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    un quadro condiviso

    di animazione

    Mario Pollo


    Esiste una grande varietà di esperienze di animazione e ne segue la difficoltà, o forse addirittura l’impossibilità, della loro riducibilità ad un modello unico.
    Questo perché il territorio in cui affonda le sue radici il significato della parola animazione sembra avere vissuto numerose invasioni di orde, alcune di passaggio mentre altre si sono insediate in esso.
    Ognuna di queste orde ha portato in questo luogo lingue e culture diverse, che sino ad oggi non sembrano aver trovato la via per fondersi in una sintesi creativa e innovativa.
    Questo significa che la parola animazione continua a vestirsi di una pluralità di significati, spesso reciprocamente irriducibili quando non addirittura antagonisti.
    La conseguenza di questo è una pratica sociale dell’animazione frammentata, composita e difficilmente leggibile come unitaria.
    Si ha quasi l’impressione che un demone dispettoso abbia introdotto la confusione delle lingue tra coloro che in qualche modo, diretto o indiretto, si occupano di animazione, al fine di impedire la costruzione di quell’edificio che, senza pretendere di condurre al cielo, consenta di definire lo specifico professionale della pratica sociale definita di animazione. Questa riflessione vuole essere una sfida al demone della confusione delle lingue, perché cerca di individuare una lingua che possa essere riconosciuta da coloro che operano nel territorio dell’animazione come la lingua madre in cui affondano le radici le principali lingue dell’animazione odierna.
    Tutto questo però con la consapevolezza che non è necessario che l’animazione abbia un modello unico. Infatti se dall’ambito dell’animazione si passa a quelli della pedagogia, della psicologia o di qualsiasi altra scienza umana, si può osservare che non esiste assolutamente in queste discipline un modello unico, ma che esiste ovunque una pluralità alquanto vasta di modelli.
    La ricerca della lingua madre non nasce, quindi, dalla voglia di avere un modello unico, ma da altre due distinte necessità.
    La prima è quella di giungere in tempi non storici ad una definizione, almeno parzialmente condivisa, della figura professionale dell’animatore.
    La seconda è invece quella di individuare con più chiarezza lo statuto epistemologico dell’animazione.
    Questo appare indispensabile al fine del rilancio e dell’incremento della capacità progettuale di chi opera, a livello pratico e/o teorico, nel dominio dell’animazione.

    LA STORIA DELL’ANIMAZIONE IN ITALIA

    In Italia non può esserci una sola storia dell’animazione per la ragione prima detta della presenza di una pluralità di lingue e di culture che fondano i molti modelli attraverso cui l’animazione si esprime nella vita sociale.
    Infatti a voler essere prudenti e un po’ avari, occorre riconoscere che sono almeno sei i modelli base di animazione presenti ed attivi nel nostro paese, più naturalmente le ibridazioni tra di essi.

    I modelli dell’animazione in Italia

    Il primo modello, forse quello più noto negli anni delle origini del movimento dell’animazione, è quello legato all’animazione teatrale, o di tipo espressivo in generale, che conta al proprio interno figure storiche tra cui Rodari, Passatore e Scabia.
    Questo tipo di animazione, nato sotto il segno della liberazione della espressività e della fantasia attraverso la festa e il gioco, è andato progressivamente estendendosi ai problemi della vita quotidiana e del territorio. Si può perciò affermare che l’animazione teatrale e/o espressiva è passata, perlomeno a livello di intenzioni, da un teatro che libera dalle paure e dalle inibizioni ad un teatro che serve alla vita di ogni giorno.
    In questo passaggio l’animazione teatrale è andata evolvendo verso l’animazione socioculturale o, perlomeno, ha favorito lo sviluppo di quest’ultima.
    Il secondo è il modello dell’animazione socioculturale. Esso è stato ben rappresentato dalla rivista «Animazione Sociale», quando aveva sede a Milano, e dal suo fondatore Don Aldo Ellena.
    Questo modello si caratterizza come «una pratica sociale finalizzata alla presa di coscienza e allo sviluppo del potenziale represso, rimosso o latente, di individui, piccoli gruppi e comunità».
    Un elemento specifico di questa scuola di animazione è costituito dal suo collegamento con il volontariato e dal fatto che colloca la sua azione come intervento nel territorio, al fine di favorire i processi di crescita della capacità delle persone e dei gruppi di partecipare e gestire la realtà sociale e politica in cui vivono. È una pratica sociale liberatrice che si avvale, oltre che dell’azione nel territorio, dell’uso dell’azione psicosociale volta a promuovere la capacità espressiva delle persone.
    È questo un movimento ormai consolidato, con alle spalle un consistente retroterra teorico e metodologico, che costituisce uno dei maggiori punti di riferimento per chi voglia fare animazione in Italia.
    Occorre poi segnalare che un ruolo importante nell’animazione socioculturale è giocato da quella pratica sociale che può essere definita come sociocomunitaria. Questo pratica si fonda sulle acquisizioni sia della psicosociologia di comunità, sia del lavoro di sviluppo delle comunità fondato su parametri di tipo sociopolitico. La sua finalità è, da un lato, quella del sostegno alle comunità locali nella riappropriazione della propria soggettualità sociale e politica e, dall’altro lato, lo sviluppo dei processi di partecipazione e di autogestione tra i membri delle stesse comunità locali.
    Normalmente questo modello non è però attivo all’interno delle comunità speciali, dove invece sono presenti tanto il modello educativo quanto quelli teatrale e ludico espressivo.
    Il terzo è quello dell’animazione culturale in senso fortemente educativo e fa capo alla rivista «Note di Pastorale Giovanile» del Centro Salesiano di Pastorale Giovanile, e in particolare a Pollo e Tonelli.
    La caratteristica di questo movimento è quella di avere ripensato l’animazione come un vero e proprio modello educativo valido sia in un contesto scolastico che extrascolastico.
    L’animazione culturale secondo questa accezione è una vera propria teoria educativa, fondata su concezioni filosofico/antropologiche, su un metodo validato e su una strumentazione particolare.
    È questo il movimento più diffuso nell’ambito ecclesiale italiano, anche se la sua presenza non è limitata a questa area sociale. Un motivo di questa diffusione nell’ambito ecclesiale è dovuto allo stretto collegamento che questa concezione ha operato con la più moderna concezione della pastorale giovanile. In questi ultimi anni ha avuto una forte diffusione anche nei paesi di lingua spagnola.
    Comunque questo modello è presente anche all’interno di centri di aggregazione giovanile, di comunità terapeutiche ed educative, di centri sportivi e di istituzioni educative in genere.
    La scelta dell’aggettivo «culturale» deriva dal privilegio riconosciuto alla dimensione della cultura nella costruzione dell’identità individuale e storico-sociale dei soggetti dell’animazione, oltre che del mondo da essi abitato.
    Il quarto, che si deve citare solo per motivi statistici, è quello che raggruppa quelle attività di animazione cresciute all’ombra dei villaggi turistici ma la cui dignità educativa, sociale, espressiva e culturale è tutta da dimostrare.
    Il quinto modello è quello che si limita ad applicare tecniche e metodi di lavoro desunti dagli studi di dinamica di gruppo e della comunicazione interpersonale a varie attività educative. È questa la dimensione più tecnica e diffusa del fare animazione, anche perché tutti gli altri filoni utilizzano abbondantemente queste tecniche all’interno dei loro percorsi formativi. Tuttavia, da solo, questo insieme tecnico e conoscitivo non costituisce una adeguata concezione dell’animazione socioculturale e culturale. Molti animatori, tuttavia, pensano che animare consista solo nell’applicazione di certe tecniche di lavoro psicosociale di gruppo.
    Il sesto modello è costituito dall’animazione di tipo ludico ricreativo versus espressivo. Si tratta di un tipo di animazione che, agendo nella dimensione del tempo libero e dell’attività ludica, tende a fornire ai ragazzi, ai giovani, agli adulti e agli anziani con cui opera, uno spazio per la riappropriazione della propria espressività, per la scoperta o per il recupero della creatività e in cui possano sfuggire all’uso alienato del tempo libero.
    Le storie alla base di questi modelli sono, come già si è detto, assai diverse.
    Infatti mentre per i modelli socioculturale ed educativo si può rintracciare un filo rosso che li lega alla pedagogia attiva, all’educazione degli adulti e in generale ai movimenti per l’emancipazione delle classi sociali più deboli ed oppresse, per quello teatrale invece si possono individuare più fili, dei quali i più importanti sono quelli dello psicodramma moreniano e della tradizione della commedia dell’arte.
    Il modello definito come ludico espressivo ha alle spalle la cosiddetta cultura popolare, ovvero quella tradizione laica e/o religiosa che attraverso saghe e le fiere di paese con i loro corollari di giochi, spettacoli, spazi di aggregazione e di divertimento offriva alle persone un luogo di esercizio della creatività e della libera espressione.
    Infine altri modelli sembrano essere privi di fili più o meno diretti con movimenti ed esperienze del passato, come ad esempio l’animazione turistica.
    Il modello psicosociale ha, infine, i suoi ascendenti in una pluralità di modelli terapeutici di gruppo, essendo caratterizzato da un radicale eclettismo.
    Comunque, al di la degli ascendenti, la maggioranza di questi modelli ha condiviso una storia recente comune che può essere raccolta in tre periodi ben distinti: la nascita, il decollo e la maturità.

    La nascita

    Per quanto riguarda il primo periodo, è ormai accettato da tutti che l’animazione è nata intorno ai temi della creatività, negli anni del decollo nel nostro paese dell’industria culturale e dell’avvento della scuola di massa, come risposta ai problemi conseguenti a questi fenomeni, e cioè alla crisi della scuola tradizionale e a quella prodotta dalla profonda trasformazione dei modelli e dei processi di elaborazione e di trasmissione della cultura sociale.
    In questo periodo l’animazione ha esplorato sia i territori dell’espressività nelle sue varie forme artistiche e sociali, sia quelli della ricerca pedagogica attraverso la sperimentazione di quei modelli che vengono genericamente ascritti alla pedagogia attiva.
    In questa prima fase della storia dell’animazione in Italia, ascrivibile in modo particolare alla seconda parte degli anni sessanta, la scuola appare come uno dei luoghi privilegiati dell’animazione, in quanto in essa convergono molte esperienze innovative che possono essere definite, anche se spesso in modo non ancora esplicito, di animazione.
    È in quegli anni infatti che uomini di teatro e insegnanti avviano alcune sperimentazioni teatrali nella scuola dell’obbligo, mentre in parallelo prende corpo il dibattito sul rinnovamento della scuola che favorisce il diffondersi di attività sperimentali al suo interno.
    A proposito della sperimentazione nella scuola dell’obbligo e al dibattito sul suo rinnovamento, è bene ricordare che la famosa Lettera ad una professoressa» dei ragazzi di Don Milani risale appunto a quel periodo.
    Anche se la scuola in quegli anni è l’ambito in cui forse più diffusamente si fanno esperienze di animazione, è bene però ricordare che nello stesso periodo compaiono le prime esperienze di animazione nei quartieri, e si sviluppano esperienze di valorizzazione della cultura operaia realizzate con un chiaro stile di animazione, i cui ascendenti, come detto, si ritrovano in realizzazioni del movimento operaio, quali ad esempio quelle dell’Umanitaria di Milano.
    Come si può vedere già in questo primo periodo, seppure caratterizzato da quella caoticità tipica dello statu nascenti, appaiono alcune delle differenze che negli anni successivi caratterizzeranno la pratica dell’animazione in Italia.
    Infatti già allora vi è chi utilizza l’animazione in prospettiva didattico-pedagogica, chi predilige l’orientamento teatrale e/o espressivo, chi ne sottolinea le valenze sociopolitiche in contesti quali le fabbriche e i quartieri, e chi infine ne individua il valore terapeutico.

    Il decollo

    Il periodo del decollo è immediatamente successivo al ’68.
    In quegli anni l’animazione sposta la sua attenzione dall’ambito della scuola dell’obbligo a quello del territorio, nella ricerca di nuove risposte ai problemi sociali alternative a quelle proposte dai vecchi modelli politici e culturali.
    Il territorio diviene il luogo privilegiato di varie esperienze, più o meno spontanee, finalizzate a risvegliare la presa di coscienza, la partecipazione politica e la liberazione delle persone dai condizionamenti sociali, culturali ed economici che ne impediscono la realizzazione individuale e collettiva.
    Questo movimento dell’animazione produce un’azione in cui l’animatore attraverso il suo intervento persegue un obiettivo politico o parapolitico.
    Successivamente questo tipo di «tensione» è stato raccolto, parzialmente, dalle attività culturali delle amministrazioni comunali, che hanno avviato progetti di animazione socioculturale rivolte alla scuola dell’obbligo, ai centri sociali di quartiere, alle attività ludiche e sportive, alla gestione delle estati per i ragazzi, per gli adulti e per gli anziani. In questo periodo si afferma il filone socioculturale, accanto a quello teatrale e a quello ludico espressivo, e nasce e cresce a ritmi molto intensi quello culturale.

    La maturità

    L’ultimo periodo, quello attuale, è meno ricco di tensioni politiche ma è assai più consapevole della valenza squisitamente educativa o formativa dell’animazione. In questo periodo quasi tutte le correnti teoriche dell’animazione hanno, infatti, selezionato i loro obiettivi specializzandoli. Nello stesso tempo i movimenti dell’animazione hanno collocato la propria azione all’interno delle agenzie istituzionali di socializzazione, di inculturazione, di educazione e di gestione e controllo della marginalità e della devianza.
    La specializzazione dell’animazione ha comportato poi che essa sia stata assunta, in alcuni casi, non più solo come attività complementare ma come momento centrale dell’attività scolastica. Allo stesso modo alcune attività, che tradizionalmente erano ascritte alla educazione specializzata o professionale, sono state assorbite dall’animazione.
    Per questo motivo la fase attuale è quella che può consentire una maggiore convergenza delle varie scuole di animazione verso un’area disciplinare comune.
    A sostegno del fatto che questo possa essere considerato il periodo della maturità, vi è il fatto che in questi ultimi anni sono nati sia corsi professionali promossi da alcune Regioni, sia delle vere e proprie scuole di animazione promosse da associazioni ed enti.
    Da alcuni anni, poi, sono nate anche associazioni professionali degli animatori che raggruppano cooperative, associazioni e gruppi che operano professionalmente nel campo dell’animazione. Nel frattempo poi alcune regioni hanno inserito la figura dell’animatore negli organici di alcuni servizi di tipo socioassistenziale e sociosanitario.
    Nonostante questo regna ancora la più completa incertezza sul ruolo e sulla funzione dell’animatore e sui percorsi di formazione tipici della sua professionalità.
    Da notare, infine, che la figura dell’animatore compare in un gran numero di attività sociali, sia pubbliche che private, sia professionali che volontarie.

    L’ambito di attività dell’animazione oggi

    L’ambito di attività in cui si esercita oggi l’animazione va, infatti, dalla scuola ai laboratori teatrali ed espressivi, dalle parrocchie ai centri sociali, dalle comunità educanti e terapeutiche alle comunità locali, dallo sport e dalle attività ludiche del tempo libero alla prevenzione e recupero nei confronti di soggetti a rischio o già marginali o devianti, dai servizi pubblici all’associazionismo e al volontariato.
    A questo punto è necessaria una considerazione sul modello di animazione proposto dall’industria del tempo libero e del turismo ricordando, nonostante si definisca come animazione, la sua radicale estraneità rispetto agli altri modelli. Infatti esso è solo un segno dell’azione di manipolazione e di alienazione che questa industria svolge al fine di far consumare i propri prodotti.
    È questa sua caratteristica che produce l’estraneità di questa attività rispetto all’animazione. Infatti se c’è un elemento su cui tutte le attività di animazione, nonostante le profonde differenze, convergono è quello costituito dalla tensione verso la liberazione della persona. Non importa poi se alcuni pensano a questa liberazione in termini politici, altri in termini creativi e psicologici, e altri ancora trascendenti.
    L’importante è la liberazione della persona umana da quei condizionamenti che ne limitano la realizzazione e la capacità di governo della propria esistenza individuale e collettiva.
    L’industria del tempo libero propone, invece, ai suoi utenti l’alienazione del loro ultimo luogo di libertà, il tempo libero appunto, affinché sia assoggettato ai modi e ai ritmi della produzione di questa industria.

