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    9. IL GRUPPO GIOVANILE

    COME ESPERIENZA

    DI CHIESA

    Riccardo Tonelli 

     

    INDICE

    1. GRUPPO-COMUNITÀ-ASSOCIAZIONISMO: IL QUADRO DI RIFERIMENTO

    1.1. Cosa è gruppo
    1.2. Gruppo associazione-movimento
    1.3. Gruppo comunità
    1.4. Gruppo giovanile

    2. IL GRUPPO ECCLESIALE

    2.1. Chiesa, sacramento di salvezza

    2.2. Quale concreta comunità è la Chiesa a cui appartenere?

    2.3. La comunità ecclesiale come “condizione della fede”
    Che significa” condizione”?
    Questa comunità per molti giovani non può essere che il gruppo

    2.4 Il gruppo ecclesiale è chiesa
    Cosa si intende per “mediazione”
    Il rapporto visibile-mistero nella logica della trasparenza
    Il gruppo giovanile come mediazione significativa di Chiesa

    2.5 L' ecclesialità tra “signa regni” e “signa ecclesiae”
    Criteri di ecclesialità
    Quali gruppi possono essere ecclesiali?

    3. PROSPETTIVE DI MATURITÀ DI GRUPPO

    3. 1. Maturità in situazione
    Una maturità con una sua consistenza oggettiva
    Una maturità in situazione di gruppo

    3.2. La coesione come stile di aggregazione
    Le variabili che influenzano la coesione di gruppo
    Criteri di ecclesialità e coesione di gruppo
    Un progetto: la coesione tra uniti e differenziazione
    La coesione come aggregazione

    3.3. La prassi del gruppo ecclesiale
    Il gruppo tra crisi di identità e crisi di rilevanza
    Controllare gli “assunti di base»
    Verso una proposta

    4. VERSO LA COMUNITÀ?

    4.1. Transazione: gruppo-persona-istituzioni
    Transazione come relazione
    Un modello di transazione

    4.2. Verso la comunità

    Bibliografia

    ^ Il quaderno sceglie il “gruppo giovanile” come principale luogo di esperienza ecclesiale ed evangelizzazione delle nuove generazioni. La scelta non va presa alla leggera, anche perché da più parti la si guarda con un certo scetticismo. Qualcuno comincia a dire, e neanche a voce bassa, che la stagione del gruppo è finita e che è ora di fare largo alla comunità, smettendola di separare i giovani dagli adulti. Altri, che pur credono alla scelta pastorale del gruppo, sono soffocati dai problemi dei loro gruppi e si chiedono se non convenga pensare ad altre strategie pastorali.
    ^ Di fronte a questi fatti il quaderno ripropone la sua scelta.
    A quanti sostengono che la stagione del gruppo giovanile è finita, il quaderno offre una riflessione teologico pastorale che non solo ristabilisce il “permesso” di organizzare gruppi, ma anzi indica nel gruppo il luogo privilegiato di esperienza ecclesiale per i giovani.
    A quanti invece sono stanchi e soffocati dai problemi dei loro gruppi il quaderno offre una boccata di ossigeno e un appello alla speranza. L'appello alla speranza non si limita ad un generico incoraggiamento. Il quaderno offre “strumenti di lavoro” per passare all'azione. In tre direzioni:
    - strumenti per analizzare la situazione dei gruppi giovanili ecclesiali, precisando prima le realtà e i termini in gioco, rilevando poi una serie di interrogativi;
    - strumenti per riflettere, alla luce della teologia pastorale, sul senso della presenza del gruppo giovanile nella comunità ecclesiale e sulle scelte conseguenti;
    - strumenti per una “svolta educativa”: non solo vengono elencati problemi ma anche ipotesi di soluzione verso una “maturità” del gruppo giovanile ecclesiale.
    ^ Per comprendere lo scopo del quaderno occorre collocarlo rispetto agli altri. Fa parte della seconda serie , Animazione ed educazione alla fede” dove viene delineata la proposta educativa e pastorale. Viene dopo il Q8 “Itinerario di educazione dei giovani alla fede” e ne è un approfondimento per quanto riguarda il luogo in cui vivere l’itinerario e la maturazione della dimensione ecclesiale dell’esperienza cristiana. Come approfondimento di un'area dell’itinerario si accompagna al Q10 che si sofferma sulla presenza e ruolo della parola di Dio nel cammino di fede, e al Q11 che offre una originale proposta morale come luogo di sintesi tra esperienza umana e annuncio cristiano.
    ^ Può essere utile accennare al “metodo di ricerca”, che il quaderno, anche senza dirlo, utilizza. Non è un quaderno di dinamica di gruppo e neppure di animazione culturale. Alla scelta del gruppo arriva in modo autonomo, ragionando in termini teologici. Tuttavia una volta fatta la scelta del gruppo, il quaderno attiva un intenso dialogo tra dinamica di gruppo (e animazione culturale) e esperienza ecclesiale. Il continuo “va e vieni”, tra questi due settori di ricerca non deve meravigliare, ma neppure confondere. È il metodo dell'ermeneutica e fa parte del bagaglio metodologico del progetto dei quaderni. Come tale va recepito, compreso e utilizzato in tutta la sua ricchezza senza paura per la complessità che a tratti si impone. Per un approfondimento sia sul metodo di lavoro che sulle varie parti del quaderno si veda il libro di Riccardo Tonelli, Gruppi giovanili e esperienza di Chiesa, LAS Roma 1983, pp. 96. Queste pagine ne riprendono alcuni capitoli in modo sintetico. Per un quadro più articolato si rimanda al volume che pu6 essere considerato una “guida” al quaderno.


    1. GRUPPO – COMUNITÀ – ASSOCIAZIONISMO: IL QUADRO DI RIFERIMENTO

    Da molti anni si sta parlando di gruppo. Molte acquisizioni sono ormai pacifiche nella riflessione e nella prassi di coloro che vivono l'affascinante vocazione di aiutare i giovani a raggiungere una matura vita cristiana. Ci si rende conto, nello stesso tempo, che non tutti i problemi sono stati risolti e che la traduzione nella prassi ha ridimensionato non poche affermazioni che sembravano pacifiche. Tutto questo è segno che non possiamo continuare a ripetere le cose, ignorando il nuovo che sta emergendo nella condizione giovanile e nell'autoconsapevolezza ecclesiale.
    Provocati da questo “nuovo”, vogliamo fare il punto sulle acquisizioni, rileggerle alla luce delle istanze attuali e aprirci cosi verso strategie p1 concrete. In questo nostro sforzo siamo sostenuti e sollecitati dalla importante “nota pastorale” della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti, associazioni (1981).
    Certo, i problemi aperti sono moltissimi. Per non scivolare nel generico, dobbiamo isolarne alcuni. Quelli che intendiamo affrontare possono essere sintetizzati attorno a questo interrogativo: quali sono le condizioni da assicurare perché il gruppo possa risultare veramente luogo di esperienza ecclesiale per i giovani d'oggi?
    L’interrogativo richiama alcune grosse questioni: l'importanza del senso di appartenenza ecclesiale nella pastorale giovanile, la sua problematicità pratica, la relativa funzione del gruppo. Non intendiamo affrontarle direttamente, per non portare la nostra riflessione troppo lontano. Le riprenderemo, di volta in volta, quando l’occasione si presenterà favorevole, senza distrarci troppo dal filo della nostra ricerca.
    Non ci basta però aver isolato alcuni problemi fra i tanti. Il rischio della genericità è ancora incombente. Viviamo in una situazione complessa. La complessità attraversa tutti i problemi che stiamo affrontando. Riesce disagevole fare ordine e scegliere prospettive, se non si avanzano delle ipotesi unitarie. D'altra parte la tensione all'unitarietà non può risultare a scapito della complessità. C’è una via di uscita? Crediamo di si. E la tentiamo utilizzando la categoria del “tema generatore”. Chiamiamo “tema generatore” quel suggerimento tematico che stimiamo capace di organizzare unitariamente le ragioni della crisi e, di conseguenza, gli interventi prioritari per risolverla. Il “tema generatore” non è l'unica ragione della crisi né la sua unica soluzione. Esprime però il punto più caldo, quasi la “sfida” più rilevante. E suggerisce conseguentemente la categoria prioritaria in fase progettativa, quella che dovrebbe coagulare tutte le energie. Nel quaderno suggeriamo due “temi generatori”.
    Il primo è la “transazione”. Con questa formula intendiamo dire che le ragioni della crisi di molti gruppi giovanili (e le possibilità di risolverla) stanno nella carenza di relazione, permanente e promozionale, tra istituzione ecclesiale e gruppo, inteso come “mondo vitale” (e, per questo, come preciseremo meglio in seguito, nella carenza di relazione tra la vita di gruppo e quella autonoma dei suoi membri).
    II secondo “tema generatore” legato alla necessità di fare del gruppo un luogo dove si producono e si esperimentano ragioni per vivere in un tempo, come è il nostro, di forte crisi e di diffusa rassegnazione. Questo compito è chiaramente di ordine “educativo”. Il tema generatore può essere quindi condensato nella voce “educazione”, come funzione prioritaria anche per il gruppo ecclesiale.
    “Transazione” e “educazione” rappresentano la prospettiva unitaria di tutto il nostro progetto. Sono quindi la sua chiave di lettura: la linea orientativa per il lettore timoroso di perdersi nell’intricato tessuto dei problemi evocati.
    Coloro che si interrogano, come facciamo noi qui, sulla funzione del gruppo in ordine alle esperienze ecclesiali e sulle condizioni di ecclesialità, trovano nella prassi recente alcune importanti indicazioni. Esprimono il punto d'arrivo di un lungo cammino, ricco, stimolante, anche se sofferto e segnato da incertezze, tensioni, confronti. Queste indicazioni possono aiutarci a precisare i termini della nostra questione che, come tutte le cose troppo ripetute, ha subito una svaporazione semantica, che rende equivoca la comunicazione anche se si usano le stesse parole.

    1.1. Cosa è gruppo

    Si parla di gruppo in tantissimi contesti e in molti modi. È facile avere la sensazione di trovarsi di fronte ad un termine per lo meno ambiguo. In questo quaderno assumiamo, la voce gruppo in modo tecnico, partendo cioè dalle riflessioni elaborate dalla dinamica di gruppo, la scienza che studia i fenomeni psicosociali che si scatenano appunto nei “gruppi “
    Il gruppo è una collettività identificabile, strutturata, continua, di persone sociali che svolgono ruoli reciproci conformemente a norme sociali, a interessi e a valori nel perseguimento di fini comuni.
    Esaminando attentamente questa definizione possiamo evidenziare qualche elemento implicito:
    - il gruppo deve essere chiaramente identificabile sia dall'interno che dall’esterno, anche se non tutti i membri necessariamente si conoscono tra loro;
    - la strutturazione interna. suppone una certa distribuzione dei ruoli e suppone anche un rapporto chiaro di ruoli all’interno e un'azione individuale armonizzata con quella degli altri membri;
    - le norme di gruppo non sono necessariamente codificate in modo esplicito, ma sono necessarie per la sopravvivenza del gruppo;
    - essenziale alla vita di gruppo è una certa comunanza di interessi, valori, fini sociali, senza di cui il gruppo si scinde. La circolazione di valori all'interno del gruppo prevalentemente in forma diretta e simbolica rafforza l'unità e la funzionalità del gruppo;
    - il gruppo deve avere una durata almeno relativa, altrimenti la momentaneità del rapporto può scadere in un'esperienza di aggregato.

    Gruppi primari e gruppi secondari

    Gruppi primari sono quelli in cui la collettività di persone che li compongono è relativamente ristretta come numero e con relazioni frequenti faccia a faccia, con profondi sentimenti di solidarietà e adesione totale ai valori comuni che costituiscono la cultura di gruppo.
    Esempi di gruppo primario sono la famiglia, i gruppi amicali come quelli adolescenziali o giovanili, i gruppi scolastici che si possono verificare in qualche classe molto unita.
    Gli appartenenti al gruppo primario generalmente hanno forte sentimento di inclusione o appartenenza al gruppo, (in termine tecnico si parla di “in gruppo”) e correlativamente tendono a escludere gli altri del “fuori gruppo”.
    Gruppi secondari sono invece collettività più allentate in cui l'individuo si associa in genere volontariamente o per contratto; le relazioni reciproche sono più esplicitamente regolate da leggi, usi, convenzioni.
    Il gruppo secondario è spesso identificato con l'associazione.
    Ogni società è composta generalmente da gruppi primari e secondari, ma vi può essere una prevalenza più o meno pronunciata degli uni o degli altri. 1 due tipi di gruppo rappresentano anche due estremi di una tipologia, in mezzo a cui si possono collocare forme intermedie di gruppo.
    Il gruppo secondario può inoltre rappresentare la forma di transizione tra il gruppo primario e l’aggregato.

