Armido Rizzi, PAROLA DI DIO E VITA QUOTIDIANA, Elledici
Uno dei termini magici degli studi biblici di questo secolo è «Sitz im Leben»: un'espressione tedesca che significa esattamente «collocazione nella vita», «ambientazione vitale». In essa si esprime la coscienza che il testo biblico, come e forse più di ogni altro testo, può essere capito soltanto se risituato dentro un contesto non soltanto letterario ma più ampiamente storico, cioè culturale e ideologico, ma anche psicologico e sociale, politico ed economico. E' difficile esagerare il carattere innovativo di questa scoperta. Essa rendeva possibile non soltanto una diversa e più appropriata interpretazione di questa o quella pagina biblica, ma una rinnovata comprensione del concetto stesso di bibbia.
Che la bibbia fosse a un tempo parola di Dio e parola umana non era mai stato messo in dubbio; come testimoniano le due formule più correnti che la tradizione aveva adottato per formulare il mistero: la compresenza dei due autori - Dio e l'agiografo - e la dottrina dell'ispirazione, che vede lo scrittore umano mosso e guidato dallo Spirito di Dio. Ma affermare con certezza che parola di Dio e parola dell'uomo sono due dimensioni ugualmente presenti nella bibbia è cosa diversa dal capire in che modo esse sono presenti e convivono e coagiscono. Il modo tradizionale di comprensione rischiava di assorbire il polo umano nel polo divino; non solo e non tanto in forza dell'accento posto su quest'ultimo, quanto per il modo improprio di intendere il primo. Ciò che soprattutto contrassegnava questo modo di intendere era il carattere disincarnato, senza radici storiche, senza spessore di umanità, che la scrittura biblica vi presentava. Era come se, invece che uomini, gli autori biblici fossero angeli; come se, invece che ebraica e greca, la loro lingua fosse un esperanto etereo; come se, invece di pulsare in quelle pagine sangue umano, vi scorresse un magico nettare celeste. Certo, si sapeva - o si credeva di sapere - dove e quando quei libri erano stati composti; ma erano un dove e un quando asettici, che non mordevano sulla loro carne di scritti, che anzi ne ribadivano la sostanza sovrumana attraverso l'attribuzione a personaggi superiori e quasi mitici (Mosè, Davide, Salomone...).
Ricollocare la bibbia nel suo contesto vitale significa prendere sul serio la sua umanità (al punto da rendere paradossale, davvero misteriosa, la sua origine divina); significa cercare in ogni pagina l'impasto di esperienze, l'intrico di relazioni, il peso di interessi che ne hanno suggerito e accompagnato la composizione, e che non possono perciò non avervi lasciato traccia. A volte si dice che la bibbia non è nata a tavolino; affermazione vera, purché si aggiunga che essa non è nata neppure nella cella di un monaco o sotto le volte di una cattedrale. O forse è più vero dire che essa è nata in tanti luoghi; libro al plurale («bibbia» vuol dire appunto, in greco, «i libri»), la bibbia ha una genesi pluralista: vi sono pagine scritte in aperta campagna, altre nel buio di un carcere; alcune tradiscono una scottante situazione politica, altre una tensione comunitaria; alcune fervono di passione per la giustizia, altre riflettono una dolce luce di calma contemplativa.
Vogliamo sviluppare brevemente due esempi: uno dall'Antico Testamento e uno dal Nuovo. E non sono esempi scelti apposta tra i più facilmente adattabili a dimostrare la tesi; sono anzi tra quelli che, per una ragione o per un'altra, dovrebbero opporre più resistenza a una precisa ambientazione storica.
Gen 1: il poema della creazione
Per l'Antico Testamento ci rifacciamo al grande racconto della creazione, che inaugura l'intera bibbia secondo la disposizione consacrata dalla tradizione sia giudaica che cristiana. Pochi testi sembrano così esenti da condizionamenti storici, così puri nella loro enunciazione teologica; pochi testi hanno avuto lo stesso peso dottrinale di questo, quasi una definizione dogmatica formulata sub luce aeternitatis; come se l'autore avesse colto Dio nell'atto di creare il mondo, e da quell'origine assoluta avesse detto parole anteriori a ogni tempo, non ancora sfiorate dall'ombra della contingenza e della relatività.