    I NODI PROBLEMATICI E LE SFIDE DELL’ANIMAZIONE OGGI

    Tradizionalmente nell’animazione si opera all’interno di un modello che prevede gruppi di appartenenza sufficientemente stabili con una identità abbastanza forte, mentre oggi chi opera nell’animazione si trova di fronte a gruppi dove i ragazzi entrano ed escono continuamente e che hanno, quindi, una composizione e una appartenenza variabili.
    Si tratta di gruppi con i quali è possibile operare solo con interventi a bassa soglia – per usare un termine di moda introdotto nel linguaggio comune dalle politiche e dalle pratiche della «riduzione del danno».
    Politiche che sono nate dalla constatazione dell’impossibilità di affrontare la totalità del fenomeno della tossicodipendenza solo con i percorsi, comunitari o non, di recupero e di ri-socializzazione.
    Per questo motivo si sono individuati gli interventi di bassa soglia che si rivolgono ai giovani che non vogliono o che non ce la fanno ad uscire dalla tossicodipendenza. al fine di ridurre i danni che con alcuni loro comportamenti possono recare a sé e agli altri, sia in termini di salute che di convivenza sociale.
    Ciò vuol dire in altre parole che gli interventi di bassa soglia non mirano a far uscire il giovane dalla dipendenza delle droghe, ma solo a fargli ottenere un maggior livello di salute biopsichica ed evitare per quanto possibile che commetta dei reati. Il tema dei gruppi temporanei a bassa soglia di appartenenza consente di introdurre al fenomeno della «scomparsa dei luoghi».
    Occorre infatti tenere conto che l’impatto dei media elettronici con la complessità ha prodotto nelle società più sviluppate la scomparsa dei luoghi particolari al cui interno si declinava la vita delle persone e, di fatto, la formazione di un luogo unico.
    Oltre a questo, i media elettronici hanno portato alle estreme conseguenze la crisi del tempo noetico sia sul versante della relazione intergenerazionale, sia su quello dell’itinerario evolutivo della formazione della persona umana.

    La scomparsa dei luoghi e la nascita dei nonluoghi

    La parola «luogo» indica quella costruzione concreta e simbolica dello spazio che assolve alla funzione identitaria, a quella relazionale e a quella storica. Esso offre a chi lo abita un principio di senso e a chi lo osserva l’intelligibilità.(1)
    Questo vuol dire che il luogo non è semplicemente uno spazio, ma è uno spazio umanizzato e abitato. Uno spazio che non solo è interpretato ma che fornisce a chi è al suo interno le chiavi di interpretazione e di attribuzione di senso della realtà. E questo avviene perché il luogo inserisce le persone all’interno di una storia, di una memoria e di un progetto di futuro, e perché esso offre le informazioni e le norme che fanno sì che le persone che lo abitano assumano particolari comportamenti e vivano le relazioni primarie e secondarie in un modo affatto particolare.
    La scuola, ad esempio, quando ancora era un luogo, faceva sì che i ragazzi, entrando in essa, assumessero stili, comportamenti e atteggiamenti diversi da quelli che avevano per strada: perché c’era una sorta di sacralità del luogo che li condizionava e che li spingeva nella direzione di quegli stili, comportamenti ed atteggiamenti.
    Oggi molti studiosi affermano che il luogo non esiste più perché i media elettronici, e la televisione in particolare, hanno rotto il legame che univa determinati comportamenti, atteggiamenti e stili di vita a determinati spazi fisici e simbolici. Questo legame era costituito, da un lato, dalle convenzioni situazionali che fissavano per i vari luoghi i comportamenti appropriati e, dall’altro lato, dal fatto che chi stava in un medesimo luogo condivideva delle particolari informazioni e valori che potevano essere conosciute solo all’interno di quel particolare luogo e non altrove.
    La televisione, rompendo questo legame tra collocazione fisica e situazione sociale, ha confuso le identità di gruppo che un tempo erano separate. Questo è avvenuto perché gli individui attraverso il media televisivo hanno potuto sfuggire dal punto di vista informativo ai gruppi ancorati in un luogo definito, e hanno potuto invadere molti luoghi a cui erano estranei senza neppure entrarci.(2)
    L’identità di gruppo, come è noto, si fonda sulla condivisione di sistemi simbolici condivisi ma particolari, e quindi sia la diffusione agli «estranei» dei contenuti del sistema simbolico legato ad un luogo particolare, sia il venire a conoscenza per gli abitanti di un luogo dei sistemi simbolici presenti in altri luoghi hanno di fatto prodotto una omogeneizzazione dei luoghi che è il primo passo verso il luogo unico. Accanto alla omogeneizzazione dei luoghi è in corso poi una rapida e per ora irreversibile espansione dei nonluoghi.
    I nonluoghi sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni, quanto i mezzi di trasporto stessi, o i grandi centri commerciali o i campi profughi in cui sono parcheggiati i rifugiati del pianeta.
    I nonluoghi sono tali perché sono spazi che non forniscono alcuna identità alle persone che li abitano, non li inseriscono in alcuna storia e si limitano, semplicemente, a svolgere una funzione.
    La vita delle persone nelle aree urbane si svolge in una sorta di pendolarismo tra il luogo unico e i nonluoghi.
    Questo significa un ulteriore indebolimento dell’identità personale e storico-culturale degli individui, un loro inserimento in sistemi relazionali anonimi e massificati, in cui i sistemi simbolici non offrono più chiavi significative e particolari di interpretazione della realtà.
    Nel passato il luogo richiedeva, quindi, ai suoi abitanti un certo tipo di comportamento che differiva da luogo a luogo. Questo faceva sì che il luogo diventasse un «contenitore» e che contribuisse perciò alla funzione educativa, che, come è noto, è sempre fondata sulla dialettica molto difficile e precaria tra l’espressione e il contenimento.
    Il luogo di fatto era il contenitore naturale che creava un limite all’espressione del desiderio. Anche il gruppo giovanile era un luogo. Oggi i luoghi non esistono, ed esiste invece la dispersione dei giovani all’interno dello spazio errabondo che non riesce a trovare la risposta alla sua nostalgia del luogo.
    E questo fa sì che i giovani non trovino più a loro disposizione quel contenitore naturale che dava forma e senso al loro desiderio di espressione.
    Non per nulla la pratica di animazione è stata incentrata in questi anni a favorire l’espressione, perché partiva dal presupposto che di luoghi contenenti ce ne fossero sin troppi ma che, al contrario, mancasse una adeguata possibilità di espressione.
    Si diceva, infatti, che la civiltà industriale nei suoi luoghi di produzione, nelle fabbriche e nelle scuole, impedivano alla gente di esprimersi ed era perciò necessario aiutarla a liberare la propria creatività ed espressività.
    L’animazione teatrale, ad esempio, è nata all’interno di questa analisi sociale che affermava l’esistenza di un tipo di società che conteneva fortemente le persone e che impediva loro lo sviluppo della creatività e della libertà espressiva.
    Da questa analisi sono nati, oltre all’animazione teatrale, vari filoni di animazione di carattere espressivo ed artistico.
    Ora, invece, questo contenimento non c’è più perché non solo, come si è visto, si ha un luogo unico, ma perché sono comparsi i «nonluoghi» che non contengono, anche perché al loro interno la persona è secondaria rispetto alla funzione che esso deve assolvere e nei confronti della quale deve porsi in modo assolutamente neutrale, rispetto alle varie culture, sistemi di valori e stili di vita che caratterizzano il mondo attuale.
    La discoteca è un nonluogo finalizzato alla funzione dell’espressione in cui il giovane è spinto a cercare una espressione radicale, e perciò primitiva di sé. E se non gli bastano per fare questo la musica e l’atmosfera della sala, ha a disposizione le droghe e l’alcool in modo che la sua espressione possa manifestarsi al massimo livello.
    Da questa sommaria analisi emerge la prima grossa sfida per l’animazione oggi: l’esistenza dei gruppi a bassa soglia che sono l’espressione tipica di una società che ha perso i luoghi.

    La morte del desiderio

    Una seconda sfida, che il precedente seminario ha rilanciato, è costituita da quella che può essere definita come la morte del desiderio. Dove non è chiaro se si tratta di una vera e propria morte del desiderio o se si tratta dello slittamento del desiderio verso il bisogno.
    Questo perché l’attuale cultura sociale ha collocato il bisogno al centro della vita. L’orientamento esistenziale delle persone, infatti, sembra essere orientato alla risposta ai loro bisogni primari, secondari e acquisiti. Non è un caso che nel linguaggio quotidiano siano frequenti espressioni come: io ho bisogno di esprimermi, io ho bisogno di appagamento, io ho bisogno di felicità.
    Le persone dicono quasi sempre «io ho bisogno» e assai raramente «io desidero». Ad esempio non dicono: «io desidero aprirmi e comunicare con gli altri», ma dicono: «io ho bisogno di comunicare con gli altri». C’è stato uno spostamento, che non è solo semantico, dal desiderio al bisogno. Questo significa che l’uomo viene visto come un insieme di bisogni a cui dare risposta.
    Il desiderio, diversamente dal bisogno, è progettuale perché è sete di vita, è il tentativo di spingere la vita verso i suoi limiti, verso i suoi confini.
    In una trasmissione televisiva dell’anno scorso il leader degli studenti del Mamiani, parlava dell’occupazione della scuola come di una occasione per gli studenti di socializzare più profondamente: «Perché a scuola normalmente abbiamo solo l’intervallo per socializzare».
    Socializzazione e introspezione erano le due parole chiave che orientavano l’esperienza di autogestione di quella scuola durante l’occupazione. Socializzazione e introspezione come risposta al bisogno di scendere in sé, di autocomprendersi e di vivere le proprie emozioni.
    Questo fatto indica come per questi giovani la realizzazione di sé passi attraverso la dimensione soggettiva, emotiva e affettiva del bisogno, e non più attraverso la dimensione culturale del desiderio.
    Proprio perché diventa bisogno e non più desiderio, l’autorealizzazione tende ad essere prigioniera della soggettività delle persone.
    D’altronde è in nome del bisogno che lo psicoterapeutico tenta di soppiantare l’educazione.
    Non è un caso che gli psicologi stiano cercando di spingere via i pedagogisti e gli educatori dal territorio dell’educazione e di sostituirli utilizzando modelli educativi che partono dai bisogni e dai problemi tipici dell’esperienza psicoterapeutica.
    I formatori psicologi ormai tendono ad aumentare ogni giorno di più dimenticando che la pedagogia ha un fondamento filosofico, e che quindi utilizza le scienze umane all’interno di un progetto che è di tipo esistenziale, ovvero filosofico, teologico, estetico e antropologico.
    La scommessa educativa sull’uomo non nasce dall’analisi dei suoi meccanismi psichici e delle sue patologie, ma da un progetto esistenziale ancorato a qualcosa che trascende l’orizzonte del bisogno, del benessere e dell’utilità.
    Occorre perciò ricordare che il terapeutico dà risposta al bisogno, mentre l’educativo dà risposta al desiderio.

    La crisi della memoria

    Un terza sfida che è emersa è quella della crisi della memoria. Memoria che, oltretutto, non diventa storia, mentre questa non diventa memoria.
    Nel seminario era stato affermato che questa è un’epoca in cui non si fa memoria e in cui la storia diventa una disciplina astratta perdendo la sua identità di luogo della memoria.
    Nello stesso tempo la memoria sta diventando soggettiva, essendo legata esclusivamente al flusso di coscienza.
    Dentro la crisi della memoria e della storia anche le parole diventano vuote, private della capacità di rinviare alla realtà.
    Questo ha comportato lo sradicamento parziale degli abitanti delle società complesse dall’alveo vitale dell’identità storico-culturale all’interno della destrutturazione della loro temporalità.
    Uno degli effetti della radicale trasformazione della temporalità, che è in attualmente in corso nella cultura sociale, sul percorso di crescita umana e personale dei giovani è visibile in particolare dal loro porsi in modo incerto, e a volte angoscioso, nei confronti del futuro, dalla debolezza delle loro radici nella memoria culturale, dal come vivano debolmente, nella maggioranza dei casi, le relazioni intergenerazionali con gli adulti, dalla sperimentazione molto diffusa dell’assenza dei padri dalla funzione di trasmissione dei valori e delle norme che costituiscono il canone culturale, e dal come, al contrario, essi vivano in modo fortemente significativo la relazionalità con i pari età nel loro percorso di crescita personale.
    Questa trasformazione della temporalità è prodotta dall’indebolimento dell’asse storico verticale del tempo e dal contemporaneo straordinario rafforzamento dell’asse orizzontale dello stesso tempo.
    Quest’ultimo asse, detto anche del tempo sociale, è quello su cui si declina il coordinamento nel presente dell’agire sociale degli individui e si esprime per mezzo delle relazioni comunicative che connettono gli individui e che formano quelle che, solitamente, vengono definite come le reti sociali.
    Le moderne tecnologie della comunicazione e della telematica (computer, tv satellitare, fax, modem, telefoni cellulari, ecc.) stanno creando delle reti di comunicazione che in tempi sempre più ravvicinati consentono agli individui di entrare in relazione tra di loro anche se sono fisicamente dislocati in luoghi molto lontani tra di loro. Internet e la posta elettronica sono un buon esempio di questa rete.
    Allo stesso modo la tv via satellite, e prossimamente via cavo, consente alle persone di partecipare come spettatori in tempo reale ad avvenimenti che accadono in luoghi remoti.
    Mentre questa rivoluzione tecnologica e culturale interrela sempre di più le persone all’interno di uno spazio sociale sempre più grande, accade che le stesse persone tendano a perdere, o perlomeno a indebolire, le loro relazioni comunicative con gli esseri umani che hanno abitato prima e che abiteranno dopo di loro lo spazio e il tempo.
    In altre parole, le persone tendono a perdere «memoria», intesa anche come la capacità di percepire la loro vita quale figlia e madre di una storia, ovvero il legame di responsabilità che le lega alle generazioni precedenti e a quelle future.
    Ma non solo. In questa trasformazione della temporalità le generazioni tendono sempre di più ad isolarsi all’interno del loro segmento temporale indebolendo il legame della solidarietà intergenerazionale nel presente. La contemporanea indifferenza del mondo degli adulti per quello degli anziani e dei giovani non è che un segno di questa trasformazione.
    Trasformazione che oltre a investire i rapporti temporali delle persone con quelle delle altre generazioni che le hanno precedute e che le seguiranno, riguarda anche il loro attuale tempo di vita e si manifesta nell’incapacità di percepire la propria esistenza come una storia dotata di senso.
    Vita in cui solo il tempo presente sembra avere un valore e un senso e che, quindi, appare più come un susseguirsi di presenti che come un racconto dotato di un inizio e di una fine legati da un intreccio che ne svela il significato.
    L’identità debole e frammentata, l’impossibilità di pensare alla propria vita come un progetto seppur aperto, l’incoerenza con i suoi corollari del pragmatismo e dell’opportunismo, l’angoscia vestita di depressione o di fuga nell’evasione della ricerca di gratificazioni attraverso il consumo ossessivo che sembra segnare la vita di molti giovani, affondano le loro radici in questa crisi del tempo della storia detto, dagli studiosi della temporalità umana, «tempo noetico».
    Secondo alcuni autori questo fenomeno è prodotto dalla «spazializzazione del tempo» che non sarebbe altro che il risultato della supremazia nell’attuale vita sociale delle coordinate spaziali su quelle temporali che, di fatto, anestetizza l’idea del tempo e della storia, del vissuto diacronico a favore della sincronicità spazializzante.
    Immersi in questo tempo spazializzato, gli individui perdono la coscienza della propria appartenenza alla storia e, quindi, anche la propria capacità di produrre storia, e divengono delle comparse prive di memoria e di sogni di futuro. Questo fa sì che solo ciò che è immediato e simultaneo venga vissuto come reale. Le dimensioni del passato e del futuro sono espulse dalla coscienza, la memoria e il sogno sono esiliati. L’istante diviene un punto nello spazio in cui non vi è durata ma solo l’appartenenza atemporale ad un insieme spaziale.
    All’origine di questa trasformazione della temporalità vi sono fenomeni sociali complessi come l’urbanizzazione, l’espansione della tecnologia e della presenza dei fondamenti tecnico-scientifici di tipo universalistico nelle culture locali, il predominio del senso ottico, ovvero il predominio delle immagini rispetto alla parola parlata e scritta e, infine, l’influenza dell’industria culturale che, per evitare che l’effetto del rapidissimo succedersi delle sue proposte abbia effetti distruttivi sulla sua stessa produzione, deve appiattire l’esperienza del tempo a favore della simultaneità.