    1.2. Gruppo – Associazione - Movimento

    La scelta di studiare l'ecclesialità di gruppo, utilizzando la voce gruppo in termini tecnici, porta di conseguenza. a considerare prima di tutto i singoli gruppi di base, cosi come vivono, si esprimono, operano in concrete situazioni territoriali, prescindendo dal fatto che questi gruppi siano collegati o meno ad un movimento o ad una associazione. Non studieremo quindi la vita delle associazioni o dei movimenti, né i fenomeni complessi che sono legati al rapporto comunicativo tra gruppi, movimenti e associazioni.
    Per comprendere il senso di queste affermazioni è però importante conoscere almeno cosa specifica e distingue il gruppo (primario) dall'associazione (di cui abbiamo già indicato la possibile assimilazione a gruppo secondario) e dal movimento.
    Gruppo, associazione e movimento sono termini di significato corrente. Spesso sono utilizzati come sinonimi.
    Proponiamo invece un uso più appropriato tecnico.
    Per motivarlo, sottolineiamo gli elementi di differenziazione. In questa prospettiva la distinzione tra gruppo primario e secondario, già ricordata, e la relativa definizione, vengono, integrate con l'aggiunta. della variabile “movimento” e, in parte, superate con la proposta di differenti modelli di appartenenza. Di essi alcuni si escludono reciprocamente (associazione e movimento); altri invece possono consussistere nello stesso soggetto a diversi livelli (gruppo e associazione; gruppo e movimento).
    L'associazione presenta ordinariamente le seguenti caratteristiche:
    - struttura organica e “istituzionale”, definita da uno “statuto”;
    - adesione dei membri, che avviene per condivisione degli scopi e degli impegni statutari;
    - adesione formale da parte dei membri, in base alle norme statutarie;
    - stabilità e autonomia (relativa) dell'associazione in quanto istituzione, al di là del variare dei membri;
    - attribuzione delle cariche associative in base a criteri formali prestabiliti dallo statuto.
    Il movimento è in genere così caratterizzato:
    - alcune “idee forza” e uno, “spirito comune” fanno da elementi aggreganti più delle strutture istituzionali;
    - spesso l'aggregazione avviene o almeno inizia attorno alla figura e alla proposta di un leader;
    - più che in uno statuto, ci si riconosce in una “dottrina” e in una “prassi”, fortemente caratterizzanti, che tendono a diventare una spiritualità;
    - l'adesione, non è formale ma vitale: il movimento sta sull'adesione continuamente rinnovata dei membri, senza iscrizioni o tessere.
    Il gruppo è di solito qualificato da: una certa “spontaneità” di adesione e di permanenza da parte dei membri;
    - una certa omogeneità anche affettiva;
    - grande libertà di auto configurazione quanto a scopi, struttura, attività del gruppo, e quindi tendenziale non uniformità tra gruppo e gruppo;
    - dimensioni relativamente ridotte e diffusione piuttosto limitata;
    - talora un certo riferimento comune a una “figura “ o a un “valore “ identici.

    1.3. Gruppo – Comunità

    Spesso vengono utilizzati i due termini “gruppo” e “comunità” per indicare apparentemente la stessa realtà e lo stesso problema.
    La qualificazione “ecclesiale”, “locale”, “di base” è cosi predicata indifferentemente per il gruppo e per la comunità.
    Qualche volta, al contrario, viene raccomandato ai gruppi ecclesiali di maturare in comunità, come se la comunità rappresentasse uno sbocco ottimale del cammino di gruppo.
    Gruppo e comunità sono sinonimi intercambiabili?
    E se non lo sono, cosa li diversifica? A questi interrogativi cerchiamo una risposta, studiando il rapporto esistente tra gruppo e comunità.
    Abbiamo già definito cosa intendiamo per gruppo. Analizziamo ora cosa si intende abitualmente per comunità.
    Comunità una delle parole chiave del pensiero politico e sociale occidentale. L'uso, frequente e diversificato, ha concentrato su questa parola una notevole quantità di connotazioni, significati e definizioni.
    Con qualche semplificazione, possono essere raccolti attorno a tre polarizzazioni.
    In primo luogo, comunità esprime la “solidarietà” esistente tra individui: quella qualità di rapporti che fa prevalere la volontà collettiva sull'interesse egoistico del singolo, l'armonia sulla competizione, la cooperazione sul conflitto. In questa definizione l'accento è posto sugli atteggiamenti presenti nel gruppo.
    In un secondo modello, comunità semplicemente un insieme di individui in un luogo determinato e concreto. In questo caso l'accento è posto sul territorio: è comunità un gruppo con il suo territorio. Mentre il gruppo è un concetto non-spaziale, la comunità aggiunge la dimensione spaziale.
    Una terza definizione afferma che è comunità il gruppo entro il quale l'individuo può soddisfare tutti i suoi bisogni e svolgere tutte le sue funzioni. Comunità è quindi il gruppo di base autosufficiente.
    Si tratta spesso solo di una autosufficienza relativa ad un determinato fascio di obiettivi, come ricorda qualche autore che assume questa terza accezione di comunità, per sottolineare che nell'attuale sistema. sociale e culturale sono possibili differenti appartenenze comunitarie, a causa della complessità del sistema stesso.
    Confrontando le tre definizioni è facile notare che tutte partono da un elemento comune: il gruppo. Comunità è un gruppo caratterizzato ulteriormente dal rapporto con un territorio e/o dalla capacità di risultare totalizzante.
    Nella prima accezione è più larga la coincidenza tra gruppo e comunità, perché la solidarietà (elemento qualificante) è anche la ragione della esistenza del gruppo.
    Un aspetto di differenziazione può essere dato dal numero dei membri: per il gruppo è spesso sottolineata l'esigenza di un numero ristretto (attorno alla dozzina) per rendere possibili reali interazioni; per la comunità invece non si riscontrano raccomandazioni particolari.
    Possiamo anche organizzare le diverse definizioni in modo unitario: comunità è quel gruppo di persone segnato da intensi rapporti di solidarietà, collocato in un territorio e dotato di capacità totalizzante (almeno rispetto al suo obiettivo).
    Assumendo così la definizione, possiamo concludere che ogni comunità è anche gruppo (primario), mentre non ogni gruppo è comunità.
    Gruppo e comunità non sono quindi sinonimi in senso stretto, anche se le differenze sono relative, forse più concettuali che reali.
    La distinzione è invece più marcata quando comunità e gruppo primario sono contrapposti a società (e gruppo secondario).
    Società indica gli aspetti esteriori e contrattuali della convivenza umana e della gestione ecclesiale. La componente comunitaria esprime l'esigenza della personalizzazione di ogni istituzione nelle relazioni interne e nei rapporti con l'esterno, mentre quella societaria sottolinea maggiormente i fini istituzionali che sono di natura essenzialmente “produttiva”.
    In questo caso la comunità si definisce sul rifiuto dell'alienazione, dell'anomia, dello sradicamento, dell'isolamento, della spersonalizzazione, come si manifestano nelle istituzioni massificate, caratterizzate dalla tendenza verso una razionalità formale di tipo tecnocratico e dalla prevalenza di preoccupazioni organizzative e burocratiche.

    1.4. Gruppo “giovanile”

    Un ultimo rilievo, per completare il quadro di riferimento.
    Parlando di gruppo e di gruppo ecclesiale, pensiamo prima di tutto al gruppo giovanile. Certamente non lo immaginiamo chiuso ad una fascia di età, in polemica generazionale con gli adulti.
    Gruppo “giovanile” significa gruppo centrato sulla maturazione degli adolescenti e dei giovani, attento alle loro dinamiche, largamente disponibile al loro protagonismo.
    Possiamo dire la stessa cosa con un'altra formula: il gruppo è “giovanile” se possiede una intensa e continua preoccupazione educativa. Certamente ogni gruppo è educativo, perché favorisce la circolazione e l'interiorizzazione dei valori. Quando i suoi membri sono soggetti in crescita il dato strutturale diventa orientamento intenzionale, così determinante da funzionare come filtro per selezionare scelte e operazioni.
    La gestione della vita interna ha esigenze precise; la spontaneità di aggregazione va controllata e guidata; nuovi impegni vanno assunti per procedere in avanti. Educazione è infatti stimolo a crescere, superando il già posseduto nell'avventura verso il nuovo e il più maturo. Questo cammino è però lento, graduale e progressivo, motivato e verificato, interiorizzato e condiviso.
    Sono rispettati questi ritmi anche per definire la composizione del gruppo. Essa è dato di fatto, espressione di realismo; e non criterio discriminante aprioristico.
    Lo stesso si può affermare circa l'indice di apertura verso il mondo esterno al gruppo.
    Immaginiamo questa apertura come esigenza di vita matura. Ne parleremo espressamente più avanti.
    Il gruppo è “giovanile” quando, anche nella doverosa apertura, prevale l'attenzione e la preoccupazione educativa; quando efficienza e gratificazione sono dosate sulla misura della persona in crescita e non solo sulle urgenze dei compiti. Questo è il gruppo giovanile, innegabilmente una tappa soltanto del lungo cammino verso la maturità umana e cristiana.
    Di questo gruppo studiamo la funzione e le condizioni di ecclesialità. Molte annotazioni hanno una risonanza più ampia: provengono e sono destinate alle comunità ecclesiali locali.
    Dove però si richiedono scelte e indicazioni alternative di cammino, la chiave educativa serve da discriminante.


    2. IL GRUPPO ECCLESIALE

    Entriamo nel merito della nostra ricerca.
    La prassi pastorale attuale fa largo uso del gruppo. Lo possiamo considerare uno dei pochi punti di convergenza nell'attuale pluralismo di modelli di pastorale giovanile.
    È certamente un segno dei tempi. Questo non ci dispensa però dal compito di studiare e di verificare, in modo pI approfondito, la sua funzione in ordine alla esperienza ecclesiale.
    Ci troviamo così proiettati nel fuoco di problemi concreti.
    Si richiamano e si condizionano reciprocamente.
    Quale rapporto esiste tra comunità ecclesiale e crescita nella fede?
    Si richiede una diretta esperienza o è sufficiente una generica appartenenza ecclesiale?
    La vita ecclesiale mediata dalle istitu7àoni tradizionali assolve sufficientemente le esigenze di una vera esperienza oppure t necessaria una istituzione dotata di maggiore capacità identificativa?
    II gruppo giovanile pub rappresentare una alternativa praticabile?
    Qual è la sua reale funzione?
    Per non lasciarci travolgere dall'onda di questi interrogativi, procediamo a tappe successive.
    Studiamo prima il rapporto Chiesa/salvezza per definire in modo corretto l'identità ecclesiale.
    Suggeriamo poi le condizioni da assicurare perché una comunità possa arrogarsi il titolo di Chiesa.
    Infine affrontiamo, la ricerca sulla funzione del gruppo, per trovare qualcosa capace di coniugare operativamente, a livello, giovanile, le esigenze ecclesiali e la situazione di fatto.

