanto nuovo e creativo sia l'incontro con una persona, per quanto esso possa relativizzare tutti i modelli precedenti e determinare come un nuovo orizzonte, non sarebbe possibile se tra i due non esistesse alcun legame previo, alcuna affinità, se la situazione anteriore alla conoscenza fosse di radicale e totale indifferenza. Tutto ciò che, nella scoperta di un'amicizia, mi promuove e mi arricchisce, risponde a un'attesa che già covava in me, a un bisogno latente, a una ricerca che forse s'ignorava ma che non per questo è meno vera.
    Lo stesso vale per la parola di Dio. La possibilità di riconoscervi la parola di salvezza per l'uomo è legata al bisogno di salvezza che abita in ogni uomo.
    Come ama dire Bultmann, uno dei maestri dell'esegesi e della teologia del '900, la comprensione della bibbia esige nell'uomo una connaturata precomprensione; anzi, l'uomo stesso è questa precomprensione, perché l'uomo stesso è bisogno di salvezza, e dunque - lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia - è ricerca di Dio. Il bisogno di salvezza è cammino verso la fede per chi ancora non crede, ed è cammino dentro la fede per chi ne ha varcato la soglia; è disposizione a capire la bibbia per chi vi si accosta, ed è luce di interpretazione per chi la frequenta. Quella vita dentro cui la bibbia è nata, dentro cui è stata rivissuta, dentro cui va ricollocata per essere capita, non è altro che il bisogno di salvezza nella pluralità delle sue sfaccettature, nella complessità delle sue manifestazioni, nella polivalenza del suo dispiegarsi. Perché, se unico è il bisogno di salvezza, diverse sono le sue espressioni, secondo una gamma di diversità in cui entrano dalle grandi componenti storiche e sociali fino alle minime striature individuali.
    Questo spiega la diversità delle «letture» della bibbia lungo i secoli, già all'interno della tradizione biblica stessa e poi nella tradizione delle chiese cristiane (ma lo stesso si potrebbe dire delle comunità giudaiche). E questo spiega perché, negli ultimi decenni, l'esplosione della coscienza ermeneutica abbia significato un rapido moltiplicarsi di differenti e nuove letture; la consapevolezza che ogni comprensione è modellata da una precomprensione ha portato alla accentuazione di precomprensioni diverse, cioè di modi differenti di intendere il bisogno di salvezza o di sottolinearne questo o quell'aspetto. Si sono venute così delineando una lettura esistenziale, una lettura non-religiosa, una lettura politica (a sua volta interiormente diversificata), una lettura «negra», una lettura materialista; e, più recentemente, interpretazioni della bibbia comandate da un'ottica ecologica o femminista o altre.
    C'è qualcosa che, pur nella loro differenziazione, quasi tutte le accomuna, ed è il loro accento sul carattere presente della salvezza, sulla sua terrestrità; anzi, sul suo carattere oggettivo, esterno, sociale e cosmico. Ma nel frattempo riprendono quota letture spiritualiste, che della salvezza accettano la presenzialità ma ne rivendicano l'essenza di interiorità: all'interno dell'individuo e all'interno della comunità in preghiera. E gode di rinnovato prestigio la lettura apocalittica della bibbia, che vede la salvezza trasferita oltre la storia, nell'intervento definitivo di Dio che trasfigurerà ogni cosa.
    Ognuna di queste letture ha una sua legittimità, in quanto coglie e valorizza un aspetto effettivamente presente nella bibbia. Ma noi crediamo che vi sia un luogo centrale e originario da cui leggere la parola di Dio e su cui interrogarla: e chiamiamo questo luogo vita quotidiana.
    La ragione di questa preferenza data alla vita quotidiana è che essa costituisce il luogo di ricerca del senso, e che la parola di Dio è la fonte del conferimento di senso. Perciò tra vita quotidiana e parola di Dio esiste un rapporto originario come tra attesa e risposta, tra ricerca e scoperta. Ma per cogliere con pertinenza questo rapporto bisogna prima mettere a fuoco i due concetti che si sono appena affacciati: quello di senso e quello di vita quotidiana.