    La crisi della parola

    La crisi della memoria si connette con la crisi della parola, della sua capacità di rinviare alla realtà.
    A questo proposito occorre ricordare che un segno linguistico deriva il suo significato tanto dal suo opporsi e distinguersi dagli altri segni del sistema linguistico, quanto dalla sua relazione con l’oggetto mentale e/o fisico a cui rimanda.
    Nella cultura della società complessa surmoderna il segno è andato sempre più autonomizzandosi dall’oggetto per manifestare il suo significato quasi esclusivo in relazione con gli altri segni.
    Questa trasformazione profonda della lingua ha portato le persone a sganciarsi sempre più dalla realtà per collocarsi all’interno di un mondo immaginario.
    La parola si è fatta astratta perdendo la sua «cosalità».
    La parola greca «logos» ha prevalso sulla parola ebraica «dabar».
    Come è noto, infatti, in ebraico dabar oltre che parola significa anche cosa, mentre in greco logos oltre che parola significa anche concetto, idea astratta.
    Tale differente modo di intendere e di usare la parola si manifesta nei differenti modelli culturali del mondo greco e di quello ebraico. Infatti mentre nella tradizione ebraica la parola è lo strumento che l’uomo ha a disposizione per dominare la realtà del mondo storico che abita, e la verità è la fedeltà nella vita quotidiana all’alleanza, nel mondo greco, invece, la parola rimanda all’essenza della realtà, ai concetti astratti o ideali che la realtà nasconde o maschera, e la verità, conseguentemente, consiste nel portare alla luce, nello svelare queste essenze nascoste.
    Questo spostamento della parola verso l’astratto e il suo mondo, l’immaginario, tradisce quell’equilibrio tra «dabar» e «logos» che ha caratterizzato dopo l’avvento del cristianesimo la cultura dell’occidente.
    Questo tradimento è stato prodotto tra l’altro dalla perdita di memoria che, come si è visto, è tipica dell’attuale vita sociale, e che si è manifestata anche, se non soprattutto, nel mancato deposito della memoria nel significato delle parole che è frutto di diversi strati temporali al pari della crosta terrestre.
    Il mancato deposito della memoria nel significato delle parole è una delle cause più rilevanti della perdita della capacità delle parole di avere un significato stabile e di essere fedeli alla storia in cui sono dette. Invece esso è oltremodo funzionale alla creazione di un linguaggio che serve per fuggire dal mondo e dissolvere il reale nel virtuale.
    Una seconda trasformazione rilevante riguarda la dimensione sintattica del linguaggio. Esso, infatti, sta perdendo la sua struttura logica lineare consequenziale per assumere quella di una struttura d’insieme.
    La logica della comunicazione visiva si è sostituita a quella della comunicazione orale con risultati devastanti, soprattutto sull’uso della lingua parlata, anche se manifesta alcune conseguenze pure al livello della lingua scritta.
    Come è noto, per motivi legati alla fisiologia degli organi del senso uditivo umani, la lingua parlata per essere correttamente decodificata deve essere strutturata in sequenze logiche lineari, ovvero i vari suoni che si susseguono nel tempo devono essere legati da una trama logica. Al contrario, la percezione dell’immagine è simultanea, in quanto i vari elementi che la formano si presentano insieme nello stesso istante e, quindi, la logica che la struttura è quella di una relazione tra le parti.
    Questa trasformazione della struttura logica della lingua, oltre che effetti sulla sua efficacia comunicativa, ha pure quello di ridurre la capacità delle persone di strutturare gli eventi in una logica temporale di tipo storico e, quindi, di attribuire ad essi un significato che trascenda quello contingente.
    Questo elemento si lega strettamente alla crisi della progettualità prima descritta e alla incapacità di percepire il senso della storia.

    L’emergere dell’identità debole e della pluridentità

    Nel labirinto della complessità sociale il non avere una identità stabile, coerente e unitaria è ritenuto normale. Il modello di identità della società complessa, infatti, è quello di una identità frammentata, composita, in continua evoluzione, ambivalente, contraddittoria e mai compiutamente raggiunta. Questo tipo di identità è teorizzato sia a livello filosofico che sociologico.
    Nel rapporto con la realtà esterna si tenta di accreditare, in coerenza con il concetto di identità debole, l’impossibilità di comprendere e di dominare efficacemente la realtà. L’unico modo possibile per l’abitante delle società complesse di porsi nei confronti della realtà è quello di chi tace, e se formula una domanda non pretende risposta.
    L’identità debole è legata alla perdita del centro sociale che frantuma l’esperienza dell’appartenenza sociale delle persone, facendo sì che i loro vissuti siano divisi in tanti frammenti, tra loro isolati, che non riescono a dar vita ad una esperienza esistenziale unitaria.
    In conseguenza di questo ogni esperienza che la persona vive ha un significato relativo che si esaurisce all’interno dell’esperienza stessa, non riuscendo a collegarsi alle altre esperienze esistenziali e quindi a un senso più generale.
    Questo comporta, tra l’altro, una forte difficoltà da parte della persona a dare coerenza ai suoi atteggiamenti e comportamenti che manifesta lungo l’asse del suo tempo quotidiano.

    La fine della secolarizzazione?

    Nel precedente seminario una quarta sfida è stata individuata nella cosiddetta «malattia della secolarizzazione».
    Anche in questo caso però la domanda è se si tratta veramente della fine della secolarizzazione o di qualcos’altro.
    Perché la secolarizzazione ha avuto alcuni aspetti positivi accanto ad alcuni problematici.
    Per prima cosa occorre domandarsi che cosa la secolarizzazione ha realmente introdotto nella cultura sociale, e se per un cristiano essa è solo un qualcosa di negativo. L’abolizione della differenza tra lo spazio sacro e lo spazio profano, fra il tempo sacro e il tempo profano, è così estranea al cristianesimo? O è il compimento di una concezione cristiana?
    Questa domanda nasce dalla constatazione che il cristianesimo non ha mai proposto all’uomo la salvezza nel tempo sacro e la conseguente ricerca dell’uscita dal tempo profano per indurlo a rifugiarsi in tempi e spazi sacralizzati, perché ha proposto la storia e il suo tempo come il luogo in cui la salvezza si manifesta e si costruisce. Questo significa che tutto il tempo è santo, non solo il tempo sacro; e che tutto lo spazio è santificabile.
    Nonostante questo la nostalgia del sacro è rimasta. In molte persone la perdita del sacro ha prodotto una profonda crisi, oppure le ha spinte verso una fede religiosa dove esiste la possibilità di abitare un luogo sacro in cui sono presenti potenze arcane e misteriose.
    Per alcune di queste persone è rimasta viva la nostalgia dell’orrida regione e dei luoghi nascosti all’interno di forme di ricerca di sacro che esprimono il rimpianto di una religione che non è quella tipicamente cristiana.
    In questo caso si può allora parlare di fine della secolarizzazione, o invece occorre parlare della nostalgia di qualcosa d’altro? Oppure ancora – e questo lo si vede in fenomeni come quello della New Age – non si tratta di fare di Dio semplicemente la fonte del proprio benessere personale? Non è il tentativo di ridurre Dio a una pratica dello star bene? A una sorta di raggiungimento di pienezza, di equilibrio, che fa star bene le persone e che fa sopportare loro i problemi, i conflitti, le sofferenze del mondo che abitano? E dove Dio è ridotto a un qualcosa di intrapsichico, a un principio di armonia della persona con se stessa, con il mondo e con la natura?
    È questa indubbiamente un’esperienza religiosa in cui non c’è il tremore dell’attesa dell’incontro con il tremendo che apre all’affascinamento del divino. Dove non c’è nulla della ricerca di Dio che passa attraverso l’esperienza del terribile, della paura, dell’angoscia profonda, della solitudine per poi sfociare nell’esperienza gioiosa e sconvolgente del fascino del divino.
    In queste esperienze poi non c’è traccia dell’incontro con la sofferenza che è ineliminabile nell’impegno per rendere operante nella storia la salvezza offerta dal sacrificio di Gesù.

    FRAMMENTI DI UN FONDAMENTO ANTROPOLOGICO DELL’ANIMAZIONE

    Nei lavori del seminario dell’anno scorso vi sono state anche alcune rimozioni.
    Una di esse è stata prodotta dal non aver mai affrontato l’educazione come la proposta di un modello, di una visione dell’uomo, della vita e quindi di una interpretazione del mondo.
    Infatti la concezione dell’animazione come educazione che propone un modello, una concezione di uomo, di vita unitamente a una interpretazione della realtà del mondo, era presente nelle esperienze proposte esclusivamente in modo nascosto. Sembrava che in molte relazioni e interventi fosse elusa la domanda sul perché agire attraverso l’animazione? Per quale fine? A che scopo? Che cosa significa fare animazione oggi?
    Per questo motivo qui di seguito viene descritta una mappa che, lungi dal voler rappresentare una compiuta, completa e corretta descrizione del fondamento antropologico dell’animazione, vuole semplicemente essere la descrizione di alcuni punti che le rimozioni hanno occultato e che sono, invece, necessari per comprendere il fine dell’agire nell’animazione.
    La mappa può essere anche utilizzata come griglia concettuale per l’interpretazione in chiave di metodo e di azione delle sfide che la surmoderna complessità della società lancia all’animazione.

    L’uomo come essere progettuale e come animale culturale

    È ancora alquanto diffusa la concezione secondo cui il mondo, ovvero la realtà materiale e immateriale in cui si vive, sia la stessa per tutti gli esseri viventi. In altre parole si pensa che ogni essere vivente percepisca, magari con sfumature, tonalità e profondità differenti la stessa realtà che percepisce l’uomo.
    Alla maggioranza delle persone sembra poi del tutto ovvio che tutti gli uomini, al di la delle differenze etniche e geografiche, vivano e percepiscano, quando condividono lo stesso spaziotempo, un’identica realtà.
    Questa concezione ingenua è quella che è, tra l’altro, alla base del cosiddetto antropomorfismo e che si manifesta tutte le volte che si attribuiscono ad un animale intenzioni, sentimenti, pensieri o semplicemente percezioni simili a quelle dell’uomo.
    Nonostante la nostra cultura si sia da tempo liberata dall’errore antropomorfico, il suo presupposto in qualche modo è rimasto nella mente delle persone nascosto sotto le vesti della convinzione dell’esistenza di una realtà oggettiva del mondo, unica quindi per tutti i viventi o perlomeno per la specie umana.
    La moderna biologia, unitamente s’intende alla filosofia e alle scienze dell’uomo e del linguaggio, si è da tempo incaricata di demolire questa concezione. In particolare attraverso Jakob Von Uexkull e il suo concetto di Umwelt (3).
    Secondo Uexkull ogni specie di organismo vivente è una sorta di monade che abita un suo mondo specifico in cui sperimenta una sua propria esperienza particolare. Il mondo di una zecca, ad esempio, non ha nulla a che vedere con quello di un’ape. Non ci sono, infatti, in questi due mondi esperienze trasferibili dall’uno all’altro. Basti pensare che il mondo di una zecca è fatto di luce e ombra, dalla presenza e dall’assenza di anidride carbonica e/o di acido butirrico.
    Questo perché il mondo di una specie vivente è costruito dal suo sistema recettivo, quello che gli consente di percepire gli stimoli che gli provengono dal suo ambiente, e dal suo sistema reattivo, quello che gli permette di reagire a tali stimoli. Questi due sistemi, che sono profondamente interrelati, formano quello che Uexkull chiama il circolo funzionale. La realtà, ovvero il mondo abitato da una specie, è costituita solo da ciò che entra in questo circolo funzionale. Ciò che non entra in questo circolo funzionale semplicemente non esiste.
    Per i membri di una specie priva di organi della visione, la luce non esiste, e quindi non appartiene al mondo di quella specie che ne ignora completamente l’esistenza, mentre ad esso possono appartenere fenomeni e realtà fisiche che per altre specie non esistono.
    Questi dati aiutano a capire come il mondo vivente non sia un mondo unitario, ma bensì un insieme di mondi distinti che in alcuni casi hanno una parte in comune, delle intersezioni che consentono la relazione o comunicazione tra differenti specie. La comunicazione tra specie differenti è possibile, infatti, solo se esistono delle intersezioni, delle parti in comune tra i singoli mondi delle specie.
    Due specie senza intersezioni tra i loro mondi non solo non potrebbero comunicare tra di loro, ma addirittura l’una non esisterebbe per l’altra e viceversa, essendo reciprocamente invisibili.
    L’uomo si differenzia dalle altre specie viventi perché, oltre a possedere sistemi recettivi e reattivi molto più ampi, ha un elemento che rende unico il suo circolo funzionale e quindi il suo mondo: il sistema simbolico.(4)
    Questo sistema, che è inserito tra quello recettivo e quello reattivo, è costituito dalla cultura e, in particolare, dal linguaggio simbolico che la articola e costituisce.
    L’uomo tra lo stimolo e la reazione ad esso, salvo casi limitati, compie delle elaborazioni di tipo simbolico, ovvero interpreta lo stimolo e sceglie la risposta più adeguata ad esso, attraverso gli strumenti che gli offrono la sua cultura sociale e la sua esperienza personale, così come è stata rielaborata a livello simbolico.
    È questo il motivo per cui a volte stimoli apparentemente deboli e insignificanti producono nell’uomo reazioni molto forti, non giustificate da un’analisi biologica della relazione stimolo- risposta.
    Basta pensare, ad esempio, che in alcune culture sociali un sorriso o uno sguardo ad una donna possono provocare reazioni violente o compromettere chi lo fa, mentre in altre culture la stessa azione non provoca alcuna reazione particolare.
    Si può affermare che nella maggioranza dei casi l’uomo reagisce non tanto allo stimolo materiale quanto all’interpretazione simbolica che egli dà di quello stimolo.
    È questa caratteristica che ha indotto alcuni filosofi del passato ad affermare che l’uomo è decaduto dalla sua condizione naturale.
    Proprio per l’esistenza di questo sistema simbolico il mondo dell’uomo non è un mondo materiale ma un mondo culturale, in cui, come si è detto, la stessa realtà fisica, di cui non si vuole certo negare l’esistenza e l’importanza, è sottoposta ad una elaborazione di tipo simbolico.
    Il fatto che l’uomo abiti un mondo culturale di tipo simbolico rende conto delle differenze, al di là di quelle genetiche, che esistono tra le persone e tra i gruppi umani dotati di differenti culture sociali. Infatti persone che abitano culture sociali differenti e che utilizzano linguaggi diversi, di fatto, abitano mondi differenti. Allo stesso modo persone che vivono esperienze diverse, che apprendono ed elaborano linguaggi differenti per qualità, estensione e sfere di significato, acquisiscono modi diversi di dare senso alla esistenza e, di fatto, abitano mondi parzialmente differenti.
    La creazione di questi mondi, sociali e individuali, avviene sin dai primi anni di vita, in quanto il bambino già nel periodo in cui completa il suo organismo attraverso la crescita incorpora gli elementi simbolici che costituiranno il suo mondo.
    La possibilità, e quindi la necessità, dell’uomo di elaborare un sistema simbolico in grado di costituire il momento centrale del suo circolo funzionale, è dovuta al fatto che quando egli nasce non è un essere completo, in quanto il suo patrimonio genetico gli offre le possibilità di agire ma non i modi di agire, che dovrà apprendere sia durante le fasi del suo sviluppo che, anche se in misura minore, nell’intero corso della sua esistenza.

    L’uomo come essere progettuale

    Nietzsche definì l’uomo come l’animale non definito.
    Con questa definizione egli sottolineava, tra l’altro, il fatto già segnalato che l’uomo al momento della nascita è un essere incompiuto che si completa nel corso della sua vita individuale e sociale.
    L’uomo non è determinato infatti da un codice genetico o da costrizioni ambientali assolutamente vincolanti, come accade per gli animali, ragion per cui al momento della nascita ha di fronte a sé una molteplicità di possibilità di essere.
    Questo significa che ogni individuo diviene ciò che è in seguito alla intersezione di più fattori: il suo progetto personale, la cultura sociale, le condizioni dell’ambiente sociale e naturale in cui vive, i processi educativi di cui è protagonista e, naturalmente, il suo patrimonio genetico.
    Tra tutti questi fattori la progettualità gioca un ruolo importante – a patto naturalmente che la persona abbia sviluppato un adeguato livello di coscienza – e nella persona matura essa è l’asse attorno a cui si strutturano le influenze di tutti gli altri fattori.
    A questo proposito è interessante notare quanto afferma Gehlen:
    «L’uomo è un animale non ancora costituito una volta per tutte. Egli è anche un essere che ritrova in sé il compito, e proprio per questo ha bisogno di una interpretazione di se stesso, la quale interpretazione è sempre aperta (...). L’uomo non è costituito una volta per tutte significa: egli dispone delle sue proprie predisposizioni e dati per esistere, egli assume un comportamento nei suoi propri confronti per necessità vitale, come nessun altro animale fa; egli non tanto vive, quanto, come è mia abitudine dire, dirige la propria vita».(5)
    È chiaro che nei primi anni della sua vita l’essere umano ha un ruolo maggiormente passivo in ordine alla progettualità, se non in riferimento alle specifiche caratteristiche e condizioni della sua personalità organica e psichica che lo spingono ad agire in un dato modo, ma man mano che cresce egli diventa sempre più protagonista della progettazione e della realizzazione della sua vita.
    Nei primi anni di vita i genitori e gli educatori in genere gli proporranno un progetto elaborato da loro, che spesso non è altro che il progetto che la cultura sociale elabora per i suoi membri a seconda del loro status socioculturale, ma man mano che il bambino cresce questi assumerà un ruolo sempre maggiore nella sua autocostruzione.
    Affermare che la progettualità gioca un ruolo fondamentale nella realizzazione dell’essere umano significa anche dire che questi è un essere aperto, a differenza delle altre specie viventi che hanno invece un ambiente saldamente strutturato dalla loro organizzazione istintuale. Questa apertura verso il mondo che caratterizza la specie umana è sottolineata anche dal fatto che nell’uomo il periodo fetale si prolunga di almeno un anno dopo la nascita. Ciò vuol dire che vi sono dei processi essenziali di sviluppo dell’organismo che avvengono dopo che il bambino si è già separato dal grembo materno e mentre è già in interazione con l’ambiente naturale e sociale.
    Negli altri mammiferi, analoghi processi di sviluppo avvengono esclusivamente nel corpo materno. Questo significa che l’interazione con gli altri esseri umani si intreccia nell’uomo con la sua stessa formazione organica e, in qualche modo, non può non influenzarla.
    Questa considerazione è quella che fa affermare ad alcuni studiosi che «se è possibile dire che l’uomo ha una sua natura, ha più significato dire che l’uomo costituisce la propria natura o, più semplicemente, che l’uomo produce se stesso»(6).
    La progettualità nell’uomo riguarda sia la sua formazione come persona sia la costruzione della realtà, ovvero del mondo che abita. Infatti egli producendo se stesso incorpora la cultura, i linguaggi e tutti i sistemi simbolici che mediano il suo rapporto con la realtà.