    2.1. Chiesa, sacramento di salvezza

    II Vaticano II ha definito in termini precisi il rapporto esistente tra comunità ecclesiale e salvezza. Nei documenti conciliari, infatti, la Chiesa si autoproclama universale sacramento di salvezza : mediazione efficace e anticipazione di quel progetto salvifico globale che Dio attua in Gesù Cristo per lo Spirito Santo, che investe tutti gli uomini e tutta la storia.
    Collocandosi così, la Chiesa definisce la sua identità a partire dalla sua missione. Per conoscere la Chiesa, dobbiamo perciò analizzare la sua funzione sacramentale e determinare di quale salvezza è sacramento.
    Sono tematiche vastissime. Non intendiamo affrontarle con l'attenzione che meriterebbero, perché sposterebbero la nostra ricerca lontano da quell'interesse operative, con cui vogliamo invece caratterizzarla.
    Ci limitiamo, perciò a richiamare a veloci accenni cose già studiate a fondo in altri contesti (si veda, per esempio, il Q3).
    La salvezza si realizza nell'incontro tra Dio e l'uomo. Questo processo salvifico è un atto di gratuita accondiscendenza da parte di Dio e di libertà, responsabilità, decisione personale da parte, dell'uomo. Non possiamo però concepire l'azione della salvezza come un intervento spazio- temporale di Dio, in un mondo e in una esistenza privi di giustizia, unicamente profani. L'esistenza di ogni persona e la storia collettiva sono avvolti e penetrati dalla grazia dell'autocomunicazione di Dio.
    Questa presenza diffusa della salvezza è ormai il principio costitutivo di ogni esistenza, intimo ad ogni uomo più di se stesso. Si tratta evidentemente di una presenza che è offerta alla libertà, che costituisce la libertà stessa: accettata o rifiutata nel cammino progressivo della propria vita, colloca nella salvezza o riduce alla pretesa suicida di una folle autonomia.
    La comunità ecclesiale ha il compito di favorire, di create le occasioni e le condizioni di questo processo. Ma non coincide con esso né tanto meno lo assicura in modo deterministico.
    Essa attua la salvezza come manifestazione storica nella quale l'evento di salvezza si fa appello ad una decisione esistenziale, invitando ad accogliere il dono di salvezza contenuto nella manifestazione stessa.
    E segno sacramentale non ha solo una funzione estrinseca rispetto alla salvezza: esso contiene l'evento, di salvezza e lo comunica sollecitando a decidersi per esso.
    In questo senso, la salvezza è normalmente mediata sul senso di appartenenza ecclesiale: anche se la decisione per la salvezza è sempre un atto strettamente personale, la salvezza raggiunge, la persona attraverso la comunità e nella comunità.
    La comunità ecclesiale è come il grembo materno, in cui si compiono, la decisione per la salvezza e le azioni cristiane che conseguono. La solidarietà del singolo con gli altri è cosi profonda che il suo personale essere salvo non può venire separato dal suo esserenellacomunità.

    2.2. Quale concreta comunità è la Chiesa a cui appartenere?

    Da questa costatazione nasce il secondo problema: dove si realizza il livello normativo di ecclesialità, tale da poter dire con verità di “appartenere alla Chiesa”?
    Si comprende facilmente l'importanza e la relativa novità dell'interrogativo. In una ecclesiologia autoritaria ed ecelesiocentrica, la Chiesa si identificava con “l'istituzione” (o con il suo sistema di governo): l'appartenenza alla Chiesa coincideva con l'obbedienza passiva e rassegnata.
    Il risveglio ecclesiologico operato dal Vaticano II da una parte e le pressioni contestative dall'altra hanno modificato molto l'immagine di Chiesa. II suo asse centrale tende a spostarsi dalla gerarchia al popolo di Dio, dalla dipendenza alla responsabilizzazione critica, dalla chiesa dall'alto alla chiesa dal basso. Ora siamo in un momento di decantazione e di discernimento. Come in ogni epoca di crisi non mancano le scelte di fronda e le spinte involutive. Senza entrare nel merito della questione, indichiamo quelle, dimensioni normative di ecclesialità che sembrano il dato teologico acquisito dalla Chiesa postconciliare nelle sue espressioni più mature e autorevoli. La Chiesa, verso cui sollecitare il senso di appartenenza, è quella comunità di uomini in cui sono presenti globalmente queste dimensioni:
    - accoglienza della Parola di Dio, che convoca e spinge verso la missione;
    - un “popolo”, uomini che prendono atto dell'invito salvifico di Gesù e si radunano in comunità, professando la stessa fede, celebrando la stessa liberazione escatologica, e si sforzano di vivere nella sequela di Gesù il Signore;
    - i Sacramenti c soprattutto l'Eucaristia, epifania della Chiesa stessa;
    - il Vescovo con il suo Presbiterio, principio e fondamento visibile di unità e di comunione interna;
    - un territorio, in cui vivere in contesto l'esperienza cristiana;
    - il servizio all'uomo nella condivisione promozionale, per realizzare nella storia il Regno di Dio.

    2.3. La comunità ecclesiale come "condizione" della fede

    Stiamo progressivamente avvicinandoci al concreto problema. Prima di proporre una nostra ipotesi, dobbiamo, considerate un dato teologicopastorale che rappresenta il punto nodale di tutta la ricerca.

    2.3.1. Che significa “condizione”?

    Quando ci si interroga sulla funzione della comunità ecclesiale in ordine alla attuazione della salvezza e alla maturazione della fede, ritorna con frequenza la constatazione che la comunità è “condizione”. Qualche volta l'indicazione resta però vaga e generica, soprattutto nella prassi quotidiana. AI contrario, l'affermazione ha un peso notevole anche per la nostra ricerca, perché la scelta del gruppo per l'esperienza di Chiesa è molto legata ad un approfondimento della funzione di “condizione”. Dobbiamo quindi dedicare qualche battuta a questa precisazione.
    La salvezza cristiana è radicalmente dono. Questo dono non è però sostitutivo della libertà e della responsabilità dell'uomo. Anzi, esso è costitutivo della possibilità e della esigenza di una risposta e di una decisione personale. La comunità ecclesiale rappresenta lo spazio esistenziale più significativo in ordine alla disposizione e all'accoglimento del dono della salvezza. In questo senso e per questa fondamentale “collaborazione” la comunità è definibile “condizione” della fede. Vediamo brevemente le ragioni.

    Comunità e significatività dell'evento salvifico
    L'evento di Dio che chiama a salvezza è sempre Parola che interpella, rispondendo a domande esistenziali profonde. Spesso però, quello che è vero sul piano oggettivo, non lo è nella storia delle singole persone. Viviamo infatti in un tempo di larga disaffezione religiosa e di forte pluralismo antropologico. Per molti giovani, la Parola di salvezza non rappresenta più una risposta alle proprie attese, perché queste attese sono state manipolate o perché essa è stata formulata in una acculturazione lontana da quella giovanile. La comunità, per la sua struttura costitutiva, offre generalmente uno spazio di identificazione e quindi di forte significatività. Quando essa vibra anche della Parola di salvezza, questo evento può operare in tutta la sua sconvolgente potenza: la significatività soggettiva permette al dono dello Spirito di far crescere fede e salvezza.
    La comunità è così sacramento di salvezza, perché nella sua costituzione, nella carica di identificazione e nel clima antropologico che in essa si respira, essa si fa appello ad una decisione esistenziale, libera e responsabile, per il Regno di Dio. Per questo, la comunità è “condizione”. In questa prospettiva, “condizione” è molto di più di semplice “occasione” nel sacramento cristiano, anche se con una intensità ed efficacia diversificate, il segno contiene sempre la salvezza a cui appella.

    Comunità e sostegno alla vita di fede
    La salvezza è dono che richiede una accoglienza; una accoglienza giocata nella quotidianità della propria esistenza, prima che sui gesti rituali e liturgici. Anche nel sostenere questa accoglienza, la comunità ha un grosso peso.
    Se essa sollecita ad una progettazione di sé lontana dagli atteggiamenti che definiscono l'uomo nuovo in Gesù Cristo, il suo essere appello difficilmente riuscirà a produrre accoglienza. II giovane, abilitato ad uno stile di vita non cristiano, non riesce ad accogliere il dono di Dio. E se lo accoglie, lo riduce a sola espressione formale.
    Quando invece nella comunità si respira un'aria da “nuova creatura”, perché gli atteggiamenti a cui ciascuno è sollecitato corrispondono a quelli definitivi della fede, speranza e carità teologale, essa sostiene strutturalmente la decisione di fede. Diventa così “grazia divina” luogo in cui la potenza di Dio, incarnandosi nelle mediazioni umane, incontra l'uomo e lo salva.
    Anche in questa prospettiva, la comunità è molto di più che semplice occasione. Essa diventa vera “condizione”, sostegno salvifico alla decisione di fede. Certo, gli atti cristiani decisivi possono essere compiuti solo personalmente. Ma queste azioni si compiono nel grembo materno della comunità, solo attraverso essa. La fede della comunità sostiene c custodisce la nostra debole fede, la vivifica e la rigenera.

    Comunità e celebrazioni della salvezza
    Accanto a queste due funzioni, che possiamo definire intrinseche, e come loro espressione esterna più tipica, collochiamo quel fatto a cui e facile pensare quando si parla della importanza della comunità in ordine alla educazione dei giovani alla fede.
    Nello spazio vitale della comunità i giovani hanno l'opportunità di incontrare la Parola di Dio, di celebrare i sacramenti, di sperimentare la comunione ecclesiale, quella comunione che è radicalmente dono e promessa, oltre la faticosa comunione umana.
    Il giovane cristiano, incontrando in una comunità, in cui si identifica gioiosamente, la proposta della Parola di Dio e dei sacramenti, riesce ad accoglierli c a viverli come qualcosa di importante e di decisivo.

    2.3.2. Questa comunità per molti giovani non può essere che il gruppo

    Abbiamo affermato un importante principio, tutto giocato sul dover essere. Non possiamo certo concludere la nostra riflessione con queste constatazioni. Dobbiamo chiederci con coraggio: quale comunità di fatto rappresenta questo progetto di comunità? Abbiamo già detto che la comunità può esercitare la funzione di condizione solo quando diventa luogo di identificazione. Qui sta il cuore del problema.
    Si crea un senso di appartenenza quando l'individuo riceve in modo adeguato i contenuti che determinano e definiscono l'istituzione di cui è chiamato a far parte. Nel nostro caso, ciò che il bambino prima e il giovane poi hanno appreso della Chiesa, deve corrispondere oggettivamente ad un corretto progetto ecclesiologico, senza riduzioni e senza esagerazioni. In caso contrario, l'accettazione o il rifiuto non è per “la” Chiesa, ma per quell'immagine distorta di Chiesa che ha interiorizzato. Già questo primo elemento sollecita ad una verifica attenta, alla luce della nuova ecclesiologia.
    Ma non basta. L'appartenenza non è prima di tutto determinata dalla oggettività e dalla forza razionale dei contenuti, ma dalla consapevolezza che la realtà descritta da quei contenuti è significativa: risponde a interessi c attese importanti per il soggetto, fino a far concludere che far parte di quella istituzione è cosa della massima. importanza. Come sappiamo, la significatività è tutta sul piano soggettivo. Il soggetto è chiamato quindi a scoprire il valore della proposta che gli è rivolta. Essa deve risultare importante per me; non è sufficiente che lo sia in sé.
    La significatività è determinata normalmente dal grado di adesione, di identificazione della persona con l'istituzione stessa. In altre parole, si avverte come significativa solo la proposta che è mediata da una istituzione avvertita come significativa. Una proposta oggettivamente corretta e razionalmente fondata, se non è esperimentata come affascinante, perché è mediata da una istituzione marginale, rifiutata, contestata, difficilmente conduce all'identificazione e quindi ad un reale senso di appartenenza. In questo caso, saltano per il soggetto le funzioni che facevano della comunità la condizione per la maturazione della sua fede. Per avere sotto lo sguardo più facilmente il quadro delle esigenze e verificare meglio le conclusioni a cui approdano queste riflessioni, possiamo riassumere su tre parametri le condizioni che regolano il senso di appartenenza alla comunità ecclesiale:
    - si richiede una struttura significativa, per essere veramente e soggettivamente luogo di identificazione;
    - questa struttura deve risultare intensamente comunionale, per sostenere l'esperienza di quella salvezza di cui la comunità ecclesiale è sacramento, attraverso la sua anticipazione storica. privilegiata, che è appunto la comunionalità;
    - questa struttura deve essere infine quella in cui si invera oggettivamente il progetto di Gesù Cristo, così come è espresso nell'autocoscienza attuale della Chiesa, per fare veramente esperienza di Chiesa. Nelle attuali situazioni culturali ed ecclesiali sono assicurate queste condizioni? Si pub dare per acquisita la possibilità di appartenere alla Chiesa in forza della identificazione alle sue istituzioni ufficiali (parrocchia, Chiesa locale, organismi tradizionali)?

    La Chiesa come istituzione ha perso oggi molto di significatività: per motivi di credibilità interna e per la crisi generale che ha investito ogni istituzione formativa. Soprattutto riesce difficile vivere reali esperienze comunitarie, per l'anonimato e la marginalità delle sue strutture. Dobbiamo “inventare” un luogo alternativo: significativo, comunionale ed. ecclesiale. Questo spazio è, oggi più che mai, il «gruppo”: per molti giovani dunque l'indispensabile mediazione ecclesiale e la “condizione” per la maturazione della loro fede.