Ma sappiamo che le cose stanno diversamente. Questo racconto è l'inizio di una storia che i critici chiamano sacerdotale (per indicarne l'ambiente di provenienza). Essa abbraccia diversi episodi poi ripresi e sistemati, insieme con altri di differente provenienza, all'interno dell'attuale «storia delle origini» (Gen 1-11). Il racconto della creazione, come tutta la narrazione sacerdotale, risponde a una situazione storica ben determinata della vita d'Israele, a quella che è la rottura e la svolta decisiva nel decorso di questa vita. Ascoltiamo uno dei maestri della ricerca veterotestamentaria: «Dopo la caduta di Gerusalemme nel 586, la massa ri!evante dei prigionieri giudei trasferiti a Babilonia si trovò di fronte a problemi religiosi completamente nuovi. Non si trattava più di regolare la vita e le vertenze degli individui nella terra di Canaan, oppure di far funzionare le istituzioni nazionali o monarchiche, per poter mantenere in Israele la religione di Jahvé, stabilita da Mosè. Bisognava organizzare in terra straniera la vita dell'antica comunità, ora dispersa tra le nazioni, soggetta a un monarca universale ma pagano, esposta alle seduzioni di culti prestigiosi. Uno stesso sangue, le medesime tradizioni, un clero autentico: queste erano le uniche basi che potevano assicurare la perennità della vita religiosa in Israele esule, che non era più uno stato e non era ancora una chiesa. Si può ritenere che allora venne redatta... la storia sacerdotale. Questo compendio dà alle istituzioni di Israele un valore universale, inserendole in un quadro storico generale, guidato da una teologia della presenza divina e delle sue esigenze. Lo stile sarà dunque conciso, il vocabolario preciso e tecnico come quello di un catechismo; le narrazioni saranno soprattutto illustrazioni della dottrina spirituale; le cifre permetteranno di ambientare il pensiero. Infine, sullo sfondo, la fede nella legge di Jahvé e la speranza del ritorno nella terra santa» (Cazelles).
Per quanto riguarda più in particolare il poema di creazione in Gen 1, bisogna tener presente il carattere polemico che esso intende assumere nei confronti dell'analogo e anteriore poema babilonese (dal titolo Enuma elish), se si vuole coglierne tutta la ricchezza di pensiero. Polemica condotta in maniera intelligente, che non demonizza l'avversario ma si confronta seriamente con lui, ne assimila le prospettive accettabili, ne corregge le lacune, ne integra le insufficienze.
Gen 1 accoglie del poema babilonese soprattutto un punto: il rapporto tra alleanza e creazione, cioè tra particolarità e universalità. Nell'Enuma elish il signore di Babilonia, il dio Marduk, diventa il Dio cosmico, il cui potere si estende a tutto il creato; in questo modo le istituzioni babilonesi trovano nella dottrina della creazione il loro fondamento ultimo. Così è anche per Israele: soltanto attraverso una maturazione dell'esperienza religiosa e della riflessione teologica il popolo eletto arriva alla fede nella creazione, quale si esprime nella pagina della Genesi; in tal modo gli articoli della Legge, statuto civico e religioso di Israele, vengono fondati sulla stessa Parola creatrice (simbolo di tutti è il riposo sabbatico, che in Gen 2,1-3 viene collegato all'evento creatore).
Ma su questa base comune si staccano le differenze. Ne rileviamo due. Anzitutto, alla teogonia (nascita degli dèi) dell'Enuma elish Gen 1 oppone la trascendenza di Jahvé. Mentre Marduk è figlio di quel Caos originario che egli pure abbatte e plasma nella creazione, il Dio d'Israele non ha origine, non ha alcun rapporto con le acque primordiali che preesistono all'atto creatore; il suo spirito si libra al di sopra di esse (v. 2). Di conseguenza, mentre Marduk deve lottare contro il Caos per superarlo, Jahvé lo domina con la parola. Il che significa: il Dio di Babilonia è una forza della natura, è la personificazione del processo necessario (lotta, opposizione, conflitto) attraverso cui la natura continuamente si rigenera; il Dio d'Israele è una realtà personale, che agisce liberamente e pone il mondo altro da sé, docile alla sua parola.
In secondo luogo, l'ordine del mondo contempla già, a Babilonia, la prospettiva di un ritorno ciclico del disordine; la bontà delle cose, nata attraverso un atto di violenza (l'uccisione del Caos), non si sostiene senza ripassare attraverso la violenza. Invece Jahvé crea un mondo sette volte buono, cioè perfetto; il male non è l'altra faccia - ugualmente necessaria - del bene, ma lo scacco della creazione che sarà introdotto in essa dall'uomo e che Dio combatterà con i suoi interventi di salvezza.