    La pluralità delle culture e delle lingue come accesso al mondo «reale»

    Questa caratteristica dell’uomo che costruendo se stesso costruisce contemporaneamente il proprio mondo, potrebbe avere come conseguenza quella della non esistenza, o perlomeno di una relativa inconoscibilità, della realtà esterna all’uomo.
    Questo pericolo reale, tuttavia, è attenuato dall’esistenza nel mondo di una pluralità di lingue e di culture. Infatti l’intersezione dei mondi disegnati dalle varie lingue e culture esistenti nel presente, o che sono esistite nel passato, rende possibile l’individuazione di un mondo comune, che può essere assunto come la traccia più fedele e oggettiva del mondo reale in cui abita l’uomo. Si realizza nella condizione umana il paradosso per cui la realtà della propria visione del mondo è garantita solo dall’esistenza di una pluralità di visioni del mondo.
    Il grande semiologo Jurij Michajlovic Lotman a questo proposito rilevava «l’ineluttabilità del fatto che lo spazio della realtà non possa essere abbracciato da nessuna lingua separatamente ma solo dal loro insieme. L’idea della possibilità di un solo linguaggio ideale come meccanismo ottimale per l’espressione della realtà è un’illusione. Una minima struttura funzionante è costituita dalla presenza di due lingue e della loro incapacità, ognuna indipendentemente dall’altra, di abbracciare il mondo esterno. Tale incapacità non è una mancanza, ma condizione di esistenza, dato che proprio essa detta la necessità dell’altro (di un’altra persona, di un’altra lingua, di un’altra cultura)».(7)
    La convinzione della necessità di una pluralità di lingue e di culture per la descrizione e la comprensione del mondo fa ribaltare a Lotman il mito della Torre di Babele: «La situazione di pluralità delle lingue è originaria, primaria, ma più tardi, sulla sua base, si crea l’aspirazione ad un unico linguaggio universale (a un’unica verità finale)»(8).
    L’altro dall’origine della storia umana costituisce il fondamento della possibilità dell’uomo di entrare in rapporto con la realtà esterna e interna.
    Questa considerazione introduce al secondo punto della mappa: quello della relazionalità.

    La relazionalità e la solitudine del vivente

    Come si è visto, la concezione della persona come essere progettuale poggia sul riconoscimento della relazionalità come processo su cui si fonda la sua autocostruzione. Infatti è attraverso le relazioni con le persone, con le istituzioni, con la cultura e la natura che ogni individuo umano disegna i suoi confini individuali e sociali, si autocomprende e comprende, dandogli una forma intelligibile, il mondo che abita.
    La relazione è intesa naturalmente come quella forma di comunicazione complessa in cui si intrecciano in modo inestricabile significati, sentimenti ed emozioni, e in cui in molti casi, simultaneamente, si dispiegano linguaggi differenti, a volte convergenti e a volte divergenti. La relazione richiede l’esistenza di un oggetto esterno a chi la vive e la capacità di creare tra i mondi abitati dall’oggetto e dal soggetto un mondo almeno parzialmente comune.
    Senza l’esistenza di questo mondo comune non solo non esiste relazione, ma, più radicalmente, per il soggetto l’oggetto non esiste.
    Per motivi analitici la complessità della relazione viene solitamente scomposta, semplificandola, in due dimensioni: quella relazionale o metacomunicativa e quella del contenuto.
    La prima dimensione, quella relazionale, solitamente viene riferita agli aspetti emozionali ed affettivi della comunicazione, o comunque all’insieme dei linguaggi non verbali utilizzati all’interno della relazione; mentre la seconda, quella del contenuto, viene ristretta al significato letterale che è espresso nella stessa comunicazione.
    La miscela dei due aspetti della relazione varia normalmente a seconda del livello di prossimità delle persone in relazione o del medium utilizzato.
    Infatti, in una comunicazione «faccia a faccia» è prevalente l’aspetto relazionale rispetto a quello del contenuto, mentre in una comunicazione «epistolare» prevale nettamente il contenuto. In una comunicazione televisiva vi è una maggior presenza della dimensione relazionale rispetto ad una comunicazione radiofonica o telefonica, che comunque posseggono questa dimensione in misura superiore a quella posseduta dalla comunicazione scritta. Questo significa che il sistema relazionale in cui sono immerse le persone può essere considerato come una serie di anelli concentrici, che vanno da quelli interni di una comunicazione segnata fortemente dalla dimensione dell’esperire esistenziale soggettivo, a quelli più esterni segnati maggiormente dalla dimensione razionale e dialettica.
    Ogni persona nella sua vita quotidiana gioca la sua relazionalità contemporaneamente a più livelli: basti pensare alla persona che chiacchiera con un familiare mentre sta guardando il telegiornale o ascoltando la radio.
    Questa trama complessa di relazioni di qualità simboliche ed esistenziali differenti è, di fatto, l’ordito sul quale il telaio della mente delle persone costruisce il mondo.
    Questo mondo è sempre e comunque in bilico tra oggettività e soggettività, tra solitudine e compagnia.
    L’elemento che è in grado di spostare questo mondo dalla soggettività solitaria all’oggettività della compagnia è l’esperienza dell’alterità, ovvero l’esperienza dell’ascolto e della condivisione dell’Altro.
    L’alterità, quindi, come movimento attraverso il quale la persona può sfuggire all’implosione verso quella forma di soggettività distruttiva che è il narcisismo o semplicemente l’egocentrismo, ed aprirsi a quella soggettività, specchiata dalle soggettività altre, che è alla base sia della costruzione di un sé maturo che della capacità di una efficace partecipazione solidale alla vita sociale.
    Tuttavia la relazionalità non si esaurisce nel rapporto della persona con l’Altro, perché essa richiede – per essere produttiva ai fini della crescita dell’individuo – anche la dimensione della comunicazione intrapersonale.
    In altre parole, richiede alla persona la capacità di accettare, anzi di coltivare, l’esistenza in essa di un nucleo personale che non può essere in alcun modo condiviso, salvo la perdita di se stessi. C’è un principio della mistica mussulmana che dice che l’uomo vero, autentico è quello la cui parte più intima è inaccessibile agli altri.
    Tra l’altro chi sa veramente entrare in relazione con l’altro è colui che sa vivere questa irrinunciabile solitudine.
    La relazionalità è per questo motivo uno dei concetti chiave della teoria e del metodo, ovvero della pratica dell’animazione.

    La cultura e le culture

    La cultura, nell’accezione che è stata introdotta nelle riflessioni immediatamente precedenti, non appare come un insieme complesso ma statico di «conoscenza, credenze, arte, morale, diritto, costume e di qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società» (E.B. Taylor), ma bensì come un complesso di regole e di modelli interiorizzato dai membri di una data società che consente ad essi di produrre quei comportamenti e di manifestare quei valori, quelle credenze e quello stile di vita, che li fanno riconoscere, appunto, come membri di quella data società.
    In questo senso la cultura è un insieme di modelli e di regole del tipo di quelli che sono alla base della competenza linguistica, e quindi appare come un programma in grado di produrre gli elementi che la costituiscono.
    Questa concezione della cultura consente di vederla come un vero e proprio sistema vivente che segue un suo ciclo vitale: nascita, evoluzione/maturazione, decadimento e morte. Ma non solo. In quanto sistema vivente una cultura può ammalarsi e impazzire o regredire invece di evolvere.
    Questo significa che una cultura non necessariamente ha sempre uno sviluppo positivo e che, comunque, essa non può durare in eterno: essa quindi ha un limite invalicabile alla sua esistenza, costituito dalla qualità e dalla natura del proprio ciclo vitale.
    Il fatto che la cultura sia pensabile come un sistema vivente, quindi come un qualcosa di unitario, non deve però indurre a pensare che essa sia priva di conflitti, di contrasti e di tensioni, e che non possano dunque esistere in essa dei sottosistemi (subculture) differenti. Tutt’altro; l’unitarietà di un sistema culturale indica solo che al suo interno le tensioni e i conflitti possono essere risolti e superati o, perlomeno, permanere senza produrre effetti disastrosi per lo stesso sistema culturale(9).
    Una delle caratteristiche della cultura della complessità sociale è costituita, come si è visto, dall’esistenza al suo interno di una grande varietà di subculture, spesso antagoniste e in conflitto.
    Non solo i fenomeni della globalizzazione, ma soprattutto delle migrazioni, pongono le culture di alcuni paesi, tra cui l’Italia, in un rapporto diretto con altre culture.
    Questo fatto, invece di essere visto come una situazione positiva, specialmente se si tiene in considerazione quanto detto circa la necessità della pluralità delle culture per la comprensione della realtà, è spesso letto invece in modo negativo, e produce atteggiamenti difensivi di negazione dell’altro.
    Compito dell’animazione è di rendere l’occasione, sia del pluralismo culturale che della complessità sociale, feconda per una comprensione più ricca del mondo.
    Questo può avvenire attraverso il recupero del dialogo, inteso come forma che consente la comunicazione nel rispetto della diversità dei comunicanti.
    Il dialogo tra le culture può avvenire solo se si fonda sulla reciprocità, sullo sforzo di conoscenza dell’altro, sul riconoscimento della relatività e incompletezza della propria cultura, sulla condivisione di esperienze comuni con l’altro rispettando però il diverso modo di dare senso alle stesse esperienze, sul rispetto dei ritmi e delle modalità di comunicazione e di espressione dell’altro.

    Comunità locale e protezione sociale: la riscoperta di un ruolo

    In questi ultimi anni si sta assistendo ad una riscoperta del valore della comunità locale sia nell’organizzazione della complessità dei sistemi sociali, sia nella rivitalizzazione dei processi formativi e di socializzazione che consentono alle persone una crescita più piena e una partecipazione più attiva e solidale alla vita sociale.
    La spinta a questa riscoperta è il prodotto di un insieme complesso di fattori.
    Il primo fattore è indubbiamente quello costituito dalla crisi di governabilità dei sistemi sociali complessi, connessa anche alla difficoltà di transazione delle persone dall’orizzonte soggettivo del loro personale mondo vitale all’orizzonte oggettivo del sistema sociale.
    I sistemi sociali vivono oggi una profonda crisi di governabilità prodotta sia dall’impossibilità di stabilire delle gerarchie di valori e di bisogni, sia dalla difficoltà delle persone di uscire dall’orizzonte soggettivo dei propri bisogni e desideri, o di quelle con cui condividono lo spazio più ristretto di vita, e di rileggerli alla luce dei bisogni e dei desideri delle persone che abitano la più ampia realtà del sistema sociale.
    La comunità locale può essere il luogo dove le gerarchie dei bisogni e dei valori possono essere stabilite e dove può avvenire la mediazione tra sistema sociale e soggetto.
    Da questo punto di vista la comunità locale può effettivamente svolgere la funzione di luogo di produzione di un senso perché è il primo luogo in cui si può scoprire, attraverso il gioco delle differenze intersoggettive, che la realtà ha un volto diverso da quello descritto dal proprio linguaggio e dalla propria cultura.
    Il secondo fattore è dato dal peso dell’isolamento relazionale che è prodotto dalla trasformazione delle realtà territoriali di vita in nonluoghi.
    Per superare i nonluoghi è necessaria un’azione che riproduca un sistema relazionale primario tra le persone che abitano in un dato luogo, che le aiuti a elaborare un’appartenenza di tipo identitario con lo stesso luogo e che le faccia sentire protagoniste della storia che in quel luogo si scrive, è stata scritta e si scriverà.
    In altre parole, è necessario che il luogo divenga comunità, ovvero un gruppo sociale collocato in una particolare dimensione antropizzata dello spazio-tempo, al cui interno vi è una comunicazione a corto raggio ed esistono rapporti di solidarietà reciproca.
    La comunità poi è il luogo che offre il sostegno alla scoperta dello spazio della propria soggettività all’interno della cura per lo spazio delle altrui soggettività, consentendo quei percorsi di ricerca di identità che la complessità sociale sembra aver smarrito.
    Per lo stesso motivo la comunità locale è anche il luogo in cui può ripartire una nuova scoperta della partecipazione politica come esercizio diretto della responsabilità della propria vita e di quella delle persone con cui si condivide il cammino esistenziale.
    Un ruolo importante in questo è costituito dalla messa in valore della dimensione politica dell’associazionismo, inteso non solo nella sua accezione tradizionale, ma in quella relativamente moderna di luogo dell’autorganizzazione da parte dei cittadini delle risposte ai loro bisogni e al compimento dei loro desideri.
    Il terzo fattore è dato dalla crisi del Welfare State che ha fatto emergere alla consapevolezza collettiva che lo scandalo della povertà e del dolore, magari sotto forme nuove, continuava a dirsi anche all’interno delle società industriali. Per non parlare di quei milioni di uomini, che non abitano le società industriali, per i quali lo spettro della morte per fame si accompagna ancora a quello dell’ingiustizia.
    La crisi del Welfare ha portato alla luce anche la consapevolezza che il benessere, più o meno relativo, delle società industriali si alimentava e si alimenta in gran parte sulla povertà della stragrande maggioranza dell’umanità.
    Molte persone hanno cioè scoperto che il loro modello di vita, che credevano sufficientemente altruistico e solidale, altro non era che una moderna forma di egoismo, e che forme di assistenza che si credevano espressione della solidarietà sociale erano segnate da una profonda carica di alienazione.
    Chi ha sperimentato come protagonista o spettatore certe forme di assistenza istituzionale, non importa se pubblica o privata, ha potuto rendersi conto della loro carica alienante.
    Nuove solitudini sono nate all’ombra della pubblica assistenza, nuove disperazioni si sono rivelate nel tessuto disegnato dalla solidarietà espressa attraverso una mercede economica. Il denaro, e non c’era che da aspettarselo, ha prodotto nuovo dolore nel momento in cui gli si è affidata al lotta al dolore.
    In questa nuova coscienza sociale nata dalla crisi del Welfare State e dall’urlo disperato dell’ingiustizia vestita di sofferenza, hanno ripreso vigore quelle attività dettate dalla solidarietà e sottratte alla logica dello scambio economico, che sono etichettate in modo assai generico come volontariato. Vi è stato, in altre parole, il tentativo di alcuni uomini di lasciarsi interpellare dalla sofferenza umana, al di là di ogni calcolo di utilità, e di dare ad essa una risposta di amore, di vicinanza e di speranza.
    Ma non solo nella attuale vita sociale è avvenuta la riscoperta della dimensione della vita comunitaria locale come luogo di prevenzione e di cura all’interno della vita quotidiana delle forme del disagio sociale e dell’emarginazione.
    Su questa consapevolezza è stata sviluppata l’ipotesi della rifondazione di un nuovo Welfare State in chiave comunitaria o societaria, che in questi ultimi anni si sta facendo strada tra gli addetti ai lavori e in alcune aree politiche, sulla scorta del convincimento che un vero ed efficace sistema di protezione sociale può esistere solo attraverso la creazione di una rete della solidarietà, in cui deve giocare un ruolo fondamentale l’esercizio della solidarietà diretta da parte dei cittadini, singoli e associati, all’interno dei vari luoghi in cui si svolge la loro vita quotidiana.
    In altre parole, si è scoperto che molti servizi sociali sono di fatto dei tentativi di riparazione a dei guasti provocati sia dalla vita economica che dai modelli di convivenza presenti all’interno di una data realtà sociale, e quindi che è possibile eliminare questi servizi modificando sia alcune regole dello sviluppo economico, sia i modelli di convivenza sociale.
    Si è anche scoperto che molti di questi servizi possono essere erogati direttamente dalla famiglie, dalle associazioni e dalla comunità locale, purché l’azione di questi soggetti sociali sia sostenuta, almeno in parte, da opportune risorse materiali e immateriali. Risorse comunque nettamente inferiori a quelle che lo stato dovrebbe impiegare per gestire in proprio questi servizi.
    Questo modo di concepire il welfare postula che questa azione solidale dei cittadini debba far parte organicamente di un sistema di servizi sociali in cui sono presenti e agiscono sia i servizi pubblici che quelli privati, in particolare per quelle aree di intervento più complesso che sfuggono sia alle azioni preventive che alle possibilità e alle responsabilità concrete dei cittadini.
    Questo nuovo modello di welfare postula, quindi, l’integrazione in un’unica rete delle azioni della famiglia, del volontariato, del privato sociale, del privato e del pubblico. Il tutto all’interno di un sistema sociale che mette al centro, nel disegnare la propria vita e il proprio sviluppo, non solo gli imperativi dell’economia ma anche quelli della persona umana e, quindi, del sociale.
    La centralità del sociale accanto all’economico è l’unico modo concreto che un sistema sociale ha a disposizione per prevenire nuove forme di povertà, di emarginazione e di devianza.
    Il sistema di Welfare, secondo questo punto di vista, tende a sviluppare sia un’azione preventiva che un’azione curativo-riabilitativa responsabilizzando in essa direttamente i cittadini e le loro organizzazioni.
    È per questo che questo nuovo Welfare per realizzarsi richiede l’educazione delle persone ad un nuovo modo di esercitare il loro modo di essere cittadini, e l’attribuzione alla comunità locale di un ruolo centrale nella vita sociale.
    Queste tre ragioni sostengono la convinzione che l’ambito privilegiato dell’animazione è quello della comunità locale o di un suo qualche sottoinsieme.