    2.4. Il gruppo ecclesiale è chiesa

    Abbiamo messo a confronto la situazione ecclesiale attuale e le condizioni richieste per assicurare una reale, intensa esperienza di Chiesa. E ci siamo trovati nella necessità di chiamare in causa il gruppo, come mediazione privilegiata. di esperienza ecclesiale.
    La conclusione è ancora. troppo generica.
    Dobbiamo approfondire questo dato, per precisare teologicamente il significato da attribuire alla voce “mediazione”. Ci chiediamo quindi due cose: che significa mediazione e in che senso il gruppo può essere chiamato mediazione di Chiesa.

    2.4.1. Cosa si intende per “mediazione”

    Per definire il concetto teologico, di mediazione, ripensiamo ancora una volta al processo con cui Dio attua la salvezza dell'uomo.
    Nell'autocoscienza della comunità ecclesiale attuale è diffusa la consapevolezza che l'incontro salvifico con Dio, si realizza, sempre e per tutti, in una logica sacramentale: un segno, visibile e concreto, ci conduce misteriosamente ma efficacemente a Dio.
    È avvenuto così in Gesù di Nazaret, la manifestazione radicale e decisiva di Dio per noi. Egli è Dio con noi e per noi. Ma questa presenza e questo incontro passano sempre attraverso la sua umanità, rivelante e nello stesso tempo nascondente, come ci insegna la storia degli incontri che punteggiano la sua esistenza terrena. La sua umanità manifesta Dio come mediazione che si fa appello ad una decisione di fede, libera e responsabile. Solo nella fede, che interpreta e supera la povertà del visibile, possiamo incontrare veramente Gesù Cristo. Esiste un rapporto molto stretto tra ciò che si vede, che si incontra, che si manipola (tutto questo lo chiamiamo “visibile” ) e il significato e la realtà che il visibile si porta dentro (lo chiamiamo “mistero” nel senso, cristiano del termine).
    “Mediazione” è il segno visibile. Utilizziamo questo termine, perché la mediazione funziona come via al mistero, come una sua manifestazione tanto espressiva da renderle, efficacemente presente.
    Il rapporto tra. visibile e mistero non è infatti una semplice convenzione logica o semantica, come potrebbe risultare la bandiera rispetto alla patria o la parola pronunciata rispetto al mondo interiore di chi parla. Confessiamo invece nella fede che qui siamo in un ordine di ontologia salvifica. La mediazione rende perciò presente e operante realmente la salvezza di Dio, diventato vicino e incontrabile nello svuotamento del visibile.
    Nel processo salvifico il mistero non travolge mai il visibile; al contrario lo sostiene e lo accoglie tanto da lasciarsi condizionare dai limiti della sua opacità. Il mistero è appello di salvezza nella intensità con cui risulta appello il visibile.

    2.4.2. Il rapporto visibile-mistero e logica della trasparenza

    Questa ulteriore consapevolezza teologica produce una immediata esigenza pastorale: ogni visibile, per esprimere meglio il mistero che si porta dentro e assicurarsi cosi la funzione di appello salvifico, è sollecitato verso una crescente capacità di trasparenza.
    II rapporto visibilemistero si misura cosi anche su una variabile di contesto: è autentico quel visibile che qui/ora è trasparente del suo mistero.
    Questi brevi accenni ci permettono di ritornare al nostro problema: in che senso il gruppo può essere chiamato mediazione di Chiesa?
    La Chiesa ha una struttura sacramentale e in modo, sacramentale opera per l'attuazione della salvezza. II visibile della Chiesa (le sue istituzioni, le persone che la compongono, i riti liturgici, gli apparati strutturali, i diversi organismi ... ) è il segno, di intensità salvifica diversificata, che sollecita ogni uomo ad una decisione personale per la salvezza, un segno che contiene già salvezza, perché si porta dentro il suo mistero.
    L'evento salvifico che è la Chiesa, non è solo il mistero, ma è Chiesa il visibile e il mistero assieme, in quella unità indissociabile, che costituisce il segno sacramentale. Il visibile non degrada la potenza salvifica della Chiesa, ma la incarna, la storicizza, la rende vicina e incontrabile in situazione.
    In questo senso ogni realizzazione concreta di Chiesa è Chiesa, mediazione di quel grande progetto salvifico di Dio che nella fede chiamiamo “la” Chiesa.
    Come si nota, utilizziamo la formula “mediazione” in una prospettiva sacramentale e non funzionale.
    Le realizzazioni concrete e storiche di Chiesa (la parrocchia, la comunità di base e il gruppo, per esempio) sono la Chiesa, la incarnano e la rendono offerta di salvezza in situazione. Sono la Chiesa, ma non “tutta” la Chiesa; e neppure l'unica esperienza di Chiesa. Questi “visibili” infatti sono luogo dove il “mistero ecclesiale” concentra la sua forza salvifica, senza esaurirla e senza monopolizzarla.
    Questo, significa procedere in una logica sacramentale.
    In prospettiva funzionale, invece, solo una realizzazione risulta la concretizzazione piena della Chiesa. Le altre rappresentano sue immagini, sue funzioni, strumenti che la rendono presente attraverso approssimazioni parziali.
    In questa logica, il “mistero” della Chiesa è la Chiesa universale. Le altre realizzazioni sono sue degradazioni funzionali. Possono persino essere ordinate in una scala gerarchica, in base ad alcuni parametri. Cosi la parrocchia è più Chiesa del gruppo, se prevale la preoccupazione istituzionale; o il gruppo è più Chiesa della parrocchia, se viene valutata l'espressione comunionale. Nella prospettiva sacramentale, al contrario, ogni realizzazione ecclesiale è Chiesa a pieno titolo e a pari dignità.
    Questo è vero; ma non è tutto.
    Le riflessioni con cui abbiamo compreso la ragione teologica delle mediazioni ci costringono a procedere oltre.

    2.4.3. Il gruppo giovanile come mediazione significativa di Chiesa

    Ogni visibile ecclesiale è Chiesa, anche quello spesso povero e lacerato rispetto al mistero. Al visibile si chiede però di diventare trasparente per risultare veramente appello. Se la trasparenza è esigenza fondamentale, è Chiesa in situazione soprattutto quella realizzazione ecclesiale che assicura la pia immediata percezione delle dimensioni costitutive dell'evento di Chiesa e che di conseguenza è più facilmente appello, perché trascina in modo più evocativo verso il mistero che il visibile si porta dentro, superando i suoi limiti e traforando le sue opacità nelle, situazioni concrete.
    Il gruppo giovanile, per molti giovani, rappresenta un visibile particolarmente significativo, un visibile meno opaco di altri nella istituzione ecclesiale, rispetto al suo mistero. Nel gruppo, infatti, i giovani incontrano più esperienzialmente quella comunionalità concreta che è costitutiva del mistero salvifico. Quando il gruppo assicura le condizioni di ecclesialità che lo fanno “visibile ecclesiale” (quelle condizioni che studieremo, esplicitamente tra poco), esso quindi “mediazione” di Chiesa: è Chiesa.
    Proprio in quanto mediazione, non esaurisce “la” Chiesa. Per il gruppo, le ragioni di relativizzazione sono anche strutturali: nel gruppo non sono presenti completamente quelle dimensioni normative della Chiesa, che abbiamo, precedentemente elencate. Il gruppo esprime la crescita della Chiesa “dal basso”, nello sforzo umano. Non è tutta la Chiesa, perché la Chiesa è dono dall'alto, da accogliere in riconoscente umiltà. Per questi motivi, il gruppo ecclesiale, pur essendo un reale evento della Chiesa, deve restare aperto agli altri eventi di Chiesa e soprattutto alla Chiesa che raccoglie in sé pienamente le dimensioni dell'essere Chiesa.

    2.5. L'ecclesialità tra "signa regni" e "signa ecclesiae"

    Le informazioni che abbiamo progressivamente accumulato ci aiutano a risolvere anche l'ultimo problema, quello che abbiamo lasciato irrisolto quando abbiamo affermato che il gruppo è mediazione di Chiesa se realizza un “visibile ecclesiae”, se cioè è gruppo ecclesiale. In quel contesto non abbiamo precisato queste condizioni di ecclesialità. Ora affrontiamo esplicitamente l'argomento.
    E problema è molto importante perché troppi gruppi, sganciati dai grossi movimenti, non avvertono problemi di ecclesialità. Non è la ragione (neppure conflittuale) dello stare assieme dei loro membri. Essi aggregano sul bisogno di comunicazione interpersonale e sulla ricerca di una identità rassicurante; aggregano, in una parola, sulla loro capacità di esprimere “mondo vitale”, di essere luogo di incontro e di comunicazione emotiva nell'anonimato e nel disincanto diffuso.
    Al contrario, solo una corretta definizione dell'ecclesialità rende operativa l'affermazione che fa del gruppo il luogo privilegiato di esperienza di Chiesa. Se il gruppo non si costituisce di fatto come gruppo ecclesiale, esso non potrà risultare quella mediazione ecclesiale che è chiamato a realizzare.

    2.5.1. Criteri di ecclesialità

    Abbiamo usato nel titolo due formule evocative: signa ecclesiae e signa regni. Con la prima formula (signa ecclesiae) intendiamo designate le note formali di ecclesialità, quelle che definiscono in modo esplicito e tematico la decisione di appartenere alla Chiesa e di vivere in essa una vita nuova. Possiamo raccogliere i signa ecclesiae attorno ai tre riferimenti tradizionali della “parola”, dei “sacramenti” e del “ministero”. La circolazione della parola, la celebrazione della vita nuova nei sacramenti e l'obbedienza a coloro che nella comunità servono l'unità e la carità indicano i criteri più immediati e misurabili di ecclesialità.
    Con la seconda formula (signa regni ) intendiamo invece designare i tratti promozionali, attraverso i quali si anticipa nell'oggi la promessa del Regno.
    Signa regni, in un tempo di crisi, per una condizione giovanile che cerca ragioni di vita contro l'avanzare della morte, sono la produzione di una nuova qualità di vita: la pace, la giustizia, la libertà, la liberazione dei poveri e degli emarginati, il rispetto dei diritti di tutti, l'attenzione ai soggetti emergenti (la donna, i giovani stessi), la produzione e l'esperienza di senso, la capacità formativa, la saturazione dei bisogni di sicurezza e di identità.
    La “nota” della CEI che affronta lo studio dei criteri di ecclesialità dei gruppi non è molto attenta ai signa regni. Forse dà per acquisita ormai la loro importanza nella prassi ecclesiale e concentra la criteriologia attorno alla pratica dei signa ecclesiae. Ci sembra urgente però, per fare una riflessione sul gruppo ecclesiale ben contestualizzata, riaffermare vigorosamente l'importanza dei signa regni.
    Certo, non possiamo ridurre la misura dell'ecclesialità alla presenza o alla assenza dei signa regni, perché syuoteremmo la specificità dei criteri di ecclesialità. Di un simile svuotamento i nostri gruppi ecclesiali hanno tutt'altro che bisogno. Non possiamo pero concentrate la ricerca e misurare l'ecclesialità solo sui signa ecclesiae, per i gravi rischi, teologici e culturali, che il fatto comporta.
    I signa ecclesiae sono la celebrazione, la risignificazione, la verifica profetica dei signa regni. Da una parte, li collocano nella loro giusta prospettiva, di anticipazioni storiche e parziali di una salvezza che è radicalmente dono, che attinge la definitività dell''esistenza, che solo possiamo vivere nella accoglienza obbediente della celebrazione. Dall'altra, li orientano verso la loro autenticità anche antropologica, perché nella salvezza annunciata e celebrata l'uomo è maturato profeticamente verso la sua verità.
    Senza l'illuminazione della Parola, la produzione della vita può restare intristita e ripiegarsi contro i sogni liberatori dei suoi cultori. Senza produzione di vita, nella fatica del quotidiano, la celebrazione diventa vuoto rincorrersi di parole o scivola in un magismo inconcludente. La storia dei nostri gruppi lo dimostra, a più voci.
    In un tempo di presuntuosa autosufficienza, come era quello che sembra definitivamente concluso, i gruppi dovevano essere sollecitati a misurare la loro ecclesialità sulla capacità di decentrarsi gratuitamente verso la sconvolgente e imprevedibile irruenza dell'evento di salvezza. Quando invece l'uomo tocca con mano la sua pochezza c cerca disperatamente ragioni di vivere fuori di sé, la profezia evangelica lo deve sollecitare a riprendere coraggiosamente in mano la propria esistenza, perché può celebrare il Signore della vita solo chi tenta di essere signore di questa sua vita. E nostro è tempo di crisi. Troppi gruppi la risolvono sfuggendo dalle proprie responsabilità; altri relegano i momenti celebrativi al tempo vuoto della vita di gruppo. L'invito a misurare l'ecclesialità sui signa regni, celebrati dai signa ecclesiae, permette di riallacciare nel. concreto dell'impegno quotidiano la profezia della fede e la produzione di una nuova qualità di vita.
    Questa è dunque la nostra proposta: i gruppi giovanili sono . ecclesiali ., realizzano cioè le condizioni che li fanno è mediazione o di Chiesa, nella misura in cui diventano luogo dove si producono i signa regni di una nuova qualità di vita e, nello stesso tempo, luogo in cui progressivamente si verifica e si celebra tutto ciò nei signa ecclesiae. L'ecclesialità di gruppo non è determinata prima di tutto dalla accoglienza tematica di parolacomunionesacramenti (i signa ecciesiae), ma dalla capacità di diventare luogo in cui i giovani di questo tempo di crisi esperimentano ragioni per vivere e sono sollecitati dalla testimonianza delle diverse comunità ecclesiali a fare questa esperienza nel nome del Signore della vita. Questa scelta, di natura prevalentemente teologica, mette in primo piano la preoccupazione esplicitamente educativa. L'ecclesialità,è investe quindi la gestione della vita interna di gruppo, le modalità in cui si sviluppa.