Ecco dunque come nasce una delle pagine più alte e decisive della bibbia. C'è alla base un'esperienza religiosa: Jahvé, Dio d'Israele, è signore di tutti i popoli; e anche degli eventi naturali; egli può disporre di tutto, egli guida il cammino della storia. E c'è, inoltre, una speranza: che questo signore onnipotente intervenga in favore di Israele e lo riporti in quella terra che egli gli aveva donato. Ma esperienza e speranza maturano in riflessione teologica soltanto passando attraverso problematiche già pensate, attraverso concetti già elaborati. Sono le problematiche e i concetti di cui è ricco il poema babilonese: il rapporto con la natura, il problema del male, il valore delle istituzioni, ecc. Filtrata attraverso questi interrogativi e queste categorie, l'esperienza religiosa di Israele si dà un linguaggio più adulto; il che non vuol dire che Israele faccia sue le soluzioni di Babilonia. Le contesta, le confuta, le supera; ma si può contestare una risposta soltanto parlando lo stesso linguaggio, muovendosi dentro lo stesso problema. La fede in Jahvé può reggere all'urto della religione babilonese (che è, per gli ebrei esiliati, la religione vincente) soltanto misurandosi con essa, accettando di giocare sul suo terreno.
Ecco la «vita» di Gen 1: una preoccupazione per la fede messa alla prova, un confronto con la cultura egemone, una volontà di rifondare le convinzioni portanti su una base più solida e più ampia. Tutt'altro che una tesi teologica atemporale: un pane per sopravvivere, un'arma per combattere.
Ancor più facile sarebbe mostrare la radicazione concreta di testi come le parole profetiche, così legate alle sorti storiche della collettività, o come le meditazioni sapienziali, così pensose, invece, dei destini dell'individuo: per non dire dei documenti storico-teologici, dove la narrazione del passato d'Israele è così fortemente segnata dalle preoccupazioni del presente. Ma l'esempio del poema di creazione dovrebbe bastare a testimoniare la radicazione della parola biblica nel terreno differenziato della storia umana, con i suoi succhi e le sue asprezze, la sua disponibilità e le sue riluttanze.
Il caso dei vangeli
La concezione dei vangeli come biografia di Gesù, che ogni evangelista avrebbe scritto raccogliendo ricordi della sua vita con scrupolosa oggettività ed esponendoli con materiale esattezza, non risponde a verità. La scrittura dei vangeli è così fortemente marcata dagli interessi delle comunità cristiane primitive, che qualcuno ha potuto dire - certamente esagerando, ma non senza qualche ragione - che attraverso di essi noi veniamo a conoscere non la vita di Gesù ma la vita delle stesse comunità. Per situare la lettura dei vangeli nella giusta luce è necessario ricostruirne la genesi, vedere come essi siano nati da un travaglio esistenziale durato qualche decennio. Questa genesi si dispiega in tre tappe, che vogliamo brevemente ripercorrere.
Tutto inizia con la comunità dei discepoli raccolti attorno a Gesù. Era costume dei discepoli di rabbini raccogliere le parole del maestro mandandole a memoria; tanto più che, in una civiltà in cui la scrittura non era ancora una pratica diffusa, la memoria si sviluppava più intensamente, aiutata anche da tecniche di memorizzazione come la ripetizione, il contrasto, il richiamo. Nei vangeli ritroviamo di questi passi, in cui sembra risuonare, attraverso una testimonianza auricolare diretta, la viva voce di Gesù: «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto» (Mt 7,7s.). «Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande» (Mt 7,24-27). E certamente anche diversi particolari narrativi riflettono, attraverso lo sguardo attento del discepolo che li ha fissati, questo o quell'episodio della vita pubblica di Gesù.
Ma, se ci fermiamo a questo stadio, potremo raggranellare ben poco: qualche detto sparso di Gesù e qualche aneddoto. I vangeli sono altra cosa; e la memoria immediata dei discepoli lungo le strade di Palestina non ne è che la preistoria.
Il vero lavoro di gestazione comincia nella seconda tappa: la tradizione delle parole e degli atti di Gesù avviata dopo la sua risurrezione. Superato lo smarrimento della sua morte e il positivo sconvolgimento dell'incontro con lui risorto, i discepoli che riconobbero in Gesù il Cristo, il Signore della loro esistenza e della storia umana, non potevano non chiedersi: come tradurre in atto la nostra fede in lui? Come farne concretamente il principio della nostra vita di ogni giorno? E la risposta venne cercata nel rifarsi alla vita di Gesù, nel ricuperare come principio orientatore ciò che egli aveva detto e come si era comportato nelle diverse circostanze.