    Educabilità

    La caratterizzazione della persona umana come essere progettuale indica, come si è visto, che la stessa ha come suo compito principale quello di autocostruirsi, e che questa costruzione può avvenire solo all’interno di quei legami solidali che formano il Noi.
    Ancora una volta compare il profondo legame che esiste tra il soggetto e l’altro nel processo dinamico che costituisce l’essere umano.
    Ma non solo. La concezione dell’uomo come essere progettuale consente di affermare che l’educabilità è un aspetto qualificante della condizione umana.
    I vecchi pedagogisti dell’Ottocento amavano distinguere tra l’educazione intenzionale e quella delle circostanze, riconoscendo che la formazione della persona avviene di fatto sia all’interno delle attività educative in senso stretto, che sono sempre intenzionali, sia vivendo semplicemente le varie situazioni che costituiscono la quotidianità della stessa persona.
    La moderna filosofia dell’educazione non parla più di educazione delle circostanze, ma bensì di socializzazione.
    Ora, al di la di questo, rimane il fatto che la persona vive continuamente un processo di formazione che può farla evolvere, ma anche ristagnare se non regredire.
    Tutte le pratiche di animazione, qualunque sia il loro approccio teorico e il loro metodo, si fondano sulla convinzione dell’educabilità permanente delle persone. Alcuni manifestano questa convinzione privilegiando direttamente i processi educativi, magari mascherati da processi di sostegno dell’espressività, mentre altri privilegiando i processi di socializzazione della vita quotidiana.
    L’educabilità della persona postula poi sempre, per la caratteristica progettuale della persona, il rifiuto del determinismo sia biologico che ambientale, nel senso che pur riconoscendo l’influenza di questi due ordini di fattori nel processo della formazione umana, essi non eliminano la libertà degli individui nella scelta dell’orientamento esistenziale della propria realizzazione personale. Il non determinismo riguarda necessariamente anche l’azione dell’educazione. L’educando, infatti, non è morbida creta nelle mani dell’educatore, né il vaso che raccoglie ciò che l’educatore gli propone, perché come già ricordava S. Tommaso d’Aquino: «Il maestro non causa il lume intellettuale del discepolo, né direttamente le specie intelligibili, ma con il suo insegnamento stimola il discepolo perché, applicando le capacità del proprio intelletto, formi i concetti dei quali, dal di fuori, offre i segni». O, prima ancora: «Il maestro, nei riguardi del discepolo, non fa altro che proporgli dei segni o indicargli qualcosa con parole o con gesti». «L’insegnante esercita una funzione esteriore, come il medico che risana; e come la natura interiore è la principale causa della guarigione, così il lume interiore dell’intelletto è la principale causa del sapere»(10). Con parole attuali questo significa che il protagonista del processo educativo è sempre l’educando, e che l’educatore quindi non è un creatore, bensì un semplice stimolatore delle capacità progettuali attraverso l’offerta di strumenti, metodi e informazioni che mettono in grado lo stesso educando di strutturare e realizzare in modo più efficace il suo personale progetto umano.
    L’animazione sottolinea poi il fatto che l’azione educativa può essere estesa alla vita quotidiana delle persone aiutandole a dotarsi degli strumenti metodologici e concettuali che consentono loro, da un lato, di essere critiche e selettive nei confronti delle influenze che ricevono sia dall’ambiente che dal loro interno e, dall’altro lato, di agire su se stesse e l’ambiente per modificarli e, quindi, per cambiare le influenze che esercitano sul loro progetto di vita.
    Questa azione del rendere la persona nello stesso tempo protagonista attiva e spettatrice critica della scena sociale, oltre che della sua vita interiore, è uno degli elementi forti del processo dell’animazione sociale e comunitaria, oltre che di quella educativa.

    La speranza progettuale e l’apertura al trascendente

    L’animazione sin dal suo sorgere è sempre stata fedele a quello che con una espressione di Bloch è definibile come il «principio della speranza», in quanto ha sempre posto nell’orizzonte del suo agire l’utopia, intesa come sogno e come scommessa sul futuro.
    Un sogno e non una fantasticheria. Il sogno è diverso dalla fantasticheria perché esige dal sognatore la fedeltà ad esso, e quindi spesso è in grado di cambiargli la vita.
    Il sogno è sempre stato una dimensione familiare, oltre che ai profeti, agli eroi fondatori, ai rivoluzionari e ai santi, che da esso traevano l’orientamento e la fiducia nelle possibilità del loro agire quotidiano.
    Queste persone che hanno preso sul serio i loro sogni sono sempre state disposte a pagare il prezzo che la fedeltà ad essi richiedeva loro, e a impegnarsi sul serio per la loro realizzazione. Tutto questo senza disegni prometeici, senza abbandonarsi alla fiducia cieca negli strumenti in loro possesso, fossero essi di natura tecnica o semplicemente ideologica, ma con l’umiltà di chi è consapevole di possedere strumenti che nello stesso tempo sono poveri e deboli, fallibili ma anche in grado di cambiare, magari non nel breve periodo, la storia delle persone e del luogo a cui il sogno si applica.
    Questo vuol anche dire che possedere un principio di speranza richiede anche la consapevolezza che spesso sono i gesti poveri della vita quotidiana quelli in grado di introdurre nella storia delle persone un cambiamento e una redenzione della loro condizione, e questo perché non esistono situazioni umane, individuali o sociali, che possano essere definite come irredimibili, e perché spesso il cambiamento non è generato dalla potenza ma dall’autenticità e dall’amore.
    Ben diversa dal sogno è la fantasticheria, che non è nient’altro che quella consolazione offerta da una fuga dalla realtà in un mondo o in una situazione immaginaria, in cui la persona vive in modo simulato ciò che non può vivere nella sua vita quotidiana.
    Questa fuga offre sì una consolazione, ma rende la persona che la vive ancora più incapace di diventare protagonista del cambiamento della realtà in cui vive.
    Si potrebbe dire che il sogno sta alla fantasticheria come l’atto d’amore aperto alla generatività sta all’onanismo solitario e sterile.
    In questa ultima affermazione è indicata un’altra significativa qualità del sogno: quella di coinvolgere gli altri, attraverso un legame forte di solidarietà, se non di amore, nella sua realizzazione. La fantasticheria, al contrario, isola la persona negli abissi della sua solitaria impotenza.
    Ma perché il sogno possa dirsi compiutamente è anche necessario che l’uomo possa comprendere la sua vita da un punto che la oltrepassa, che supera i confini dell’utilità e della necessità che sono prodotti dalla struttura biologica, psicologica e sociale dell’uomo. Questo perché l’uomo non può dare senso al proprio mondo, alla propria cultura e alla propria vita se non possiede un punto di vista che oltrepassi il suo limite personale e quelli della sua cultura e del suo mondo. Solo se comprende se stesso, la cultura e il mondo attraverso le vie di una fede o di un pensiero trascendente, l’uomo può formulare un giudizio sulla verità e sulla coerenza della propria vita e della cultura che la disegna.
    Senza il respiro della trascendenza l’uomo è chiuso in un mondo in cui tutto può essere vero e tutto può essere falso, tutto può essere espresso e tutto può restare inespresso, ma nulla ha valore in sé, nulla ha un significato tale da consentirgli di porsi come riferimento etico per una scelta esistenziale orientata verso un obiettivo che sia oltre la frontiera dell’utilità.
    L’animazione senza il grido, l’invocazione alla trascendenza, rischia anch’essa di perdersi nel rumore delle cose che non sono, delle mode, o financo della violenza, di una ragione o scienza che in nome del potere distrugge la vita. Animare, dare la vita, è un dono che realizza se stesso in quanto si pone come dono di una realtà e di un amore che sono prima e dopo l’uomo e il suo mondo.
    Attraverso l’apertura alla trascendenza l’animazione vuole dire al giovane che la speranza non è un’illusione, ma l’unica vera realtà che si svela nella sua pienezza solo dopo che nella fatica del quotidiano si è stati redenti redimendo il mondo.

    LA RISPOSTA ALLE SFIDE DELL’ANIMAZIONE CULTURALE

    A fronte delle sfide prima elencate e della necessità della fedeltà alla concezione antropologica appena descritta, è possibile oggi fare animazione culturale? Sia chiaro che l’animazione culturale non è tutta l’animazione, ma la scelta di un modello di animazione, di un possibile modo tra i tanti di fare animazione. Ci sono però alcuni obiettivi che tutti i modelli di animazione almeno parzialmente, se non in toto, devono perseguire e che qui di seguito vengono elencati.

    Il sostegno alla conquista dell’identità personale

    Anche all’interno delle molteplicità egoiche, come le definiscono gli psicologi e dove una persona non ha più una identità monolitica ma poliedrica, l’aiuto ai ragazzi, agli adolescenti e ai giovani a rispondere alla domanda: «Chi sono io? Qual è la storia che abito? Qual è il mondo che abito?», rimane un obiettivo fondamentale dell’animazione.
    Al di là dei vari paradigmi della complessità sociale, la necessità di riconoscere e di sviluppare la propria identità rimane un compito educativo importante.
    Così come è importante sostenere nel giovane la percezione e la conquista del proprio nome.
    Forse mai come in questa epoca vi è tra i giovani la sete di conoscere il proprio nome.
    La via per comprendere la relazione tra identità e nome può essere aperta da una definizione del Rosmini secondo cui: «Identità è ciò che si conosce con un solo concetto». Questa definizione va oltre quelle normali che caratterizzano l’identità, e di cui il Tommaseo offre un sapiente esempio: «Condizione dell’oggetto che è, o si riconosce essere, il medesimo. Il rimanere nel medesimo stato», e che riguardano l’uguaglianza dell’oggetto con se stesso.
    La definizione del Rosmini va oltre perché pone come caratteristica peculiare del concetto di identità quell’unità profonda dotata di significato che la rende esprimibile con un unico concetto. Trasferendo questa definizione dal piano linguistico a quello del processo attraverso cui l’essere umano conquista il proprio modo personale, unico e irripetibile, di essere uomo nell’orizzonte del mondo, si può dire che essa permette di cogliere come l’identità umana non possa essere racchiusa solo nella capacità dell’individuo di riconoscersi come persona autonoma, radicalmente diversa e separata e nello stesso tempo dipendente, irrimediabilmente simile e unita agli altri uomini e alla natura che abita.
    Questa capacità umana, che è uno dei doni della coscienza, è una condizione necessaria dell’identità; tuttavia essa non è da sola sufficiente. Infatti è necessario, affinché esista identità, che lo specifico della persona che la rende uguale e diversa dalle altre persone si esprima in un nome. Questo nome, che non può pretendere di esprimere e descrivere la complessità della persona, deve però essere in grado di evocarne l’unità profonda e il senso globale che questa unità esprime.
    Una persona divisa, frammentata e incoerente, che non riesce a trovare un centro in cui far gravitare la fatica e il senso dei suoi giorni, delle sue ore e dei suoi attimi, non conosce il proprio nome, ma solo quello della sofferenza o dell’ottundimento, molto spesso piacevole, che accompagna la sua avventura nello spazio-tempo che ha come confine il mistero. Aiutare un giovane a costruire la propria identità personale significa perciò aiutarlo non solo a differenziarsi, a costruire il proprio Io, ma anche a scoprire il suo nome segreto che è alle porte del senso unico e irripetibile della sua vita.

    Il sostegno alla conquista del Noi

    C’è oggi una inflazione delle concezioni educative che riducono tutti i problemi alla relazionalità.
    Un testo recente afferma che il 95% delle relazioni interpersonali è metacomunicazione, emozione, affettività, e così via. E solo il 5% è contenuto.
    Allora non ci si stupisce più del fatto che in molte esperienze formative si faccia riferimento quasi esclusivamente alla dimensione emozionale, e che l’esperienza del significato, della verità, della bellezza estetica sia ridotta a qualcosa di marginale.
    È necessario, invece, riconoscere che il noi non è solo un fatto relazionale, in quanto è anche condivisione, un «dividere con», di scopi e di obiettivi fondati su di un sapere comune, su strumenti e mezzi comuni, che va al di là della dimensione relazionale. Una esperienza di chiesa fatta solo sulle relazioni è chiesa? Od occorre qualcosa d’altro?
    Questo qualcosa d’altro è dato sia dalla condivisione di significati comuni sia dalla capacità di confronto con significati diversi all’interno, naturalmente, di relazioni emotivamente positive. La costruzione di questa solidarietà, di questi legami più profondi, sia a livello di significato che emotivo, rimane un obiettivo centrale dell’animazione. La costruzione di questa solidarietà che tesse il Noi passa anche attraverso la ricostruzione dei «luoghi» intesi come spazi in cui particolari relazioni sono orientate da un patto intorno ai valori, alla costruzione di una storia e alla creazione di spazi in cui ognuno possa esprimere la propria differenza all’interno di un modo comune di produrre significato.

    L’apertura al trascendente

    Il riconoscimento della costitutività nella definizione dell’uomo dell’apertura al trascendente impone come diretta conseguenza che l’animazione deve essere anche uno stimolo all’apertura dei giovani al trascendente.
    E questo al di là del fatto che l’animazione avvenga in ambito religioso. Perché il trascendente è quel luogo dove è possibile ricomporre i frammenti, in cui cercare il senso unitario del proprio agire.
    È chiaro che accanto al trascendente religioso ve ne è uno di tipo laico, che può esprimersi a livello filosofico, politico, estetico, ecc.

    IL METODO

    Accanto alla conferma di questi obiettivi che per l’animazione culturale si possono considerare tradizionali, per quanto riguarda il metodo è necessario introdurre alcune innovazioni.

    Alcune «novità»

    La bassa soglia

    Riconoscere la bassa soglia nell’animazione significa riconoscere l’educabilità a partire dal frammento, significa cioè pensare che il frammento è un luogo di educazione dell’intera persona, che l’esperienza che la persona compie nel frammento può avere effetti su tutta la sua vita, anche se si tratta di una esperienza debole e marginale.
    Ma questo richiede che si assuma nel metodo dell’animazione la finitudine e la debolezza accanto al riconoscimento dei limiti delle situazioni.
    Riconoscere la bassa soglia vuol anche dire però creare dei luoghi educativi che consentano il transito dalla bassa all’alta soglia. La difficoltà di appartenenza del giovane non significa che non gli si debbano offrire luoghi in cui poter incontrare l’alta soglia dell’appartenenza forte.
    Il vecchio oratorio era un luogo che era sia a bassa che ad alta soglia. Infatti nell’oratorio non c’erano filtri di ingresso particolari, bastava che uno non bestemmiasse, che non utilizzasse espressioni verbali e fisiche violente, che non fregasse i soldi dalle tasche dei cappotti.
    Insomma c’erano due o tre regole di base rispettando le quali ognuno nell’oratorio poteva giocare a pallone, a calcio-balilla e partecipare alle varie attività.
    Questa era la soglia minima: chiunque ci poteva andare, magari anche se non andava a messa.
    Questo modo di appartenenza all’oratorio era indubbiamente di bassa soglia. Accanto a questa appartenenza, nello stesso luogo ve n’era un’altra che offriva la possibilità di fare un cammino più impegnativo, attraverso l’associazionismo e la formazione religiosa che richiedeva un livello più alto, addirittura vocazionale in alcuni luoghi.
    Nell’oratorio c’era, quindi, la possibilità di avere diverse soglie di appartenenza.
    Questo non significa riproporre il vecchio oratorio, ma solo far riflettere sulla necessità di strutturare interventi che, pur operando nell’identico spazio, offrano la possibilità di percorsi diversi, e che questi percorsi non siano tra loro impermeabili ma che consentano di passare dall’uno all’altro in ogni momento.
    Questa logica è l’unica che consente di affrontare un metodo che eviti di ridurre l’animazione alla riduzione del danno, ovvero ad un puro e semplice servizio allo status quo.
    Questo «sistema integrato delle soglie» è la risposta più efficace che l’animazione può offrire alla sfida della «bassa soglia».