    2.5.2. Quali gruppi possono essere ecclesiali?

    Questo nostro orientamento aiuta a verificare quali gruppi possano essere ecclesiali, nel panorama attuale dei gruppi giovanili.
    L'ecclesialità è una nota che qualifica il gruppo sulla discriminante delle attività che esso progetta, per cui è ecclesiale il gruppo che fa “cose ecclesiali” e non lo può essere il gruppo impegnato ad assumere e risolvere istanze culturali, politiche, di tempo libero? Ecclesiale è una caratteristica formale o sostanziale è una caratteristica implicita (per cui si può essere ecclesiale anche senza volerlo essere) oppure richiede un certo livello di esplicitazione, di tematizzazione? Nelle nostre comunità ecclesiali ci siamo posti spesso interrogativi del genere. Il materiale teologico accumulato ci permette di dare una risposta precisa e articolata. L'ecclesialità è una nota qualificante, che richiede di natura sua una coscienza tematica.
    Si può parlare di ecclesialità solo quando questa caratteristica è vissuta con intenzione esplicita almeno in qualche persona o a qualche livello del gruppo. Gruppi ecclesiali, però, non sono solo quelli che hanno come finalità qualcosa di tematicamente ecclesiale (relativo cioè alla vita. pastorale o alla celebrazione della Parola o della liturgia ... ). Ecclesialità non è una nota che separa tra finalità “sacre” e finalità “profane”, ma è una caratteristica che colloca le “finalità di vita” in un nuovo orizzonte di preoccupazione formativa che fa riferimento esplicitamente all'evangelo di Gesù il Signore. Lo diciamo a partire dal rapporto tra signa regni e signa ecclesiae, che abbiamo privilegiato. Se le cose stanno così, possono essere ecclesiali tutti i gruppi (quelli culturali, educativi, sportivi, politici, di interesse, di semplice aggregazione ... ), se accettano di risignificare nella fede ecclesiale le scelte e gli orientamenti della propria vita.
    Questo punto fermo è di grande importanza pastorale: fa della fede della comunità ecclesiale un criterio di compagnia, senza svuotare di specificità. E ci permette di far oggetto della nostra preoccupazione pastorale i giovani più poveri, quei tanti giovani che sono ai margini dei movimenti, anche perch6 hanno problemi diversi da quelli affrontati e risolti dai movimenti stessi: anche questi giovani hanno diritto di esperimentare nella Chiesa l'amore di Dio in Gesù Cristo.
    Questa coscienza di ecclesialità non può essere lasciata alla spontaneità e alla soggettivizzazione. Si tratta di un fatto “ecclesiale”; e perciò segnato dalle esigenze teologiche del progetto normativo di Chiesa. anche l'ecclesialia di gruppo deve quindi essere verificata da coloro che nella comunità ecclesiale possiedono il ministero del discernimento, per la verità e l'unità nella comunione.
    Il gruppo che ha smarrito questa consapevolezza ha bisogno di essere aiutato a maturare progressivamente nell'accoglienza di questo impegno. Questa verifica ha la funzione di riconoscere la presenza (o, al limite, di denunciare l'assenza) degli elementi sostanziali di ecclesialità. Non dà una qualifica o la toglie; ma formalizza autorevolmente una situazione oggettiva.
    II doveroso discernimento non è mai condotto in termini burocratici. L'ecclesialità è la capacità di inserirsi in un lento progressivo processo di maturazione che dalla iniziale accoglienza della propria vita porta alla confessione gioiosa del Signore di questa vita. Da questa prospettiva riesce difficile valutare chi è “dentro” e chi non lo è; e diventa impraticabile la tentazione di dichiarare è fuori . solo perché mancano alcuni connotati. Si potrà costatare soltanto che qualche gruppo è ai primi passi del lungo cammino che dovrà portarlo alla confessione del Signore della vita. Ma non riuscirà a decidere tranquillamente che è fuori pista, perché questa decisione metterà prima di tutto in causa la nostra capacità di testimoniare il Signore della vita in una riscoperta e sofferta passione per la vita quotidiana.


    3. PROSPETTIVE DI MATURITÀ DI GRUPPO

    Le lunghe riflessioni spese per definire le condizioni di ecclesialità ci hanno portato a considerare attentamente lo stile di vita del gruppo, la qualità dei rapporti tra i suoi membri e il significato della sua presenza sul territorio.
    Abbiamo chiamato questo insieme di atteggiamenti con la formula signa regni, perché essi anticipano nel concreto quotidiano la vita nuova del Regno. Abbiamo però ricordato che il gruppo ecclesiale non si accontenta di questa produzione implicita di segni del Regno. Dal momento che l'ecclesialità è una nota esplicita, consapevole e tematica, i signa regni vanno celebrati, verificati e consolidati in quegli atteggiamenti formali di ecclesialità che abbiamo raccolti nella formula signa ecclesiae. L'accento posto sui signa regni mette in primo piano quella preoccupazione educativa che rappresenta il filo conduttore della nostra ricerca. Il rilancio immediato verso i signa ecclesiae vuole ricordare, senza mezzi termini, che il soggetto di questa esperienza è sempre una comunità nella e della fede perché solo cosi si pub raggiungere una esperienza di Chiesa.
    Il tipo di rapporto ipotizzato tra signa regni e signa ecclesiae esprime una convinzione precisa e impegnativa, diffusa abbondantemente nell'autocoscienza ecclesiale attuale: la comunità ecclesiale impegna la propria fedeltà al suo Signore nella liberazione e nella promozione dell'uomo.
    Tutto questo è oggi sufficientemente assodato. Una ricerca sui gruppi giovanili ecclesiali non può esaurirsi in questa rivisitazione. Abbiamo recuperato l'esigenza educativa e promozionale nel nome dell'ecclesialità. Ora dobbiamo dire operativamente questa esigenza educativa in modo da permettere sostanzialmente una sua riformulazione ecclesiale. Il cammino che ci resta da percorrere è ancora lungo e impegnativo. Facendo reagire l'autoconsapevolezza ecclesiale sui problemi che rimbalzano dalla concreta vita di gruppo, in un ideale circolo ermeneutico, possiamo definire modelli di maturità in situazione. Essi sono i signa regni che, celebrati nei signa ecclesiae, fanno del gruppo giovanile un vero gruppo ecclesiale, un luogo di reale esperienza di Chiesa.
    Non intendiamo offrire una panoramica esauriente. Preferiamo analizzare solo alcune dimensioni centrali della vita dei gruppi giovanili. La proposta può servire come stimolo per ulteriori ricerche.

    3.1. Maturità in situazione

    Tra le diverse ragioni che giustificano la scelta di proporre solo modelli esemplificativi di maturità di gruppo, una è particolarmente importante. La sottolineiamo, almeno a veloci battute, perché rappresenta implicitamente un primo indicatore di maturità.
    Come abbiamo più volte ricordato, la comunità ecclesiale ha una struttura sacramentale; in essa è necessario prendere sul serio il, condizionamento del visibile umano in cui si esprime e si concretizza l'evento salvifico. Questo dato teologico, espresso all'interno delle categorie antropologiche della vita di gruppo, costringe a pensare la maturità non come qualcosa di oggettivo e statico, da applicare deduttivamente ai singoli gruppi per valutare lo scarto tra il dover essere e la situazione di fatto. La maturità è invece qualcosa di oggettivo e di relativo nello stesso tempo. Diciamo “oggettivo”, perché i criteri ecclesiali Sono precisi e normativi e funzionano da parametri discriminanti; “relativo”, perché la realizzazione dei signa regni e dei signa ecclesiae è legata alla situazione concreta del gruppo e alle variabili che la determinano.
    Riprendiamo le due indicazioni.

    3.1.1. Una maturità con una sua consistenza oggettiva

    L'ecclesialità non solo si sostanzia di scelte concrete educative, ma le orienta c le verifica. Non solo le esige per non scivolare nel. formalismo, ma le esige “in un certo modo” per poterle risignificare e celebrare. L'ecclesialità infatti si ridurrebbe a vuoto e inutile rito celebrativo, se non incidesse prima sulla qualità degli atteggiamenti che poi celebra.
    Questo vale a livello personale; a più ragioni ha un peso nel rapporto tra signa regni e signa ecclesiae in un gruppo e in una comunità ecclesiale. Scelte e orientamenti relativi alla vita interna di gruppo, modelli di presenza sull'esterno, qualità delle interazioni, possono perciò essere celebrati nei signa ecclesiae in verità, solo se sono stati elaborati in reale previa sintonia con la logica ecclesiale.
    Certamente tutti i signa regni possono essere celebrati nei signa ecclesiae, perché la Chiesa è segno e primizia del Regno. Ma non tutti i. gesti prodotti nei gruppi sono signa regni. Possono esistere modalità di soluzione dei problemi di vita interna e di azione verso l'esterno che sono troppo lontani dalla logica della vita nuova del Regno. In questo caso bisogna intervenire con coraggio e con fermezza per suggerire i necessari cambi di rotta.
    I signa ecclesiae, più facilmente oggettivabili, anche grazie al ministero magisteriale, funzionano appunto da orientamento normativo e criterio di verifica. Non esauriscono l'ecclesialità del gruppo, perché la Chiesa è per il Regno in modo germinale e sacramentale; ma stimolano a costruire una vita di gruppo capace di essere anticipazione e profezia del Regno.
    Riconoscere come relativi i criteri di ecclesialità non significa perciò rifiutare la possibilità di valutazione e di correzione. La preoccupazione educativa comporta l'accettazione della gradualità e della progressività; ma queste esigenze non connotano sicuramente disattenzione o rassegnazione nei confronti di orientamenti scorretti o inadeguati.

    3.1.2. Una maturità in situazione di gruppo

    I signa regni e i signa ecclesiae e il loro reciproco rapporto non sono codificabili al di fuori delle differenti mediazioni ecclesiali. Sono invece “così e non altrimenti”, perché il soggetto che lì pone è questo concreto gruppo, vivente in un preciso segmento di spazio e di tempo.
    Non possiamo perciò oggettivare tanto la maturità da ritagliare un modello ottimale su cui verificare l'esistente. Al contrario, ogni gruppo è chiamato ad esprimere nella sua storia quelle esigenze che definiscono il progetto normativo di Chiesa-insituazionedigruppo.
    Possiamo anche fare degli esempi per dire con le esperienze quotidiane dei nostri gruppi quello che stiamo affermando in termini teorici. Il piccolo gruppo, i cui membri sono molto affiatati, non ha certo problemi di coesione. In esso, studiare il rapporto tra efficienza c gratificazione è solo una inutile complicazione accademica.
    Il problema è invece vivissimo nel gruppo più ampio e in quello a cui il contesto offre poco prestigio.
    Il livello di coesione raggiunto da questo secondo gruppo può risultare statisticamente inferiore a quello del primo. In realtà, invece, l'indice soggettivo di maturità, anche in ordine alla coesione, potrebbe essere molto soddisfacente.
    Un piccolo gruppo composto da giovani emotivamente fragili mette in primo piano delle difficoltà di interazione che sono invece risolte da un gruppo numeroso, formato da giovani ben motivati,
    II modo di esercitare l'autorità può però disturbare la maturità raggiunta da questo gruppo, mentre potrebbe servire come provvidenziale terapia per il primo.
    Gli esempi potrebbero essere moltiplicati, incrociando le diverse variabili che caratterizzano le situazioni di vita dei gruppi. Non insistiamo però ulteriormente. Ci basta, in questo contesto, riprendere e sottolineare l'affermazione di sintesi: la maturità ecclesiale di gruppo è un dato oggettivo, perché espressione di un progetto oggettivo, preciso e normativo come è quello che determina l'ecclesialità; è anche un fatto relativo e situazionale, perché la concretizzazione del progetto normativo avviene sempre sulla misura delle differenti situazioni.
    Per queste ragioni, in una ricerca come la nostra, che intende porsi come stimolo ai differenti gruppi di base, dobbiamo per forza di cose generalizzare le proposte e suggerire ipotesi di massima.
    Le pagine che seguono vanno lette come quadro di riferimento, formale e generale, relativizzando problemi e soluzioni. Sono pagine preziose solo per i gruppi che sanno riscriversele dentro la loro vita. Anche noi, del resto, le abbiamo scritte “dentro” la vita, gioiosa e sofferta, di molti gruppi giovanili ecclesiali.