    Il senso: i livelli significanti di un termine

    Per fare chiarezza attorno a questo concetto e comprendere il vero nucleo del problema, occorre anzitutto definirne la base fenomenologica, che è l'ordine dell'azione.
    Senso equivale a fine, obiettivo, scopo: esso è il fine immanente a un'azione, quello che la fa nascere facendone scattare il dinamismo e l'intenzionalità, e l'alimenta nel suo stesso corso.
    Ogni azione ha sempre un suo senso immanente, diversamente non esisterebbe. La vera soglia dell'umano è questo orizzonte di senso che fa sì che l'uomo sia un essere agente intenzionale, e non un essere che si muove in base a movimenti puramente fisici o a degli istinti.
    Il problema del senso (non dei sensi parziali ma del senso globale) si pone quando ci si interroga se lo stesso rapporto che c'è tra una singola azione e il suo obiettivo o senso, si verifichi tra l'esistenza umana e un qualcosa che sia il suo fine, un qualcosa in ordine a cui l'esistenza stessa è sbocciata.
    Parlare di «senso dell'esistenza» equivale a estendere il rapporto azione-fine a quella totalità che è la vita di un uomo. In altre parole: si dà un obiettivo e quindi una ragione d'essere dell'esistere dell'uomo?
    Posto in questi termini, il problema del senso è un altro modo di porre il problema della trascendenza: non necessariamente della trascendenza di un Dio personale, ma di un mondo che si dà come ordine, come razionalità, prima dell'intervento dell'uomo. Chiedersi se l'uomo abbia senso vuol dire chiedersi se si possa riprodurre nei suoi confronti quello di cui lui di solito è produttore. In altre parole: c'è qualcuno da cui o qualcosa dentro cui lo stesso produttore di senso è stato prodotto?
    E questo è certamente un problema religioso; ma è anche fondamentalmente il vero problema ontologico: se si definisce l'essere non solo come il darsi di cose brute, ma il darsi di una razionalità fondamentale non prodotta dall'uomo; e l'uomo non come colui che dota di senso quello che fa, ma come colui che nel suo esistere ha un fine in cui riconoscersi sensato.
    Non tutti credono all'esistenza di questo «progetto sensato». L'esistenzialismo ateo afferma che non esiste questo progetto ordinata, ma che l'uomo si trova gettato nel mondo, una pura contingenza o fattualità in mezzo alle altre, ma, a differenza delle altre, una fattualità promotrice di senso. Oggi questa visione di "disincanto" è molto diffusa: da esclusiva di una élite intellettuale è diventata fenomeno di massa, punto d'avvio di quel processo storico e culturale che viene chiamato secolarizzazione.
    Ma torniamo alla nostra analisi del concetto di senso.
    Restiamo sempre a livello di senso globale e non di senso delle singole azioni, da cui siamo partiti. Vi è allora un senso soggettivo quando uno cerca o dà un senso alla sua vita, qualunque esso sia. E' qualcosa che la persona vive come fine che totalizza la sua esistenza, un fine ultimo attorno a cui organizza tutto il suo esistere: può essere il lavoro, l'arte, il guadagno..., o anche il senso autentico.
    Il senso oggettivo è quello che viene riconosciuto in una società come ragione valida per esistere. L'analisi antropologica rivela che una cultura è il sistema in cui si organizzano le dimensioni di senso riconosciute nella società e come tali interiorizzate: il senso oggettivo è il senso oggettivato entro un determinato sistema culturale e sociale. Vi è poi, a ben vedere, un altro livello, che si potrebbe chiamare certamente trans-soggettivo, ma anche trans-oggettivo, perché si muove non al livello delle oggettivazioni sociali, ma a livello ontologico. E' la dimensione, come si diceva prima, in cui si determina se esiste o non esiste il senso.
    Questi tre livelli non si escludono, però si distinguono. Possono anche identificarsi, ma non mai totalmente. Il senso oggettivo non si può mai identificare tout court col senso trans-oggettivo, ontologico; così come il senso soggettivamente vissuto non è mai una semplice trasposizione a livello di individuo del senso oggettivo. All'ultimo livello di senso (trans-oggettivo), io identifico senso e fondamento.
    Fondamento è un termine metaforico che dice ciò che sta sotto un edificio e lo regge; senso invece non è un concetto metaforico, perché è la trasposizione analogica di un fondamentale concetto antropologico. Il fondamento è il senso trans-oggettivo, quella superiore razionalità dentro cui l'uomo e il mondo sono collocati. Il senso oggettivo è invece l'oggettivazione sociale del fondamento, è il fondamento che si dà figure: quelle figure che sono le culture, l'ethos, le istituzioni.
    Ma, anche se si cala dentro configurazioni sociali, il senso trans-oggettivo mantiene tutta la sua trascendenza. E questa trascendenza ha il suo luogo rivelativo ed espressivo nella religione. Quando diciamo che la parola di Dio è conferimento di senso, non facciamo un'affermazione con pretesa di esclusività per la bibbia. Ogni religione - e dunque la religione come tale - rivendica per sé questa dignità e questa missione, in quanto ogni religione partecipa della parola di Dio: di quella Parola che noi riconosciamo detta con maggior pienezza e con caratteri definitivi nella tradizione religiosa ebraico-cristiana.
    Ma prima di giungere ad essa, dobbiamo esaminare il secondo concetto preliminare: quello di "vita quotidiana".