    Il patto o la rete educativa

    Il secondo elemento di innovazione del metodo emerso nel seminario è quello del «patto». È cioè importante che chi fa animazione sia consapevole che il suo è un intervento limitato e parziale, che non è assolutamente in grado di dare una risposta all’insieme dei problemi educativi ed esistenziali che i giovani con cui opera vivono, e che se vuole veramente educare deve allearsi con altri operatori ed agenzie educative. In altre parole è necessario che egli operi per costruire un rete educativa integrata. Questo non significa che tutti debbano educare nello stesso modo, con gli stessi metodi e gli stessi obiettivi, ma solo che debbono condividere alcune finalità e riconoscere la necessità del sostenersi reciprocamente.
    D’altronde il lavoro di rete viene solitamente descritto come un approccio integrato, complesso o sistemico di lavoro sociale; volendolo invece definire per ciò che non è, si potrebbe caratterizzarlo principalmente come approccio non deterministico (o non unilineare).
    Per approccio deterministico si intende l’idea forte che dato un problema vi siano una causa e una soluzione.
    L’approccio di rete richiede invece a chi opera nell’animazione un cambiamento del suo atteggiamento.
    Infatti è necessario per prima cosa che egli sia disponibile ad accettare la parzialità e, quindi, i limiti del suo intervento. Questo significa la capacità di individuare tutte le risorse che, rispetto ai fini dell’animazione, sono presenti in un dato tempo e luogo sociale e di attivarle o, più semplicemente, di collegarsi con esse. Se né l’attivazione sinergica né il collegamento sono possibili, occorre perlomeno tenere conto della presenza e dell’azione che queste altre risorse educative, socializzanti ed inculturanti esercitano sui giovani con i quali si opera.
    Per seconda cosa è necessario che i giovani, che sono i soggetti del processo educativo dell’animazione, non siano considerati come passivi contenitori da riempire di aiuti e sostegni, come semplici utilizzatori e destinatari delle attività educative, ma come i veri protagonisti e gli artefici del cambiamento, in quanto essi non sono solo portatori di bisogni ma anche di desideri, di volontà, di capacità e di progetti che costituiscono la risorsa necessaria di ogni processo educativo.
    Pensare in questi termini ai giovani richiede anche, nella logica della rete, che si pensi ai legami sociali, alle appartenenze, al contesto culturale e sociale di provenienza di questi stessi giovani.
    Per terza cosa l’approccio del lavoro di rete richiede a chi anima la rinuncia alla fede nel tecnicismo, ovvero la rinuncia alla fantasia, certamente assai rassicurante, che esistano delle tecniche e degli strumenti adeguati per ogni genere di problema educativo.
    Per quarta cosa, anche se questo può sembrare paradossale, è necessario che chi anima sia consapevole del fatto che le reti non si costruiscono. L’idea di mettere in rete delle organizzazioni o dei gruppi o delle persone sulla base di un disegno più o meno astratto nasconde un delirio della volontà di potenza sotto le spoglie della tecnica del lavoro di rete. L’unica cosa infatti che possono fare gli animatori è quella di riconoscere le reti e i legami esistenti, prescindendo dai propri desideri di potenza che portano a ricercare di essere al centro della rete in qualità di creatori, di attivatori e di propulsori della stessa.
    La cosa che è invece possibile e che chi anima può quindi fare per creare la rete laddove non esiste, è quella di promuovere i processi che tendono a favorire la comunicazione tra le agenzie educative che sono portatrici delle risorse necessarie al raggiungimento degli obiettivi dell’animazione.
    Animare in rete vuol dire, infatti, rapportarsi alle altre agenzie educative, socializzanti e inculturanti, senza perdere la propria identità, senza confondersi con esse, ma nello stesso tempo elaborare un senso di appartenenza ad un progetto comune.
    L’animazione dei giovani può essere un progetto comune in cui diverse organizzazioni vi si riconoscono parzialmente pur mantenendo le proprie specifiche differenze.
    Occorre però ribadire, a scanso di equivoci, che la responsabilità prima del processo di animazione deve rimanere, saldamente, nelle mani dell’animatore.

    Il ruolo dell’adulto

    Oltre a questi due aspetti del metodo è emerso nel seminario dello scorso anno, anche se con una minore intensità, quello relativo al ruolo dell’adulto che veniva spesso qualificato con la parola «responsabilità». E questo non a caso, essendo «responsabilità» un termine tipico dell’essere adulto. Il problema è che in studi recenti si evidenzia la tendenza al manifestarsi nella vita sociale attuale di bambini maturi e di adulti infantili. Di adulti cioè che non sanno più assumersi la responsabilità sia verso se stessi che gli altri.
    Nella prima metà del Novecento l’infanzia era considerata il periodo dell’innocenza, per cui doveva essere protetta dalle realtà sgradevoli della vita. I discorsi sulla morte, sul sesso e sui problemi economici, ad esempio, non venivano fatti di fronte ai bambini.
    La diversità dell’infanzia era segnalata anche dal fatto che i bambini vestivano in modo diverso dagli adulti e che utilizzavano un linguaggio particolare. È chiaro che la segregazione delle età favoriva questa situazione.
    Negli ultimi cinquant’anni, invece, l’immagine e il ruolo dei bambini ha subito un significativo cambiamento in conseguenza del quale l’infanzia intesa come periodo protetto della vita è quasi scomparsa. I bambini, infatti, sembrano oggi meno infantili tanto rispetto al modo di vestire quanto al linguaggio e al modo di comportarsi.
    Parallelamente molti di coloro che sono diventati adulti in questi ultimi trent’anni parlano, si comportano e si vestono come bambini non cresciuti.
    È normale oggi vedere adulti con scarpe da tennis, jeans e T-shirt magari con l’immagine di Topolino o Paperino, magari accanto a bambini vestiti con capi firmati.
    Attraverso quello che spesso viene definito un comportamento informale gli adulti continuano a utilizzare una gestualità tipica della fanciullezza.
    Per quanto riguarda il linguaggio, non vi è solo la constatazione della presenza di un linguaggio adulto più infantile e di un linguaggio infantile più adulto, perché vi è anche la perdita di responsabilità nell’uso del linguaggio di molti adulti nei confronti dei bambini.
    Non è più oramai raro trovare adulti che parlano in modo gergale e dicendo parolacce di fronte ai bambini.
    In questa babele delle età il bambino viene sempre più trattato come un piccolo adulto e vengono di conseguenza eliminate le protezioni che lo separavano dalla ruvidezza della vita.
    Il risultato è quella di una emancipazione sempre più precoce, laddove esistono le condizioni socioeconomiche che lo consentono: in più di venti stati degli U.S.A. è consentito ai minorenni di emanciparsi dai genitori e vivere separati. Questo comporta anche l’assunzione in età sempre più precoci di comportamenti, come quelli sessuali, che erano riservati ad età più tarde. Una deriva preoccupante è l’abbassamento dell’età dei comportamenti criminali anche molto gravi, come confermano quotidianamente e drammaticamente le cronache. Nello stesso periodo di tempo gli adulti sono stati protagonisti di comportamenti complementari.
    I comportamenti degli adulti appartenenti a quella generazione che è stata chiamata «generazione dell’Io» sono sempre più caratterizzati da una minore disponibilità verso i figli e le nuove generazioni in particolare.
    La voglia dei genitori di sacrificarsi per i figli è in netto calo, così come quella di progettare il proprio futuro tenendo conto delle esigenze e delle aspirazioni dei figli.
    Sembra essere comparsa negli adulti una deriva dell’egocentrismo infantile sotto forma di una sorta di egoismo generazionale.
    Questa trasformazione del rapporto tra le età si inserisce nell’attuale cultura sociale in cui predomina il rifiuto di pensare ai giovani in termini di investimento verso il futuro, visto che ciò implica il compiere sacrifici e l’assunzione di responsabilità, che come si è visto, gli adulti non sono disponibili a compiere, essendo il loro orientamento esistenziale centrato sulla ricerca del proprio personale benessere e della propria autorealizzazione.
    Questo implica che oggi è necessario per l’animazione l’azione di rieducare gli adulti alla assunzione della responsabilità connessa alla propria condizione. Diventare adulti esige, infatti, l’assunzione di responsabilità verso le nuove generazioni.
    Tutto questo indica perciò il pensare a progetti di animazione che richiedano agli adulti una loro concreta assunzione di responsabilità verso le nuove generazioni.
    Un progetto di animazione di questo tipo, di fatto, persegue due obiettivi, perché è finalizzato all’educazione tanto ai giovani quanto agli adulti
    Questo significa anche che è giunto il momento di superare quella sorta di educazione segmentata in cui i giovani si prendono cura dei giovani, gli adulti di se stessi e in cui, di conseguenza, non c’è comunicazione intergenerazionale.
    Gli adulti debbono riprendere la propria responsabilità educativa se non vogliono permanere in una illusoria e patologica adolescenza. L’animazione deve per questo motivo inserire l’assunzione di responsabilità degli adulti nel proprio metodo.

    La multimedialità

    Come è stato spesso ricordato più volte nel seminario, il metodo dell’animazione per essere efficace nell’attuale contesto culturale e giovanile deve sviluppare un approccio comunicativo multimediale.
    L’animazione deve infatti aiutare i giovani ad integrare in un sistema unitario i vari linguaggi che utilizzano nella loro vita quotidiana. Questa integrazione però può avvenire solo intorno a due poli. L’uno che è costituito dall’acquisizione della competenza nell’uso dei vari linguaggi; l’altro dallo sviluppo della competenza a metacomunicare su tutti questi linguaggi attraverso la lingua.
    Questa seconda competenza nasce dalla constatazione che, affinché il sistema multimediale abbia un senso, chi lo utilizza deve possedere una lingua che gli consenta di analizzare criticamente i vari linguaggi che utilizza e consentirgli di condurli ad unità.
    Occorre ricordare che il sapere critico-razionale ha sede nella lingua, che è ancora il sistema linguistico più importante dell’essere umano, che, tra l’altro, è più direttamente legato alla coscienza. Se si vuole avere un approccio critico che consenta un minimo controllo razionale si deve usare la lingua.
    Questa considerazione pone un grosso problema sul come si debba sviluppare la multimedialità all’interno delle pratiche di animazione. Infatti molto spesso le pratiche di animazione si occupano solo di far acquisire nuovi linguaggi, ma senza il contemporaneo sviluppo della competenza linguistica a livello metacomunicativo.
    Il patto tra animazione e scuola, ad esempio, potrebbe giocare un ruolo fondamentale in questa direzione. Senza questo approccio critico si rischia di indebolire l’autonomia e la libertà delle persone.
    Ad esempio usare la musica senza un approccio critico significa solo rincorrere i giovani sul terreno dei loro consumi. Per l’animazione è invece importante aiutarli non solo a fare musica, ma anche a capirla distanziandosi criticamente da essa. Senza questa operazione non avviene lo sviluppo della umanità e della coscienza di sé dei giovani.

    Le riaffermazioni di alcuni punti chiave del metodo

    Accanto a quanto detto sinora, è necessario ricordare il percorso classico seguito dal metodo dell’animazione, ovvero la sequenza dei passi che l’animatore deve compiere, secondo un dato ordine temporale, per raggiungere lo scopo che l’intenzionalità dell’animazione ha individuato: il percorso che congiunge una data situazione di partenza con quella ipotizzata dagli obiettivi dell’animazione.

    Le tappe del percorso

    Le tappe intermedie di questo percorso sono quattro. Ognuna di queste tappe presuppone al proprio interno una particolare declinazione del metodo e delle strumentazioni particolari.
    Il metodo tuttavia non si esaurisce nella topografia del percorso, perché comprende anche le modalità che il viaggiatore-animatore deve seguire per compierlo.

    La prima tappa: la ricerca dell’equilibrio Io/Noi

    La prima tappa è quella prodotta dal cammino verso l’equilibrio dinamico tra l’Io e i Noi, in quanto senza di esso è impossibile attivare un processo in cui le persone vivano l’esperienza comune di gruppo e di comunità come mutuamente arricchente e solidale.
    Occorre infatti ricordare che le situazioni «collettive», se non stabilizzate dall’istituzionalizzazione o dallo sviluppo di interazioni esistenzialmente autentiche tra le persone, fondate sulla accoglienza e sulla fiducia reciproca, sul riconoscimento delle differenze personale come ricchezza per il gruppo e i rapporti interpersonali, sulla scoperta che lo sviluppo del proprio Io dipende dal riconoscimento della sua dipendenza dal Noi e su una realistica accettazione di se stessi e delle situazioni in cui si agisce, creano paure e angosce che innescano meccanismi di difesa che non consentono di utilizzare il potenziale offerto dalla situazione sociale.
    Questo fatto è ben illustrato da una favola di Schopenhauer, ripresa a suo tempo da Freud. La favola narra che, in una notte buia e fredda, alcuni porcospini scoprono che avvicinandosi hanno meno freddo. Si avvicinano sempre di più, ma, ahimè, sono porcospini e finisce che si pungono reciprocamente. Spaventati si ritraggono. Quando sono lontani rimpiangono però il calore perduto, e nel contempo temono di pungersi. Dopo un po’, vinta la paura, si riavvicinano, ma si ripungono. Vanno avanti in questo modo per un bel po’, sino a quando non scoprono una distanza che consente loro di scambiarsi reciprocamente il calore senza pungersi. La distanza a cui i porcospini si attestano alla fine, altro non è che o il prodotto dell’istituzione o della conquista di interazioni autentiche.
    In termini psicoanalitici si potrebbe dire che in questa favola sono rappresentate le due angosce primarie della psiche umana: l’angoscia persecutiva e l’angoscia depressiva. La prima rappresenta la paura dell’altro vissuto come oggetto cattivo (gli aculei del porcospino). La seconda è la paura di perdere l’altro inteso come oggetto buono (il calore). Ora sia l’istituzione che la conquista di interazioni autentiche garantiscono un tipo di relazione che consente alle persone di cooperare senza sperimentare l’esperienza di queste due forme di angoscia.
    Questo primo passo nel percorso dell’animazione richiede un lavoro sul gruppo e sulla comunità finalizzato all’aumento della fiducia e della conoscenza reciproca attraverso forme di interazione.
    Questo tipo di processo è quello che consente alle persone che lo vivono il raggiungimento della vera autonomia, che è fondata non sul rifiuto o sulla competizione ma sulla capacità di essere se stessi cooperando con l’altro.
    Molti strumenti e tecniche di animazione, specialmente riferite ai gruppi, sono state sviluppate per consentire il raggiungimento di questa tappa.
    Occorre però anche dire che molte forme di animazione di gruppo, fortemente orientate in senso psicosociale o psicoterapeutico, si fermano a questa prima tappa del percorso.

    La seconda tappa: la costituzione di una nuova soggettività sociale attraverso lo scambio culturale

    Una volta costituita la trama esistenziale del Noi, o anche in parallelo alla sua costituzione, il gruppo o la comunità sociale che la vivono debbono sviluppare lo scambio comunicativo a livello semiotico, ovvero dei significati che esprimono la cultura esistente o che la trasformano innovandola.
    Il gruppo è uno strumento privilegiato di animazione solo se compie questo secondo passo, cioè solo se non rimane un sistema relazionale ma diviene un crogiolo di senso, un luogo di costruzione di significati e interpretazione di sé e della realtà.
    Riprendendo la definizione di luogo data nelle «sfide», è necessario che il gruppo divenga «luogo antropologico», ovvero quello spazio umanizzato che – oltre a fornire un sistema relazionale particolare – collega l’individuo ad una storia, lo sostiene nel suo cammino identitario, e infine gli offre un principio di senso.
    In questo modo il gruppo può riscoprire le sue radici originarie e svolgere la sua funzione primaria connessa al suo essere il luogo ideale per agire sul sistema sociale. Allo stesso tempo vengono selezionate le sue caratteristiche non proprie: la chiusura in se stesso (un gruppo non si deve limitare ad agire sui suoi componenti, ma deve modificare i suoi membri mentre trasforma se stesso) e l’essere puramente terapeutico, in cui le persone si isolano, mentre il gruppo ha compiti sociali di trasformazione, di cambio, di conservazione e funzioni di azione sociale, economica e politica.
    La deriva verso il gruppo isolato in se stesso è stata senza dubbio accentuata dalla diffusione delle tecniche di animazione di gruppo di derivazione psicosociale e psicoterapeutica. Diffusione che, tra l’altro, ha contribuito ad una omologazione dei gruppi di animazione e a una conseguente forte riduzione della creatività nella pratica dell’animazione.
    L’apertura del gruppo dipende non da ultimo dalla sua capacità di sostenere l’acquisizione da parte dei suoi membri di un linguaggio fedele alle cose che nomina, ovvero se li educa a riappropriarsi dei significati profondi delle parole insieme alla capacità di «mordere» la realtà, di esprimerla attraverso un linguaggio capace non solo di esprimere significati astratti, ma di rinviare a una conoscenza concreta delle cose.
    L’apertura deve poi tradursi in una osmosi tra il gruppo e il mondo attraverso il frammento di mondo in cui il gruppo è storicamente collocato.
    Osmosi che fa sì che il mondo entri nel gruppo e che i membri di questi entrino nel mondo all’interno di una esperienza formativa di azione nella realtà culturale, sociale, economica e politica.
    La partecipazione alla conservazione o alla trasformazione della cultura sociale avviene attraverso questi processi di comunicazione del gruppo con l’ambiente, sociale in cui è inserito che, tra l’altro, costituiscono il gruppo quale soggetto sociale.