Erano dunque due i punti di questo lavoro di memoria postuma, di raccordo, di confronto: da una parte la vita di Gesù, a cui si chiedevano le risposte; dall'altra la vita della comunità, da cui venivano le domande. E due sono infatti le modalità - opposte e integrantisi - che hanno presieduto alla raccolta delle parole e delle azioni di Gesù: fedeltà e libertà; volontà di distinguere le idee proprie, opinabili, da quelle del Maestro, indiscutibili; ma d'altra parte, libertà nel reinterpretare e nel riformulare quelle idee. Basti pensare che di parole importanti come quella dell'istituzione eucaristica abbiamo nel Nuovo Testamento quattro diverse versioni; così come ne abbiamo due delle beatitudini, due del «Padre Nostro», ecc.
Ora, il principio operativo di questi cambiamenti, di questi adattamenti di discorsi pronunciati da Gesù o di gesti da lui compiuti, è l'esigenza vitale della comunità. Esigenza variegata e mutevole: a volte si tratta di fronteggiare le polemiche dei giudei (sull'inosservanza del sabato o delle purificazioni rituali), altre volte bisogna riformulare l'imperativo etico su questo o quel punto (è lecito divorziare? come trattare le ricchezze? bisogna o no pagare le tasse ai romani?...) o creare un ordinamento comunitario (avere dei capi? con quali funzioni?) o fissare una prassi liturgica (come celebrare la Cena del Signore?); o ancora, distinguere tra i punti essenziali di fede, da predicare nell'annuncio missionario rivolto agli esterni, e punti più sviluppati, di approfondimento, da riservare alla catechesi per coloro che già credono e fanno parte della comunità.
Di fronte a questi frangenti e a questi compiti, i discepoli cercarono di ricordare in che modo Gesù si era comportato in circostanze analoghe o che cosa aveva insegnato al riguardo; cucirono insieme parole da lui pronunciate in tempi e luoghi diversi ma aventi un'unità tematica; collegarono episodi tra loro lontani cronologicamente e geograficamente ma vicini quanto al significato che essi vi trovavano.
Si vennero così formando blocchi narrativi diversi, rispondenti alle differenti preoccupazioni delle comunità che li componevano. Una linea comune venne però emergendo: il cristallizzarsi del racconto attorno a due centri: l'attività di Gesù in Galilea e il suo viaggio attraverso la Giudea verso Gerusalemme (che si conclude con la passione e la morte). Il primo centro sembra comandato dall'idea della prassi messianica di Gesù: miracoli in favore dei poveri e annuncio della buona novella; il secondo trova il suo perno nell'immagine profetica del «Servo di Jahvé» sofferente. La seconda tappa della formazione del vangelo si conclude con questa struttura narrativa unitaria.
Eppure noi non abbiamo un vangelo; ne abbiamo quattro. Ecco la terza tappa: la «redazione» del singolo vangelo. Se la seconda è stata ampiamente corale, questa è individuale: siamo in presenza di quattro autori - Marco, Matteo, Luca, Giovanni - ognuno dei quali scrive il suo vangelo. Che cosa significa? Significa che ognuno degli evangelisti, pur trovandosi di fronte a una narrazione ben organizzata della vita di Gesù, la vede in una prospettiva specifica, orchestra parole e atti di Gesù secondo una «regìa» particolare che risponde - ancora una volta - alle esigenze della comunità per cui scrive. Non è un caso, per esempio, che Matteo, e lui solo, riporti cinque lunghi discorsi di Gesù: è che il suo interesse per la concezione e la disciplina della chiesa lo porta a evidenziare di Gesù l'aspetto magisteriale, a vedere in lui nell'oggi della vita cristiana il Signore che ammaestra la comunità dei credenti come un tempo il Rabbi itinerante ammaestrava i discepoli che lo seguivano.
I nostri vangeli non sono il resoconto della vita di Gesù; sono i dati di questa vita filtrati attraverso l'intelligenza e la militanza di fede delle comunità che in lui credono e dei teologi che per esse scrivono, e diventate così per queste comunità parole di vita.
In conclusione: si tratti dell'Antico o del Nuovo Testamento, la bibbia non è parola di Dio rivestita di parole umane, ma parola di Dio che, affondata come un seme nel campo della vita degli uomini, nasce in forma di parole umane.