    3.2. La coesione come stile di aggregazione

    Tutti abbiamo fatto esperienza di gruppi al cui interno si sta bene. Le attività sono ben partecipate. Le riunioni procedono ordinate e interessanti. Non c'è bisogno di moltiplicare gli inviti per avere assicurate le presenze. Purtroppo non sono assenti le esperienze contrarie: gruppi pesanti, che sopravvivono a stento, con un indice molto basso di partecipazione.
    I primi sono gruppi a forte coesione interna. I secondi ne sono privi.
    Possiamo immaginare il gruppo come un campo di forze: alcune tendono ad allontanare dal gruppo; altre invece spingono a restare in gruppo. La coesione è come la risultante di queste forze: è l'unione di spirito dei membri del gruppo, proveniente dalla attrazione esercitata su di essi dal gruppo stesso.
    Se il gruppo riesce a saturare tutte le attese personali, in esso predominano le forze centripete e risulta molto coeso. Se invece le attese dei membri sono molto lontane dalle possibili risposte, prevalgono le spinte centrifughe, perch6 resta attivo in ciascuno il bisogno di saturare altrove le proprie attese. II gruppo cosi ha un indice molto basso di coesione.

    3.2.1. Le variabili che influenzano la coesione di gruppo

    Lo studio sulla coesione di gruppo si apre perciò con l'elenco delle forze che tendono ad allontanare dal gruppo e di quelle che invece favoriscono la partecipazione. Qui sta infatti il punto risolutore della coesione.
    Gli autori che la considerano come una variabile dipendente, ne offrono lunghi elenchi. Organizzando questi suggerimenti, possiamo ricordare sinteticamente i seguenti elementi:
    - il numero dei membri del gruppo;
    - l'orientamento collaborativo o competitivo nei confronti delle decisioni, nella definizione degli obiettivi, nella gestione delle informazioni;
    - l'accessibilità o l'irraggiungibilità degli obiettivi di gruppo e il conseguente progressivo avvicinamento o allontanamento da essi;
    - la flessibilità o la rigidità delle norme;
    - la reazione dell'ambiente esterno al gruppo: isolamento, minaccia, riconoscimento, rifiuto;
    - gli atteggiamenti e le condizioni motivazionali delle persone che compongono il gruppo (bisogno di affiliazione, di riconoscimento, di sicurezza; interesse verso ciò che il gruppo garantisce; capacità di confronto e di dialogo; capacità di elaborare e organizzare le diverse appartenenze);
    - omogeneità o eterogeneità psicologica, sociale, biologica;
    - presenza o assenza di forti alternative esterne;
    - assimilazione personale degli obiettivi di gruppo;
    - livello di competitività verso l'esterno ed eventuale “punizione sociale” per chi abbandona il gruppo.

    3.2.2. Criteri di ecclesialità e coesione di gruppo

    Consideriamo attentamente l'elenco delle variabili che influenzano la coesione di gruppo, per affrontare il problema in termini educativi.
    È facile notare che esse esercitano il loro influsso nel cuore del rapporto tra attese personali e risposte di gruppo. Sappiamo che le une e le altre sono realtà facilmente modificabili, perché l'identificazione affettiva al gruppo rende i suoi membri disposti a conformare le proprie attese per non perdere il conforto del gruppo stesso.
    Assicurare la coesione non è quindi un grave problema. Basta scatenare opportunamente la spontanea pressione di conformità, controllando ed eliminando le poche resistenze; e l'obiettivo è facilmente raggiunto. Non si può certo però cancellare l'impressione che sia molto alto lo scotto da pagare. C'è coesione infatti solo se le persone sono disposte a riformulare le loro attese sulla misura delle risposte di gruppo, sublimando la rinuncia sulla gratificazione che il gruppo offre.
    In questo caso non viene scelto un gruppo sulla discriminante dei suoi contenuti, ma sulla capacità che essi hanno di saturare i bisogni di rassicurazione e di gratificazione. La vita dì gruppo è centrata così sul gruppo stesso, piegando quasi la responsabilità e la libertà delle persi ne a questa esigenza superiore. L'orientamento pone già notevoli problemi in ordine alla vita ecclesiale del gruppo.
    C'è un altro aspetto problematico d sottolineare: non poche delle variabili elencate sono condizioni impraticabili, educativamente e pastoralmente. Si pensi, per esempio, alla esigenza di un numero molto ridotto di membri, all'omogeneità in un tempo di pluralismo, alla competitività verso l'esterno che riduce l'esigenza ecclesiale della solidarietà e della compartecipazione, ai continui processi di riaggiustamento dell'obiettivo.
    Che fare?
    È fuori discussione l'importanza della coesione. Esiste un modello di intervento capace di assicurare un livello alto di coesione senza deprimere la responsabilità, la progettualità, la creatività delle persone e l'inserimento accogliente e promozionale nell'ambiente?

    3.2.3. Un progetto: la coesione tra unità e differenziazione

    Prima di suggerire una formula operativa, dobbiamo avanzare una ipotesi globale, quasi una risposta alla domanda di fondo: quale coesione vogliamo raggiungere?
    Questo interrogativo affronta indirettamente il grosso nodo del rapporto tra unità e diversità nello stesso gruppo. Troppo spesso coesione significa implicitamente unità; e diversità connota mancanza di coesione. Nel gruppo ecclesiale maturo, aperto e pluralista, non tutti possono fare le stesse cose e soprattutto queste non possono essere prodotte allo stesso modo. Lo proibisce il rispetto della irrepetibilità personale e il dovere di accogliere il diverso da sé come proposta di arricchimento. Lo impedisce il clima di pluralismo: a prescindere dalla sua valutazione, esso resta un fatto con cui fare i conti.
    D'altra parte, non si può parlare di gruppo primario se non quando si raggiunge un minimo di convergenza sui valori di fondo e sugli obiettivi dell'esercizio della comune corresponsabilità. L'unità potrebbe essere ridotta ad una esigenza limite. In questo caso trova spazio la diversificazione, ma a scapito della convergenza, perché essa è giocata su dati così esigui da risultare inconsistente. Oppure l'unità potrebbe essere pretesa in una enfasi totalizzante e onnicomprensiva. In questo caso si brucia la diversificazione, trasformando la necessaria unità in una piatta uniformità.
    La soluzione di questo conflitto non sta nel “giusto equilibrio” incapace di cogliere la radice dei problemi. L'unità si costruisce attorno alla condivisione, dialettica e progressiva, di un nucleo di significati e di valori operativi che rappresentano il progetto del gruppo, nel frammento di spazio e di tempo in cui è presente. La diversificazione è invece la traduzione operazionale di questo progetto condiviso. Si tratterà di una diversificazione molto ampia, perché sostenuta dalle responsabilità e dalle sensibilità personali, dai compiti e dalle urgenze, da quel concreto quotidiano in cui prende corpo il progetto e su cui si riformulano valori e obiettivi.
    In questa proposta, unità e diversificazione sono in reciproco riferimento: l'unità si concretizza nella diversificazione e le diverse operazioni trovano un punto di raccordo e di verifica sui valori costitutivi dell'unità. Nel gioco tra unità e differenziazione, la coesione è diventata una figura ideale di gruppo, un modello di gruppo in azione.

    3.2.4. La coesione come aggregazione

    È tempo di ritornare al concreto. Pensando al modello di gruppo che abbiamo ritagliato, ci chiediamo cosa si può fare per favorire la sua capacità aggregativa. Aggregazione è, in ultima analisi, la forza di identificazione che si sprigiona da un gruppo coeso, quella forza che lo costituisce come luogo dotato di carica propositiva al servizio della crescita della persona, per aiutarla a modificare gradualmente la sua identità, i valori in cui si riconosce, nel confronto con gli altri, in e attraverso il gruppo.
    Studiamo quindi un itinerario educativo, coerente con il modello teorico che abbiamo elaborato. Come si può costatare, tappa dopo tappa, il gruppo giovanile procede da una coesione realizzata attorno a rapporti primari e a obiettivi a forte risonanza emotiva, verso una coesione assicurata dalla condivisione, impegnata e aperta, di valori. Riprendendo le annotazioni con cui abbiamo precisato la distinzione tra gruppo e comunità, possiamo sottolineare che attorno alla coesione il gruppo matura progressivamente in comunità.

    Tutto può servire per fare aggregazione
    Nella vita di un gruppo tutto può servire per iniziare il processo di aggregazione. Ogni suggerimento, a questo proposito, può essere dato solo a titolo di esempio. Così può essere ottimo punto di partenza l'incontro spontaneo attorno a interessi, come può costruire aggregazione la semplice ricerca di stare assieme come reazione all'anonimato e alla disgregazione.
    Questa tappa è già intervento educativo: presenza di un educatore accorto che accoglie la realtà, consapevole che essa si porta- dentro germinalmente una tensione di maturazione. II suo servizio consiste nel favorire la crescita spontanea, sostenendo i primi difficili passi e immettendo stimoli di sviluppo. Suggeriamo alcune modalità di questo servizio educativo.
    Prima di tutto è indispensabile dare al piccolo o grande obiettivo che ha suscitato l'aggregazione, una chiara e condivisa risonanza collettiva. Certamente ogni obiettivo ha una risonanza collettiva; spesso però può essere così stravolto da diventare individualista e alienante. In questo caso minaccia la vita del gruppo, perché non permette la convergenza verso ciò che caratterizza il gruppo stesso: il senso del “noi” e la gratificazione che esso produce. L'obiettivo va perciò come “umanizzato”: restituito alla sua giusta dimensione collettiva. Essa non è un'aggiunta dall'esterno, ma la riscoperta più profonda e intensa della verità delle cose.
    È poi importante far acquisire “prestigio” all'obiettivo, perché solo quando esso possiede un suo fascino, è in grado di catalizzare gente attorno a sé. Anche a questo livello, il servizio educativo consiste nel ridare quel vigore che le cose già possiedono e che lunghi periodi di decantazione hanno annebbiato e svilito. E fascino può scatenare le dimensioni emotive o irrazionali dei giovani e quindi svuotare la ricchezza personalizzante del gruppo. Ma il rischio opposto è più grave: senza fascino non c'è aggregazione. Infine, è importante sollecitare il gruppo a cercare veramente quello che dice di cercare a parole. Le maschere e gli stereotipi possono trascinare i membri del gruppo a grosse parole, a pretese affascinanti, sotto il cui velo si mistifica invece il disimpegno e l'egoismo.

    L'intervento di contrappeso
    L'educatore non ha solo il compito di far emergere quanto già c'è. Ha anche la responsabilità di “proporre”: di integrare quanto è carente. L'aggregazione è duratura e maturante solo se il gruppo sa dosare bene efficienza e gratificazione. Una gratificazione senza efficienza è alienante e mistificante; un'efficienza senza gratificazione riproduce esattamente la logica della “catena di montaggio”.
    Sulla misura del gruppo giovanile attuale, questa esigenza significa riportare nel gruppo un corretto dosaggio di “personale” e “politico”, di “festa” e di “impegno”, di cose fatte e di celebrazione festosa per quello che si è fatto, di realismo e di speranza, di confronto e di interiorizzazione, di tempo-forte e di quotidiano: di gruppo e di vita reale, in una parola.