    La terza tappa:la capacità di agire progettualmente

    Se, come si è visto nella seconda tappa, l’apertura all’azione nel mondo sociale è una delle caratteristiche del gruppo di animazione non narcisistico, è essenziale che il metodo dell’animazione si fondi sulla capacità di far vivere esperienze in cui, in modo rigoroso, a partire da bisogni e interessi, interni al gruppo o presenti nella comunità, si elaborano dei progetti, si avviano delle azioni per realizzarli e si valutano i risultati raggiunti. Progetti e azioni in cui tutti i membri del gruppo, possono sperimentare, anche se in misura differenziata, un adeguato protagonismo.
    Il lavoro per progetti del metodo dell’animazione per essere efficace deve seguire un modello ermeneutico, un modello cioè centrato sull’interazione tra gli obiettivi che si vogliono perseguire con la situazione concreta del gruppo o della comunità in cui si agisce.
    Questa interazione è necessaria per la formulazione di obiettivi che siano realmente raggiungibili, e quindi per evitare che essi siano solo un libro dei sogni oppure che non siano coerenti con la situazione vissuta dai membri del gruppo o della comunità.
    Questo significa che è necessario una indagine sociale, fatta, laddove è possibile, con una vera e propria inchiesta, o più semplicemente con l’analisi secondaria delle fonti (studi e ricerche disponibili, statistiche sulla dispersione scolastica, sulle famiglie, ecc.) e con l’intervista a esperti e testimoni privilegiati locali.
    Il modello ermeneutico richiede che, dopo aver fatto interagire gli obiettivi con la situazione di partenza e averli perciò riformulati, siano tradotti in compiti. Questo passaggio è essenziale per passare dal piano teorico a quello operativo. Il compito, infatti, non è nient’altro che una definizione operativa, ovvero un insieme dettagliato di istruzioni che rende possibile individuare senza ambiguità un certo numero di «azioni» collocate nello spazio e nel tempo. In altre parole, un compito è l’individuazione di un insieme di attività che dovrebbero consentire al gruppo di animazione di raggiungere i suoi obiettivi.
    Nella definizione del compito è essenziale che essi tengano conto delle effettive risorse che il gruppo di animazione e la comunità locale hanno a disposizione per il raggiungimento degli obiettivi.
    Nella progettazione è infine importante prevedere forme, esse stesse formative, di valutazione del processo e dei risultati dell’azione del gruppo di animazione che vedano il coinvolgimento attivo dei membri del gruppo.
    Il metodo progettuale, protagonista e valutativo-critico è quello che distingue un gruppo di animazione da un semplice gruppo di lavoro sociale, politico o culturale.

    La quarta tappa: la rielaborazione dei significati

    Dopo aver agito è importante partire dalle esperienze vissute nelle tappe precedenti per fondare una ricerca che aiuti il gruppo o la comunità a scoprire «nuovi mondi possibili», ovvero a scoprire nuovi significati presenti nella realtà dell’azione, e quindi a sperimentare come la diversa lettura e combinazione degli elementi presenti nella realtà del gruppo e della comunità possono produrre una nuova realtà culturale, innovativa e creativa.
    È questa la fase in cui il gruppo o la comunità soggetto del processo di animazione può diventare un vero crogiolo di senso e divenire perciò in modo compiuto un luogo antropologico. In questa azione è molto importante il metodo del dialogo tra i soggetti, individuali e collettivi, che sono protagonisti del processo di animazione.
    Occorre però tenere presente quanto ricordava Lotman (11) circa il fatto che il valore del dialogo per l’innovazione culturale è dato soprattutto dalle parti della comunicazione che non si intersecano, ovvero da quelle parti del significato che non sono possedute da entrambi i comunicanti, ma da quelle che ognuno di essi possiede in modo esclusivo. In altre parole, ciò significa che l’informazione che ha il valore più elevato è quella che deriva dalla traduzione dell’intraducibile.
    Un altro elemento importante per il movimento dell’innovazione culturale è dato dalla capacità di far convivere all’interno di un rapporto di reciprocità i processi graduali e quelli esplosivi. Questo nonostante l’antitesi di questi due processi e, quindi, la loro reciproca inimicizia che fa sì che ognuno di essi tenda all’eliminazione dell’altro.
    La capacità di comprendere come questi due processi si succedano e intersechino nella storia umana è fondamentale per riuscire ad adattare la propria azione di ricerca dell’innovazione culturale alla fase della storia e alle caratteristiche della situazione sociale in cui si realizza.
    L’animazione come processo culturale utilizza perciò nel proprio metodo tanto l’esplosione, ovvero il cambio improvviso e impetuoso di un paradigma culturale, quanto l’azione della scoperta in un processo di crescita graduale degli elementi nuovi e nascosti del paradigma culturale in cui si opera.

    I modi del percorso

    Oltre che per le tappe del percorso, il metodo dell’animazione si caratterizza per quattro modelli di azione che danno al percorso una qualità affatto particolare.

    Un clima/setting di accoglienza

    Il primo modello riguarda il modo di porsi in relazione con le persone, i gruppi e le comunità in cui si sviluppa l’intervento di animazione, che può essere definito come quello di un’accoglienza incondizionata alimentata da una «filosofia della speranza».
    Questo tipo accoglienza si manifesta in tre dimensioni, ognuna delle quali è allo stesso tempo per un verso autosufficiente e per l’altro complementare alle altre due.
    * La prima è un’accoglienza a livello esistenziale che produca una conferma dell’altro nella sua identità di esistente unico e irripetibile, e manifesti quindi un vero amore per la sua alterità. Questo tipo di accoglienza deve generare un equilibrio tra il rispetto per l’autonomia dell’altro e l’interesse per la sua vita, le sue scelte e i suoi orientamenti esistenziali. Si tratta, in altre parole, dell’equilibrio della condivisione che rispetta la diversità, la libertà e l’autonomia delle persone e dei gruppi che condividono, ma è ben lontana dalle forme in cui si esprime la tolleranza indifferente.
    Questo tipo di accoglienza è tutt’altro che facile da realizzare, perché il suo essere un equilibrio tra fagocitazione e indifferenza ne richiede una continua verifica e ridefinizione.
    * La seconda è un’accoglienza dei «segni» di futuro di cui è portatrice ogni persona, ogni gruppo o ogni comunità, magari a livello latente.
    Tutte le situazioni umane, anche le più disperate, hanno al loro interno delle risorse che possono generare futuro, ovvero consentire una uscita evolutiva dal loro stato attuale.
    Questo tipo di accoglienza richiede la messa in atto dell’ascolto «sapienzale», ovvero di quell’ascolto che sa aiutare chi si esprime a scoprire le proprie risorse, energie e competenze nascoste.
    L’ascolto sapienzale per essere efficace deve quindi generare fiducia nelle persone e nei gruppi che sono i soggetti dell’intervento di animazione. Fiducia che porta questi stessi soggetti a scoprire che sono portatori di risorse e non solo di problemi.
    Questa fiducia è anche quella necessaria allo sviluppo della terza accoglienza: quella che rende reciproca la relazione di animazione e che rende il protagonismo ai suoi soggetti.
    La reciprocità significa che ogni soggetto della relazione di animazione riceve e dà, e non è quindi solo un utente più o meno passivo di un intervento educativo o sociale, perché egli è il protagonista primo del cambiamento della sua situazione personale e sociale.
    Accoglienza, quindi, della capacità di ogni persona, di ogni gruppo e di ogni comunità di essere, se lo vuole, un soggetto produttore del bene comune che permette la crescita dei singoli e delle organizzazioni sociali.

    La centratura sul piccolo gruppo e la comunità locale

    Il metodo dell’animazione propone un percorso che ha quattro fuochi: la persona, il piccolo gruppo, la comunità locale e il sistema sociale.
    Questo significa che chi fa animazione deve sempre calarsi in un contesto sociale, qualunque sia il «problema» o i soggetti con cui si intende fare un pezzo di strada, sia per individuare le risorse che sono presenti nel contesto e che possono contribuire alla soluzione del problema, sia perché i soggetti dell’intervento debbono diventare un soggetto sociale protagonista della soluzione del proprio problema.
    Il centro di questo processo sociale è costituito dal piccolo gruppo, che è la vera unità di lavoro. Un piccolo gruppo, come già detto, non chiuso in se stesso, ma in relazione con altri gruppi e con la comunità locale, che dall’animazione è sempre considerata un luogo che – se è vero che genera problemi – alimenta però anche le energie, offre le competenze e in cui possono essere elaborate quelle microprogettualità che innervano il processo di animazione.
    Comunità che è anche già un sottosistema importante del sistema sociale, e quindi un luogo da cui è possibile agire sulla struttura, sulle funzioni e sulla cultura dello stesso sistema sociale.
    Occorre tenere conto che il piccolo gruppo, oltre a promuovere il cambio personale degli individui che lo formano, può esercitare questa stessa azione nei confronti del sistema sociale, sia direttamente che attraverso la mediazione della comunità locale. Non è un caso che nella storia della civiltà umana molte trasformazioni, anche radicali, dei sistemi sociali siano state promosse e avviate all’interno di piccoli gruppi.
    La possibilità di questa azione di cambiamento che il gruppo può promuovere si fonda su un intreccio complesso di più fattori, alcuni dei quali riguardano gli individui mentre altri l’organizzazione e la cultura sociale.

    - I cambiamenti che l’animazione di gruppo produce a livello personale.
    Il processo di animazione di gruppo produce una presa di coscienza, negli individui che lo vivono, in grado di innescare un loro cambiamento personale. Di solito questo cambiamento si manifesta sia a livello dell’Io che a livello del ruolo sociale delle persone.
    I principali cambiamenti che il gruppo promuove a livello dell’Io di solito riguardano quattro distinte, anche se interrelate, dimensioni di questo.
    * La prima dimensione è costituita dall’incremento della consapevolezza che la persona sviluppa intorno ai suoi sentimenti, ai suoi modi di reagire in rapporto agli altri, e quindi dell’effetto che produce sugli altri. Si tratta di un aumento della sfera della coscienza che consente, tra l’altro, di prevedere con maggiore realismo l’effetto che l’agire della persona può produrre nelle relazioni sociali. Questa possibilità di previsione è fondamentale, ad esempio, in ogni azione di tipo politico, ovvero in ogni azione che richieda la creazione di un consenso nei confronti di una particolare idea o azione.
    * La seconda dimensione riguarda la capacità della persona di percepire e valutare in modo corretto i sentimenti e le reazioni degli altri. Accanto a questo, vi è l’aumento della consapevolezza dell’effetto che gli altri producono sulla persona, e questo le offre la possibilità di capire quanto dei suoi comportamenti e dei suoi atteggiamenti è un frutto personale autonomo e quanto un effetto prodotto dagli altri. Anche questa dimensione, oltre che provocare un beneficio a livello della autenticità esistenziale della persona che lo vive, aumenta la sua capacità di previsione e di governo dell’agire nelle relazioni che sono alla base di ogni azione sociale.
    * La terza dimensione è figlia del mutamento degli atteggiamenti verso se stessa e gli altri che il processo di presa di coscienza determina nella persona all’interno del gruppo. Infatti in seguito a questi mutamenti la persona diviene, normalmente, più tollerante, più attenta e rispettosa dei bisogni, dei valori, delle idee e delle opinioni dell’altro, oltre a sviluppare una maggiore capacità di vicinanza confidenziale e solidale. Questo mutamento è quello che maggiormente favorisce lo stabilirsi di rapporti di fiducia reciproca tra le persone fondate sulla solidarietà.
    * La quarta dimensione tocca più direttamente il savoir faire della persona, ovvero la sua abilità di sviluppare relazioni sociali più soddisfacenti ed efficaci. È noto che l’abilità relazionale è fondamentale in ogni azione di governo di sistemi, sia per acquisire il consenso sia per governare una qualsiasi organizzazione sociale, o semplicemente per influire sulle decisioni e sulla vita delle stesse organizzazioni.
    Come si vede, questi quattro cambiamenti nell’Io rendono la persona più consapevole e intelligente nell’agire con gli altri, sia all’interno di relazioni duali che di sistemi relazionali tipici delle organizzazioni sociali.

    - I cambiamenti che l’animazione produce a livello del ruolo sociale.
    Le principali dimensioni che l’animazione di gruppo promuove a livello della relazione della persona con i ruoli sociali che esercita sono tre.
    * La prima riguarda l’accrescimento della consapevolezza da parte della persona intorno al proprio ruolo sociale, alle responsabilità che esso comporta, agli effetti che il suo esercizio provoca nell’organizzazione, ai condizionamenti che subisce, dei possibili cambiamenti che esso può promuovere.
    Una buona presa di coscienza e un’esperienza di gruppo possono infatti aiutare la persona ad allargare la sfera della sua coscienza e della sua responsabilità alla dimensione organizzativa del suo agire, ad assumere, in altre parole, accanto alla morale personale la morale sociale. Il termine morale sociale indica qui, semplicemente, la valutazione critica delle azioni dell’organismo sociale di cui si fa parte e del proprio contributo agli stessi. Quante volte persone moralmente corrette a livello dei loro comportamenti individuali, contribuiscono, magari con scarsa consapevolezza, a far sì che l’organizzazione di cui fanno parte persegua fini moralmente scorretti.
    Assumere consapevolezza e responsabilità intorno al proprio ruolo vuol anche dire essere più attenti e vigilanti nei confronti dei sistemi sociali di cui si fa parte e, quindi, a valutare se stessi anche come parti funzionali degli stessi sistemi.
    Di solito questa è una potente spinta all’azione degli individui verso il cambio sociale evolutivo.
    * La seconda dimensione riguarda l’evoluzione della capacità di interrelare in modo più significativo il proprio ruolo con gli altri, di assumere responsabilità e consapevolezza non solo del proprio ruolo personale ma anche nei confronti di quelli degli altri dell’organizzazione sociale di cui si fa parte. È la percezione della rete in cui il proprio ruolo è inserito, delle mutue influenze e della responsabilità che questo determina non solo nei confronti del proprio ruolo ma nei confronti degli altri ruoli. Significa il superamento della dimensione narcisistico-soggettiva che ogni persona può sviluppare e che isola il senso dell’agire a quello limitato del proprio ruolo, astraendolo dalla rete di comunicazione di cui è una parte solidale.
    * La terza dimensione riguarda invece l’acquisizione, che una buona socializzazione attraverso il gruppo fa raggiungere, di un migliore savoir faire nelle relazioni funzionali che si hanno all’interno dell’organizzazione con i colleghi, i superiori e i subordinati.
    Il savoir faire non va inteso come una sorta di galateo, di bon ton, ma solo come la capacità di ottimizzare le relazioni verso l’ottenimento della massima funzionalità del proprio ruolo. È la capacità di gestire le relazioni umane all’interno di un’organizzazione al miglior livello possibile, in relazione naturalmente alle caratteristiche dell’organizzazione e della persona.
    Queste tre dimensioni sono quelle che rendono la persona non solo più efficace nella gestione del suo ruolo, ma anche più libera rispetto al ruolo stesso, riducendo l’influenza di questo sulla sua personalità. Questa quota maggiore di libertà e consapevolezza rispetto al proprio ruolo è quella che può essere utilizzata per la promozione del cambiamento senza provocare eccessivi traumi e resistenze nell’organizzazione in cui si realizza.