    La vita quotidiana: ricerca del senso

    Molte sono le definizioni di vita quotidiana, e spesso comandate da presupposti ideologici: come chi ne sottolinea il carattere di autenticità, legata all'immediatezza dei rapporti e contrapposta alla massificazione indotta dai grandi numeri; o chi, al contrario, ne rileva la dimensione di routine, cioè di ripetitività e di anonimato.
    Noi crediamo che la vita quotidiana non sia, come tale, né autentica né inautentica, né buona né cattiva. Noi diciamo che la vita quotidiana è il luogo della realizzazione del senso; ma non perché lo porti dentro di sé e lo produca in forza di se stessa, non perché sia, come tale, dotata e ricca di senso. La vita quotidiana è collegata al senso perché è dentro di essa che ne sorge la richiesta; è il luogo del senso perché ne è la domanda, la ricerca, la postulazione. Che vi sia una risposta, che si dia una possibilità di trovare il senso, la vita quotidiana non può dirlo da se stessa; ma, se questa risposta c'è, non potrà manifestarsi che nella vita quotidiana; se il senso si dà, non potrà che darsi dentro di essa.
    Che cos'è dunque la vita quotidiana? Credo che la si possa definire come prospettiva e come spazio.
    Come prospettiva. Ogni uomo, vivendo, apre attorno a sé un «mondo». Noi siamo portati a pensare il mondo come il contenitore universale delle cose, mentre esso è prima di tutto la trama delle relazioni vissute che ogni individuo dischiude attorno a sé; è un mondo (il mio, il tuo, il nostro mondo) prima di essere il mondo. Relazioni vissute significano infatti rapporti dove le cose si presentano all'uomo non in quanto oggetti di conoscenza distaccata e neutrale ma come correlate ai suoi interessi, come risposta ai suoi desideri o minaccia al loro soddisfacimento, come momenti dei suoi progetti (in quanto strumenti della loro realizzazione e in quanto ostacoli ad essa). L'uomo si sveglia al mondo come centro di interessi; il mondo viene incontro all'uomo come risposta, in bene o in male, a questi interessi: come cibo o come rifugio, come luogo di sussistenza e di conquista, di affermazione e di competizione.
    Ma accanto agli interessi settoriali, che trovano risposta in questa o quella risorsa, in questo o quell'aspetto della realtà, si viene configurando un interesse generale, dove l'uomo è coinvolto non in un suo bisogno specifico ma in quanto soggetto nella sua globalità, e dove il mondo è guardato non nell'ottica di un bisogno e interesse particolare ma come corrispettivo di questo soggetto globale. Ci si chiede, insomma, non solo se questa o quella cosa è buona, integrabile in un dato progetto umano, ma se la realtà come tale è buona; se l'uomo trova in essa una casa, un abitazione fatta per lui prima ancora che egli potesse pensarci, o se invece egli si trova gettato in un mondo fondamentalmente estraneo, indifferente, così che non gli resti altro che fare di necessità virtù: addomesticarlo, adattarlo a sé e adattarsi ad esso alla bell'e meglio. E' questa la domanda sul senso. Domanda che, prima di essere teorica, ha la figura e la passione di un bisogno; non dunque interrogativo se vi sia un senso, ma sua attesa; non problematica speculativa ma ricerca esistenziale.
    Affermando che la vita quotidiana è il luogo di ricerca del senso, si intende dire che il senso è legato al soggetto e alla sua esperienza; che non può quindi essere realizzato come si realizza un prodotto, non può essere attuato con procedimenti «in serie», come quelli con cui operano scienza e tecnologia, né con analisi e interventi generali, come quelli che appartengono al diritto e alla politica. Non che scienza e tecnologia, diritto o politica, non abbiano peso nella realizzazione del senso; ma possono esserne soltanto gli strumenti, non la fonte: questa può aver sede solo in un principio che sia capace di raggiungere il soggetto nel suo fondamentale rapporto con la realtà. Da questo punto di vista, vita quotidiana non è altra cosa dalla scienza, dalla tecnologia, dal diritto e dalla politica; è la prospettiva di senso che collega tutte queste attività al mondo del soggetto, è l'anima che le umanizza, l'humus che le feconda, il riferimento che le orienta.
    Ma la vita quotidiana è anche uno spazio. E' l'insieme dei rapporti del soggetto con uomini e cose che direttamente lo circondano; è la rete di azioni e reazioni, di attività e recettività, in cui ogni individuo si trova più immediatamente immerso, di cui riceve l'influsso e su cui può a sua volta esercitarlo in forma diretta. In questa seconda accezione, la vita quotidiana è distinta dalla scienza, dalla politica, ecc.; e può avere con esse rapporti più o meno positivi, di collaborazione o di conflitto, di conciliazione o di tensione.
    Ciò che collega tra di loro le due accezioni di vita quotidiana - come prospettiva e come spazio - è sempre l'idea del soggetto umano come centro di relazioni vissute e quindi di ricerca del senso. In quanto ogni uomo è centro attivo, apertura di un mondo, fonte della ricerca di senso, la vita quotidiana è prospettiva, è orientamento, è principio animatore di ogni umana impresa. Ma ogni uomo è anche parte del mondo, corpo tra altri corpi, oggetto di attività altrui; così che la sua prospettiva, per quanto virtualmente infinita e onnicomprensiva, è di fatto delimitata nella sua efficacia, è circoscritta nella sua azione, e descrive perciò attorno a sé un'area definita di irradiazione e di influsso. E' questa la vita quotidiana come spazio