    Coesione nella condivisione di un progetto
    Lo spazio privilegiato su cui produrre aggregazione è la condivisione di tin progetto: un insieme di valori, organizzati in modo operativo e orientati globalmente a innescare processi di liberazione. Gratificazione ed efficienza trovano un adeguato punto di condensazione proprio dentro questo progetto.
    Se il progetto è ampio e articolato, esso permette un reale pluralismo di interessi e di attività. Può essere condiviso consapevolmente anche tra giovani che realizzano la loro presenza nella storia in modi diversificati. Il gruppo non chiede il “tempo pieno” al suo interno, ma si proietta progressivamente verso la storia e la vita di tutti. L'aggregazione non è tranquillo possesso, ma tensione dinamica. La prassi infatti allarga l'ambito della riflessione e immette nella vita di gruppo stimoli sempre nuovi, capaci di sollecitare in avanti. L'aggregazione non è più giocata tra il polo dell'efficienza o quello della gratificazione. Il giovane maturo non le cerca nel gruppo (o solo nel gruppo), perché sono dimensioni dell'esistere storico di ogni uomo, che vanno cercate, prodotte, condivise nella vita, nella storia. Nel gruppo cerca la ricomprensione del senso della propria esistenza e il sostegno per giocarla per la promozione degli altri. Cerca, cioè, il supporto alla sua identità.

    L'aggregazione al servizio dell'identità
    Coscientizzazione sul valore ricercato e confronto sui valori carenti fanno del gruppo un luogo in cui i giovani riescono a definire la propria identità: incontrano proposte, le accolgono e le collocano in modo riflesso nel quadro dei significati fondamentali dell'esistenza. L'aggregazione è servizio all'identità personale: il comune impegno di capire “chi siamo” e “perché”, in un tempo di anomia e di dispersione come è il nostro.

    3.3. La prassi del gruppo ecclesiale

    Affrontiamo un secondo nodo problematico nella vita dei gruppi ecclesiali. L'abbiamo intitolato con una formula un poco generica: la prassi del gruppo ecclesiale. Riflettendo sul titolo possiamo precisare meglio quello che intendiamo studiare, l'ambito e le ragioni di problematicità.

    3.3.1. II gruppo tra crisi di identità e di rilevanza

    Nella nostra ipotesi il gruppo è mediazione di esperienza ecclesiale non solo perché è il luogo concreto in cui i giovani incontrano l'evento ecclesiale, ma anche perché nel gruppo essi sono Chiesa in azione. Fanno esperienza di Chiesa non in modo strumentale ma esistenziale: esperimentano l'appartenenza ecclesiale vivendo la Chiesa.
    La vita di Chiesa, realizzata e esperimentata nel gruppo, è un evento teologale, concretizzato nelle dinamiche antropologiche della vita di gruppo. Se esprimiamo anche questa costatazione nello schema della sacramentalità, ci rendiamo facilmente conto di come lo spinoso problema del rapporto tra fede e cultura attraversi i gruppi ecclesiali. Le dinamiche del gruppo sono infatti quel visibile in cui si incarna il mistero dell'evento ecclesiale.

    Il gruppo tra analisi scientifica e riflessione ecclesiale
    Il gruppo è una realtà che esiste prima e indipendentemente dalla sua finalizzazione ecclesiale. Rappresenta una esperienza che appartiene a coloro che la vivono. Ed è oggetto di analisi e di progettazione da parte di scienze da assumere nella loro autonomia e consistenza. La spontanea vita di gruppo e la sua autoconsapevolezza scientifica non sono però neutrali: per lo stretto rapporto esistente tra visibile e mistero possono in qualche modo condizionare l'immagine ecclesiale del gruppo. La dinamica di gruppo, infatti, pur essendo prevalentemente una scienza fenomenologica, possiede una intensa risonanza ermeneutica. Descrive in modo riflesso i fenomeni che si scatenano nei gruppi e avanza ipotesi di intervento. Queste indicazioni risentono, come in tutti i processi culturali, della collocazione antropologica dell'operatore. In questa “scommessa” metafisica la fede del credente e il progetto normativo di Chiesa hanno qualcosa da dire. Basta sfogliare i diversi manuali per costatare la pertinenza di queste affermazioni. L'abbiamo esperimentata anche noi studiando la coesione.
    Il gruppo ecclesiale, quando si impegna a comprendere in modo riflesso i fenomeni della sua vita e quando progetta interventi al suo interno e verso l'esterno, è costretto ad utilizzare una di queste elaborazioni scientifiche, selezionandola tra le tante a sua disposizione nella vasta letteratura.
    Può assumere modelli dotati di una logica interna che lo spiazza di fatto rispetto all'ecclesialità normativa che deve esprimere o rispetto agli orientamenti culturali diffusi nel contesto in cui è presente. In altre parole, è possibile organizzare la propria vita e prassi in modo da ridurre o vanificare l'ecclesialità. Oppure è ipotizzabile una vita di gruppo, coerente con le esigenze dell'ecclesialità, ma lontana e staccata dai dinamismi sociali e culturali. Quando predomina la prima ipotesi, il gruppo soffre di crisi di identità. Fatica ad esprimere la sua ecclesialità e fatica a farsela riconoscere formalmente. Anche se la vita interna sembra fluente e la prassi efficace, la crisi di identità ecclesiale apre verso una sua progressiva emarginazione.
    Questa è la storia di molti gruppi del recente passato. Per assicurare consenso, prestigio e incidenza, si sono autodefiniti su opzioni troppo legate alle logiche dominanti. E sono entrati in crisi. Contestati dai responsabili della vita ecclesiale, progressivamente si sono accampati ai margini della Chiesa, con la speranza di diventare una chiesa alternativa.
    Altri gruppi, invece, per salvare la loro ecclesialità nella mischia del pluralismo e della secolarizzazione, si sono arroccati, chiudendosi in difesa. Hanno assunto una dinamica culturale superata e insignificante. La loro ecclesialità è formalmente indiscutibile; ma purtroppo è minacciata di integrismo, non ha peso sociale e non esprime una “buona notizia” in situazione. Questi gruppi soffrono così una intensa crisi di rilevanza.

    Crisi di identità o di rilevanza e “prassi politica” del gruppo
    La crisi di identità o di rilevanza può investire ogni aspetto della vita dei gruppi. La minaccia è però particolarmente incombente quando il gruppo decide una sua “prassi politica”. Chiamiamo così l'insieme degli interventi che caratterizzano l'azione verso l'esterno: è una prassi, perché si tratta di azioni concrete, programmate e realizzate; è politica perché con questa prassi il gruppo, più o meno consapevolmente, interviene per controllare e modificare gli apparati di gestione del potere, nel fuoco delle situazioni sociali (istituzionali, economiche, culturali, strutturali, ecclesiastiche).
    La prassi politica, vissuta nel nome della radicalità evangelica, è infatti investita da tensioni tanto accese da rappresentare quasi un luogo privilegiato di conflittualità per i gruppi ecclesiali. A questo livello il difficile rapporto tra fede e cultura può veramente gettare il gruppo in crisi di identità per mancanza di ecclesialità o in crisi di rilevanza per carenza di incidenza.
    Per questo affrontiamo esplicitamente il grosso problema della prassi politica, quasi come paradigma di altri possibili approfondimenti.

    3.3.2. Controllare gli “assunti di base”

    Prima di arrivare a qualche indicazione di progetto, dobbiamo spendere ancora una parola sul piano descrittivo e interpretativo.
    Molti testi di dinamica di gruppo mettono in risalto una tendenza diffusa nei gruppi primari, a cui abbiamo già fatto cenno studiando la coesione. Essi sono portati a creare identificazione al gruppo stesso, sperimentato e sognato come un essere vitale, capace di soddisfare ogni attesa affettiva. Per consolidare questa illusione, i membri sono disposti a sacrificare tutti i desideri e tutti i progetti. La fatica di passare all'azione aprirebbe infatti al conflitto e all'angoscia: conflitto richiesto dalla costitutiva ambiguità del reale e angoscia che scaturisce quando si ammettono gli ostacoli che si frappongono alla loro soddisfazione.

    Identificazione e crisi di progettualità
    In questa tipologia possono facilmente rientrare anche i gruppi giovanili ecclesiali. Essi infatti aggregano sulla dimensione formativa e operano prevalentemente attraverso la riflessione, la ricerca e il confronto per assicurare meglio il processo educativo. Sono quindi gruppi molto centrati sulla funzione gratificante del gruppo.
    Anche su di essi inoltre preme quella esigenza di intensi rapporti primari e la pretesa di non avere altro scopo che di vivere assieme e di trovarsi bene, che investono l'attuale condizione giovanile. La stessa esperienza religiosa può essere vissuta come una proiezione rassicurante verso un luogo diverso da quello della nostra difficile situazione quotidiana. Quando poi pesa anche la crisi di identità o di rilevanza, come onda di ritorno del tentativo fallito di decentrarsi verso l'esterno, il fenomeno che stiamo descrivendo si amplifica fino a scatenare atteggiamenti collettivi, a forte carica emotiva, che esasperano la funzione fantasmatica del gruppo.
    Siamo in presenza di un processo molto ambiguo. Merita un esame attento, per i suoi riflessi in ordine alla maturità ecclesiale.
    Quando l'identificazione è fatta con il gruppo, non ci sono leggi, non ci sono capi, non ci sono progetti e non c'è azione. Il gruppo rifiuta il confronto con la realtà e si chiude nella spirale involvente di una illusoria gratificazione. La maturità ecclesiale è minacciata dalla carenza di progettualità.
    La crisi di identità e di rilevanza scatta invece quando il gruppo ha superato questo modello paradisiaco e si è buttato nell'azione, cercando una immagine di sé proiettata verso l'esterno. Per compiere questo passo il gruppo ha dovuto vincere notevoli resistenze: è passato dal mondo delle illusioni a quello della realtà. Se la nuova situazione non lo gratifica, esso viene risospinto più violentemente nel grembo rassicurante dei suoi sogni.
    L'esperienza vissuta lo ha però segnato: non riesce più a coltivare illusioni rinunciando a progetti, ma riempie i suoi progetti di illusioni. Il gruppo si inventa così un nuovo principio di sopravvivenza. La vita riprende a scorrere tranquilla, nonostante la crisi di identità o di rilevanza. Il riaggiustamento non elimina gli ostacoli; li rimuove soltanto. L'effetto critico permane, anche se momentaneamente non se ne avverte l'influsso. Il gruppo è costretto perciò ad impegnare progressivamente, nello sforzo di autoconservazione, quelle energie che dovrebbe al contrario canalizzare nel compito.

    Alcuni assunti di base
    Gli autori che hanno studiato questo fenomeno costatano che gli atteggiamenti di sopravvivenza derivano da alcuni “assunti di base” comuni a tutto il gruppo. Li identificano generalmente nella dipendenza, nell'aggressività e nell'utopia, modalità che spesso si presentano confuse e interdipendenti.
    Seguendo le indicazioni di questi autori, li possiamo brevemente descrivere.
    L'atteggiamento di dipendenza è legato al tentativo di recuperare sicurezza mediante l'accettazione di dipendere supinamente da qualche leader, interno o esterno al gruppo, oppure dal proprio passato, considerato come particolarmente glorioso e affascinante.
    Attraverso atteggiamenti di aggressività si cerca di rimuovere lo stato di crisi lanciandosi contro cose o persone da cui ci si sente minacciati oppure assumendo moduli fortemente competitivi nei confronti con l'esterno.
    La sicurezza può essere anche recuperata proiettandosi continuamente verso un domani radioso, sempre irraggiungibile e per questo utopico. Qualche volta questo atteggiamento assume i contorni di un idillio a sfondo sessuale.
    Se analizziamo gli “assunti di base” anche dalla prospettiva dell'esperienza ecclesiale, non ci molto a costatare che il esso può trovare in essa la sua motivazione più intensa e decisiva. Dipendenza, aggressività e utopia rappresentano infatti modalità che risuonano facilmente nella esistenza cristiana. Sembrano le caratteristiche più ramate del gruppo ecclesiale impegnato. Rileggendo le cose in termini attenti e critici, ci si accorge però che tra il modello evangelico e quello evocato da queste considerazioni c'è una profonda, insanabile differenza. Nell'esistenza credente siamo sollecitati a riconsegnarci a Chi, fuori di noi, è la fonte gratuita e interpellante della nostra speranza e del nostro impegno. Nel gruppo catturato dagli “assunti di base”, invece, la ragione della dipendenza, aggressività e utopia è il gruppo stesso, ripiegato sulla propria storia.
    In questo caso, il gruppo non solo brucia i progetti nella illusione, ma svende questo pericoloso orientamento con le parole ad effetto della sua specificità ecclesiale.