    - Fattori del cambio di gruppo che sono alla base del cambio nella comunità e nel sistema sociale.
    Accanto alla crescita della persona, rispetto all’Io e alla capacità di giocare il proprio ruolo, si ha la maturazione del gruppo in quanto parte del sistema sociale. Questa maturazione del gruppo produce solitamente i propri effetti sulle organizzazioni sociali ad almeno tre livelli.
    * Il primo livello è relativo allo sviluppo e alla diffusione nella comunità locale, al cui interno vive il gruppo, della consapevolezza della dimensione organizzativa di molti problemi che la comunità vive quotidianamente e che, sovente, sono imputati erroneamente alle persone che la formano. Questa diffusione di consapevolezza è il frutto finale del percorso di maturazione di gruppo in cui si sperimenta la ridefinizione della propria organizzazione per renderla più funzionale agli obiettivi. In questa fase il gruppo sviluppa una vera e propria scoperta della dimensione organizzativa della vita sociale.
    * Il secondo livello riguarda l’acquisizione della consapevolezza da parte del gruppo del proprio potere nei confronti della comunità e del sistema sociale in cui opera. Questo, tra l’altro, comporta la scoperta della maggiore efficacia dei processi di cambiamento proposti dai piccoli gruppi rispetto a quelli proposti dai singoli individui. Questo fatto è tutt’altro che banale, in quanto, in una cultura sociale individualistica, fa scoprire il valore dell’agire con altri in modo cooperativo. Scoperta nella quale la persona sperimenta la componente superadditiva del gruppo rispetto alle risorse e alle capacità degli individui.
    * Il terzo livello, infine, riguarda la maturazione nel gruppo di un forte realismo, ovvero della capacità di porsi in modo tatticamente e strategicamente corretto nei confronti delle azioni necessarie alla promozione e alla realizzazione del cambiamento nella comunità locale. Questo significa acquisire la capacità di valutare, ad esempio:
    – quali sono le persone chiave della comunità di cui è necessario ottenere l’appoggio;
    – il rischio massimo che i componenti del gruppo sono in grado, realisticamente, di correre. Se non si tiene conto di questo, e si supera la soglia di rischio, l’azione ha bassissime probabilità di ottenere un qualche successo, oltre a provocare un clima di insicurezza, di instabilità e di tensione sia nella comunità locale che nel gruppo;
    – se la cultura che è alla base del cambiamento che si vuole ottenere nella comunità è compatibile con quella del sistema sociale in cui questo è inserito. Una forte dissonanza rende il cambiamento molto più problematico e diminuisce le possibilità che esso possa stabilizzarsi. Purtroppo, come dice G. Berger, «non tutto è possibile sempre e comunque».

    - Il gruppo ed il cambiamento culturale.
    Nell’animazione del gruppo, come si è appena visto, si intrecciano due tipi di cambiamento: l’uno personale e l’altro gruppale. Entrambi questi cambiamenti hanno alla base l’acquisizione di un livello più esteso e profondo di comunicazione. In un caso, della comunicazione tra le persone; nell’altro caso, della comunicazione del gruppo con gli altri gruppi, l’organismo sociale e l’ambiente.
    Come si è detto, ogni comunicazione modifica la cultura sociale che la rende possibile, specialmente quando la comunicazione segue la direzione periferia › centro.
    Questo significa che il processo di animazione di gruppo, proprio perché fondato sullo sviluppo delle interazioni, è di fatto anche un’azione, modesta sin che si vuole ma reale, di trasformazione della cultura sociale.
    Non sono solo i grandi processi comunicativi, quelli cioè che avvengono nei luoghi centrali e più visibili del sistema sociale o nei mass-media, quelli che trasformano la cultura sociale, ma anche, se non soprattutto, quelli che avvengono alla periferia del sistema sociale, che depositano nella cultura sociale i germi del cambiamento evolutivo.
    Questo significa che ogni gruppo che matura, ogni comunità locale che evolve grazie allo sviluppo delle interazioni e della comunicazione al suo interno, di fatto offre un contributo significativo al cambio della cultura sociale. Anche se tale contributo è, apparentemente, invisibile ed è giudicato irrilevante dalla cultura di massa.
    L’animazione del gruppo e i cambiamenti che il gruppo propone alla comunità locale di cui è parte, manifestano anche i loro riflessi sulla cultura sociale, specialmente quando promuovono processi di comunicazione verso il centro del sistema, attraverso azioni di tipo o politico o semplicemente di tutela e di rappresentanza di una data realtà sociale o di un dato insieme di idee e di valori.
    Quando un gruppo opera all’interno di un tessuto associativo, ha molte più chances di trasferire gli effetti della propria azione di animazione sulla cultura sociale, a condizione, naturalmente, che l’associazione sia sufficientemente partecipativa e democratica.
    Come si vede, anche se molto più debole e con effetti nel medio periodo, l’animazione del gruppo può contribuire al cambio sociale, attraverso la via del cambiamento della cultura della comunità locale. È questo un piccolo dato, importante però, perché è un esempio del contributo che le relazioni umane autentiche della vita quotidiana possono offrire all’evoluzione del sistema sociale, che non è determinata solo dai centri di potere economico, politico e culturale, ma anche dai modi di vita e di relazione quotidiani. Questo contributo non va certamente enfatizzato, ma nemmeno sottovalutato.

    La valutazione come feed-back del processo di animazione

    L’agire proposto dal metodo dell’animazione è caratterizzato dal suo continuo confrontarsi con gli effetti reali che produce nelle persone, nella comunità locale e nel sistema sociale.
    Questo confronto è reso possibile solo dall’esistenza di un canale di retroazione e di un sistema critico di analisi delle informazioni che questo canale veicola. In altre parole, questo vuol dire che l’animazione presuppone l’esistenza di una valutazione che accompagni tutto il suo svolgersi e consenta di monitorare continuamente la sua azione.
    Tuttavia nel metodo dell’animazione la valutazione non è solo un gesto «tecnico», svolto dall’animatore o da specialisti, ma è un processo formativo essa stessa, che coinvolge attivamente i protagonisti dell’azione dell’animazione.
    La valutazione è da questo punto di vista una sorta di ricerca-azione che l’animazione promuove, e che deve consentire agli «animandi» di divenire consapevoli degli effetti che le attività che svolgono hanno su di loro e sull’ambiente sociale in cui sono inseriti.
    Si potrebbe quasi dire che la valutazione nell’animazione è lo strumento dell’educazione al controllo critico e consapevole dei soggetti che la vivono, un modo cioè per renderli capaci di percepire gli effetti diretti e indiretti delle azioni che promuovono o che subiscono all’interno delle dinamiche del gruppo, della comunità e del sistema sociale in cui sono inseriti.
    Occorre però tenere conto che la valutazione è una attività complessa in cui entrano in gioco, accanto alle componenti cognitive o razionali, altre componenti di natura affettiva e esistenziale. Questo significa che è sempre difficile raggiungere in essa la piena neutralità e obiettività. D’altronde la valutazione viene fatta da soggetti che sono sempre e comunque portatori di modelli e paradigmi culturali, linguaggi, precomprensioni, pregiudizi e sentimenti che rendono la realtà che osservano e valutano per alcuni aspetti diversa da quella di tutti gli altri osservatori.
    Questo non significa che sia impossibile giungere a una valutazione che possa essere condivisa da osservatori diversi, ma solo che questo non è un processo semplice, né tantomeno naturale, e che richiede una cura e una attenzione affatto particolari.
    Se a questo si aggiunge che nell’animazione la valutazione riguarda i cambiamenti sperimentati dalle persone, dai gruppi e dalle comunità che hanno vissuto il percorso di animazione, il problema della valutazione si fa ancora più intricato.
    Questo perché la possibilità di osservare dall’esterno cambiamenti che riguardano l’interiorità delle persone è limitatissima, e di conseguenza anche i gruppi e le comunità sono scarsamente scrutabili. Al massimo si possono intuire o dedurre indirettamente i cambiamenti da alcuni particolari comportamenti e atteggiamenti delle persone che giocano il ruolo di indicatori parziali e indiretti.
    Questo significa che gli obiettivi dell’animazione, in quanto interiorizzazione di orientamenti di valore, sono soggetti a questa limitata scrutabilità, e che il loro conseguimento quindi può essere valutato solo indirettamente e in modo parziale e poco preciso.
    Nonostante le difficoltà, la valutazione dell’azione dell’animazione è comunque ineliminabile, sia perché essa consente di verificare il metodo utilizzato, di migliorarlo o di abbandonarlo se dovesse rivelarsi inefficace, sia perché consente alle persone, ai gruppi e alla comunità locale di ricevere un feedback che li aiuta a conoscere con realismo quali sono state le trasformazioni personali, sociali e culturali che il processo animativo ha indotto in loro.
    Esistono in circolazione vari modelli di valutazione che muovono da premesse epistemologiche assai diverse. Infatti si va dai modelli che sono fondati sulla sicurezza, molto positivistica, che gli effetti di un intervento sociale possano essere misurati utilizzando strumenti adeguati, a quelli che sono interamente basati sull’esperienza del valutatore, sulla sua capacità di intuizione e sulla sua empatia, ovvero sulla sua capacità di comprendere ciò che la persona che sta osservando sperimenta. Vi sono poi modelli che richiedono una valutazione intersoggettiva, ovvero l’accordo tra le valutazioni espresse da un certo numero di valutatori differenti.
    Accanto a questi vi è però quello tipico dell’animazione, che coinvolge gli stessi soggetti e la comunità locale nella valutazione realizzata con le modalità proprie della ricerca-azione.

    Un esercizio attivo di democrazia

    L’esercizio della democrazia è il punto di partenza e il punto di arrivo dell’animazione, sia che si svolga in un ambito prettamente educativo che in un ambito sociale. Per questo è necessario che sin dall’inizio il percorso dell’animazione ponga in essere, evidenziandola, la sua scommessa democratica, e quindi che «restituisca» ai soggetti dell’animazione e alla comunità locale quel potere che tende a concentrarsi nelle mani dell’animatore.
    Il protagonismo a cui stimola il metodo dell’animazione alimenta la scommessa democratica, offrendo ai soggetti della stessa spazi per partecipare in prima persona e non solo per lasciarsi passivamente coinvolgere.
    * Il primo esercizio di democrazia avviene all’interno del piccolo gruppo, con la partecipazione democratica alle decisioni, con il controllo degli stili di leadership, con la negoziazione continua della diversità verso l’obiettivo della cooperazione, con l’emersione delle strutture informali e occulte che legano in trame costringenti i membri del gruppo.
    * Il secondo esercizio lo si realizza nella comunità locale partecipando alla istituzionalizzazione di procedure di partecipazione e di decisione definite e certe, anche se flessibili, agibili e controllabili da parte di chi vuole esercitare una cittadinanza attiva.
    * Il terzo esercizio di democrazia è dato dall’offerta che i gruppi di animazione fanno alla comunità locale perché si riappropri della propria vita, uscendo dalla passività rassegnata in cui spesso cade e che si manifesta anche con la delega agli «esperti» e ai tecnici, con l’accettazione di forme di rappresentanza puramente formali e con la sottomissione alle trame dei giochi di potere che, seppur invisibili, condizionano pesantemente la sua vita.
    L’azione sulla comunità perché riscopra la democrazia fa parte dei giochi di animazione da parte dei gruppi che non si rinchiudono narcisisticamente su se stessi.

    Alcuni flash per concludere

    * Anche se spesso l’animazione evoca il movimento, l’attività, il dinamismo, è importante riaffermare che il primo e autentico significato dell’animazione sta nell’espressione «dare anima».
    Dare anima, tra l’altro, è l’unica via che consente di scoprire ciò che dà significato al rapporto tra persistenza e cambiamento, perché permette di applicare a questo stesso rapporto la metafora del viaggio.
    Il viaggio non è lo spostarsi ma il confrontare se stessi in luoghi, situazioni, mondi, realtà, esperienze nuove; è riconoscere che, al di là della diversità di sé che si scopre in questi confronti, vi è qualcosa di sé che rimane costante nel tempo.
    È riconoscere la propria identità più profonda. L’animazione può accettare la sfida del moto, del dinamismo, ma solo come viaggio in cui l’animando scopre la sua anima, ciò che lo rende unico, irripetibile e perciò diverso da tutti gli altri.

    * L’animazione è anche un aiuto a riscoprire il fascino di Dio oltre l’esperienza del tremendo. È un aiuto a scoprire la presenza di Dio anche negli abissi del dolore, che sono purtroppo presenti nella condizione umana, e non solo nelle promesse di felicità. È questa una sfida tipica dell’animazione.
    L’animazione infatti ha sempre raccolto la sfida del cercare il volto di Dio anche là dove tutto sembra negarne la presenza. E questa è una sfida impegnativa anche perché oggi si tende a cercare il volto di Dio là dove tutto è sereno, felice e tranquillo, e non si è più capaci di vederlo laddove c’è la sofferenza.

    * L’animazione è anche educazione a vivere l’incertezza, a vivere con la bisaccia sempre pronta. È la capacità di vivere l’incertezza sapendo che il cammino di ogni persona è soggetto a un divenire la cui logica ha sede nel mistero. È la capacità di dire: io non so che cosa mi capiterà fra un istante, ma so che ciò che mi capiterà riuscirò a gestirlo in modo che vada nella direzione dell’autentico compimento della mia vita e del disegno misterioso che la tesse.
    La capacità di vivere l’incertezza con la speranza di poter in qualche modo governare la rotta della vita è uno degli obiettivi dell’animazione. E a questa capacità non ci si arriva con l’elogio dell’indeterminatezza, ma attraverso quella profonda sicurezza che nasce in chi conosce il luogo da cui parte e ha un progetto circa il luogo in cui vuole arrivare. Chi non sa da dove parte e dove vuole arrivare non può vivere l’incertezza in modo produttivo.
    L’animazione è dare ai sogni la consistenza della realtà, è dare ai sogni la concretezza della storia. Una cosa che affascina di Don Bosco è la sua capacità di tradurre in realtà i sogni. Lui faceva dei sogni molto belli, poi si svegliava e cominciava a lavorare per realizzare quegli stessi sogni. E li realizzava!
    Per questa sua capacità di essere fedele ai sogni qualcuno diceva che Don Bosco se li inventava. Invece egli era veramente capace di sognare e di vivere la fragilità dei sogni traducendola in progetto di vita. Educare al sé non è educare alla fuga intesa come evasione dal quotidiano, ma educare a dare ai sogni la concretezza del reale, a far vivere l’esperienza che i sogni non muoiono all’alba, ma che essi continuano durante la vita di veglia del giorno.

    * Nell’animazione è anche presente l’educazione a scommettere che c’è Qualcuno che ci vuole bene, e perciò a far scoprire, nell’esperienza concreta quotidiana, la fonte dell’amore incondizionato che c’è dietro le manifestazioni d’amore che il giovane incontra e ha incontrato nella sua vita.

    Concludendo, si può ricordare che l’animazione richiede il possesso di una autentica professionalità. E questo non solo perché l’animazione oggi è già per molte persone una professione che alcune regioni hanno già regolamentato, ma proprio per la complessità della sua azione. In Francia, ad esempio, esiste già da molti anni la figura, giuridicamente definita, dell’animatore socioculturale, e vi sono corsi universitari per la preparazione a questa professione. Però nella stessa Francia ci sono anche, accanto agli animatori professionali, gli animatori volontari, anch’essi riconosciuti a livello giuridico, e per i quali è prevista una formazione permanente
    Questo indica che se anche l’animatore è un volontario, egli deve essere altrettanto preparato che il professionista. Infatti fare il volontario non significa abbassare la soglia delle competenze dell’animatore, ma solo il fatto che lo si fa gratuitamente.
    La formazione dell’animatore deve essere sempre altamente professionale, sia che uno scelga di fare questa attività per mestiere sia per volontariato.
    Animatori non ci si può improvvisare, perché i tipi di problemi che l’animazione deve affrontare non possono essere risolti con le pacche sulle spalle, con l’improvvisazione o con il buon senso. È chiaro che il buon senso ci vuole sempre, ma in alcuni casi è un di più e non l’essenziale.

     

    NOTE

    1 Augè M., Non Luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1996, p. 51.
    2 Meyrowitz J., Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1993.
    3 Von Uexkull J., Theoretische Biologie, Berlin 1938; Umwelt und Innenwelt der Tiere, Berlin 1921.
    4 Cassirer E., Saggio sull’uomo, Armando, Roma 1968, p. 79.
    5 Gehlen A., L’uomo: la sua natura ed il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983, p. 43.
    6 Berger P.L., Luckmann T., La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969, p. 76.
    7 Lotman J.M., La cultura e l’esplosione, Feltrinelli, Milano 1993, p. 10.
    8 Ivi, p. 11.
    9 Lotman J.M., Testo e Contesto, Semiotica dell’Arte e della Cultura, Laterza, Bari 1980.
    10 S. Tommaso D’Aquino, De Magistro, Armando, Roma 1965, p. 113, 119, 123.
    11 Lotman J. M., La cultura e l’esplosione, Feltrinelli, Milano 1993, p. 15.


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