    Il circolo ermeneutico tra parola di Dio e vita quotidiana

    A questo punto non è difficile capire quale relazione di affinità elettiva leghi tra di loro parola di Dio e vita quotidiana. La parola di Dio, avendo come contenuto centrale e qualificante la salvezza dell'uomo, può far breccia soltanto lì dove si manifesti il bisogno di salvezza, lì dove l'uomo sia alla ricerca di un bene che non riguardi questo o quel suo bisogno settoriale ma la totalità del soggetto umano. Ora, questo bene - o salvezza - non è che un altro nome di ciò che abbiamo chiamato il senso. Noi non sappiamo in che consista la salvezza; possiamo soltanto dire che essa è - e non può che essere - la risposta piena al bisogno di senso che inabita la vita dell'uomo. Dunque, se la parola di Dio annuncia all'uomo la salvezza, il luogo dove accoglierla può essere soltanto lì dove quel bisogno di senso si manifesta: può essere soltanto la vita quotidiana.
    Tra vita quotidiana e parola di Dio si stabilisce così un «circolo ermeneutico»: la vita quotidiana ci dona l'ottica in cui leggere la parola di Dio, l'angolo di precomprensione che ci permette di capirne il messaggio; la parola di Dio ci dona l'indicazione lungo cui sviluppare la vita quotidiana perché essa approdi al senso e si muova dentro la sua geografia. Questo riguarda la vita quotidiana come prospettiva.
    Ma anche la vita quotidiana come spazio è coinvolta nel circolo ermeneutico con la parola di Dio, poiché è in questo spazio che la prospettiva di senso originariamente si esercita. Intendiamoci: noi non possiamo sapere in anticipo che e come la vita quotidiana sia il luogo della salvezza; se così fosse, la lettura della bibbia sarebbe superflua. Noi portiamo la vita quotidiana - nelle due accezioni dette - nell'area di significato che il testo biblico disegna, per vedere se e che cosa esso intenda comunicarci.

     


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