    3.3.3. Verso una proposta

    Abbiamo accumulato una serie di informazioni. Ci hanno aiutato a comprendere meglio il problema che stiamo dibattendo. In questa ricerca ci siamo accorti che il gruppo ecclesiale attraversa le stesse difficoltà degli altri gruppi. La sua speciale collocazione non solo non lo sottrae dai conflitti, ma in un tempo di pluralismo e di crisi li può aumentare e rendere più drammatici.
    Se ne può uscire solo elaborando un modello di “prassi politica”, molto fedele alla fondamentale ispirazione credente ed ecclesiale, anche se costruito in un confronto ampio e disponibile con le esigenze della dinamica di gruppo.
    Anche in questo contesto, infatti, se prendiamo sul serio il gruppo come luogo di formazione e di esperienza ecclesiale, siamo costretti a costatare che non possiamo riservargli solo una funzione strumentale e sussidiaria. Dobbiamo invece riconoscergli un peso importante nella formulazione- dei contenuti della fede. Se vogliamo coniugare la normatività ecclesiale con l'accoglienza piena del gruppo, dobbiamo prendere le distanze nel cuore stesso della implicazione. Non è praticabile perciò né l'ipotesi di mantenere gli eventuali effetti indesiderati in limiti sopportabili, né il tentativo di censurare le sue logiche senza snaturarlo: in ambedue i casi la vera vita del gruppo riprende presto il sopravvento. È necessario invece possedere strumenti di interpretazione e elaborare alternative che dicano il nuovo nel linguaggio tipico del gruppo.
    Nei paragrafi precedenti abbiamo risolto il primo compito. Ora affrontiamo il secondo in una proposta costruita in due movimenti.
    In un primo momento suggeriamo gli atteggiamenti esistenziali che il gruppo ecclesiale è chiamato ad assumere. L'accenno fatto agli “assunti di base” ci spinge proprio in questa prospettiva: il gruppo deciso a farsi carico di impegni e di responsabilità, deve trovare il coraggio di fondare la sua sicurezza su orientamenti che allontanino dalle sicurezze false e alienanti.
    Nel secondo momento scendiamo maggiormente verso il concreto, indicando alcuni modelli di azione. La dimensione politica ispira egualmente i due momenti. Evidentemente si fa più esplicita nella parte conclusiva della proposta, quando formuliamo progetti a carattere operativo.

    Una prassi per produrre vita nuova: i valori
    Il gruppo ecclesiale condivide con gioia e responsabilità la vicenda quotidiana di tutti gli uomini; in essa offre un contributo specifico e originale. Negli innumerevoli conflitti scatenati da questa presenza tutta particolare, la sicurezza nasce dalla coscienza di essere dentro un potente progetto di vita che ci trascende e ci coinvolge.

    - Atteggiamento di riconciliazione.
    La prassi del gruppo ecclesiale deve essere prima di tutto prassi di riconciliazione.
    In un mondo come è il nostro, attraversato da continui conflitti e da insanabili tensioni, l'annuncio di Gesù Cristo comporta l'impegno di rendere trasparente la buona notizia della riconciliazione.
    É Riconciliazione non è rifiuto del ! conflitto, attraverso la sua esorcizzazione o il tentativo di mascherarlo nella ricerca di una comunione, che finge di ignorare le differenze e le contrapposizioni. È invece capacità di stare nei conflitti e nelle tensioni, nella complessità e nella ambiguità, accettandone il significato positivo, anche se doloroso, per la maturazione umana e cristiana. È soprattutto capacità di assumere e di elaborare le conflittualità esistenti, in vista della creazione di sintesi nuove, autenticamente liberanti. Questo comporta nel gruppo l'esaltazione delle diversità, la capacità di accettarsi pur nella varietà delle scelte opinabili, il dialogo continuo anche con chi dissente, la consapevolezza che l'unità della comunione ecclesiale non è uniformità, ma progetto e tensione, dono da invocare e da accogliere nella differenziazione e nella pluralità di espressioni. Il tema della riconciliazione chiama immediatamente in causa l'esercizio del potere. Questo nostro mondo è caratterizzato dalla esaltazione della potenza, dell'efficienza, del successo, della prevaricazione dell'uomo sull'uomo. Lo stesso può avvenire all'interno del gruppo, come documentano tanti esperimenti di dinamica di gruppo.
    Non è certo questa la prassi di Gesù; egli, al contrario, ha sconfitto la potenza di questo mondo attraverso l'impotenza e il fallimento della croce.
    I gruppi ecclesiali devono rendere trasparente nella loro vita la consapevolezza che la salvezza viene soltanto dallo scandalo e dalla follia della croce. In concreto questo significa che il potere ha senso solo nella misura in cui viene usato in favore di chi non ha potere, di chi non conta, di chi è fatto oggetto di emarginazioni e di rifiuti: in una parola, nella misura in cui diventa servizio ai poveri.

    - Atteggiamento di speranza.
    Inoltre, la prassi dei gruppi ecclesiali deve essere prassi di speranza. L'amore di Gesù per gli uomini e per il mondo, fino al dono della sua vita, obbliga i gruppi ecclesiali ad abbandonare ogni pretesa di autosufficienza e di autoconservazione, ogni atteggiamento pessimistico e di rifiuto del mondo. Autosufficienza e disperazione sono due modi opposti di guardare la realtà, che contraddicono però radicalmente la speranza cristiana.
    Dare ragione nella prassi quotidiana della speranza significa per il gruppo essere attento ai bisogni e alle attese umane, assumere la nostalgia dell'uomo per “una patria dell'identità”, testimoniare nella vita che questa patria è vicina e praticabile.
    Nello stesso tempo, dare ragione della propria speranza significa anche contestare la pretesa di assolutizzare il presente e l'avvenire mondano, rivelandone la provvisorietà e la caducità.
    Questa speranza rende il gruppo ecclesiale capace di annunciare il nuovo, il diverso, il gratuito e l'inaudito, suscitando il senso dell'attesa, della sorpresa e della meraviglia, nella coscienza che questi doni non sono il frutto delle mani dell'uomo ma sono il dono di un Dio che ha fatto dal nulla tutte le cose, le ha riscattate con il sangue del suo Figlio e le rinnova fino alla consumazione finale nei cieli nuovi e nella nuova terra.

    - Atteggiamento di povertà e convivialità.
    Un altro atteggiamento della prassi del gruppo ecclesiale è quello della povertà. La povertà è, come la croce, spogliamento radicale, sconfessione della sapienza del mondo e rivelazione della sapienza di Dio.
    La povertà è stile di vita e ragione di solidarietà. Per questo essa è compagnia con tutti gli uomini, condivisione della loro sorte, sollecitazione a costruire insieme a tutti una nuova qualità di vita, facendo fruttificare la potenza della croce di Gesù.
    Gesù è stato pienamente solidale con i poveri. Se il gruppo agisce per i poveri perché ha qualcosa da dare a loro, è dalla parte del ricco che li ha fatti e mantiene poveri, senza condividere se non parte delle sue rapine. Il gruppo ecclesiale non può donarsi a tutti, se non facendo della propria prassi una prassi di povertà. Anche nelle tematiche, molto diffuse oggi, dell'austerità, del rifiuto del consumismo, della riscoperta del corpo e del desiderio, del bisogno di partecipazione, affiora l'esigenza evangelica della povertà.
    Povertà non è rifiuto delle cose che Dio ha messo nelle mani dell'uomo per il servizio della vita, ma non è neppure possesso e appropriazione di queste cose, perché possesso e appropriazione rendono l'uomo schiavo, impedendogli di gustare la gioia di vivere.
    Povertà è comunione e condivisione: è gustare delle risorse della terra e dei beni economici per far crescere la libertà e la fraternità, in una convivialità davvero aperta verso tutti.
    Questa convivialità può essere assunta come un interessante criterio globale per valutare la prassi del gruppo.
    La convivialità esprime uno stile di condivisione in tutti i settori di attività: nella comunicazione della parola e delle esperienze della fede, nella partecipazione eucaristica, nella accettazione fraterna, nell'ospitalità aperta e nella collaborazione operativa.
    La convivialità è la trasparenza della carità: il dono di Dio, che si traduce nell'amore al fratello, fino a dare per lui la propria vita.

    Una prassi per produrre vita nuova: dinamismi strutturali
    Concludiamo la proposta suggerendo alcuni interventi concreti sul piano strutturale.
    La dimensione culturale. In primo luogo è importante sollecitare i gruppi alla riscoperta della dimensione culturale anche nella prassi politica. Siamo in un tempo di incertezza e di crisi, in cui sembra smarrita la carica di fiducia e la spinta utopica. Per recuperarla, i gruppi giovanili sono chiamati a favorire aggregazioni di tipo culturale, alla elaborazione di stategie per la soluzione dei problemi immediati e di quelli a più largo respiro, alla faticosa invenzione di spazi di incontro e di confronto.
    li gruppo che si impegna a fare cultura in questa prospettiva, vive una reale esperienza politica, perché è costretto ad entrare in contatto con le forze sociali presenti sul territorio in cui esso opera. Sorgono così canali di comunicazione e di verifica che abilitano ad un modo rinnovato di progettare l'azione politica. Il gruppo assolve il suo compito educativo e politico: diventa momento di informazione e di sensibilizzazione; fa opinione; prende posizioni sui problemi; crea tempi di studio e di riflessione; si qualifica progressivamente.
    La decisione, il controllo e la gestione del cambio. Un'altra esigenza importante è data dalla necessità di educare nel gruppo alla decisione, al controllo, alla gestione del cambio.
    Troppo spesso nell'educazione e nella prassi politica si è tentati di procedere con un riferimento alla realtà fatto di categorie semplicistiche, a risonanza moralistica, generiche e scontate.
    Questa mentalità complica molto la possibilità di un inserimento attivo e critico nel cuore dei problemi. C'è un lungo cammino da percorrere per abilitarsi a sapere elaborare analisi accettabili sul piano culturale e politico.
    Lo stesso si può ricordare a proposito della educazione alla decisione. Troppi gruppi funzionano solo perché tutto viene deciso in un ambito ristretto.
    In essi i giovani sono progressivamente abituati a consumare proposte e servizi, senza poter esercitare alcuna presenza attiva e critica nella loro elaborazione.
    La capacità di decidere comporta anche una funzione di controllo. Non basta analizzare, decidere e programmare; occorre anche saper verificare i risultati delle iniziative promosse dal gruppo e di quelle, ecclesiali o sociali, in cui il gruppo risulta coinvolto.
    L'abitudine al controllo non è facile. L'interesse per la verifica si può spegnere gradualmente, perché l'esercizio del controllo richiede l'assunzione di nuove informazioni, la resistenza all'usura dell'emotività, il contatto con esperti, la progressiva qualificazione personale e di gruppo. Ricordiamo infine la pratica di ciò che possiamo chiamare “gestione del cambio”.
    È politicamente capace solo colui che è lucido nella comprensione e nel controllo dell'itinerario che porta alle decisioni politiche e alla realizzazione di quelle approvate. Basta pensare al necessario compromesso richiesto per approdare a decisioni condivise, nell'ambito del pluralismo diffuso. L'arte di comporre le forze, di far approdare posizioni diversificate verso una prospettiva nuova, accettata da tutti, sta poco di casa anche nell'istituzioni ecclesiali. Troppo spesso prevale una rigida fedeltà ai principi astratti; o si accentuano i giochi di maggioranze e minoranze, incapaci di farsi interrogare dalle proposte delle controparti. Anche gli esclusi preferiscono spesso i gesti di rottura che non impegnano nella fatica intelligente e paziente di ricomporre le tensioni e di approdare a nuove prospettive.
    L'impegno nel “prepolitico”. Ricordiamo infine una esperienza dimenticata: l'educazione al politico passa attraverso l'impegno nel “prepolitico”.
    La dilatazione in atto nel concetto di politica ha qualche volta svalutato troppo affrettatamente una serie di iniziative urgenti, dotate di una particolare forza educativa.
    Chiamiamo questa area di interventi il “prepolitico”.
    Pensiamo in concreto, alla necessaria rivalutazione di iniziative tese a favorire una riaggregazione giovanile in cui sia possibile “stare assieme” in modo nuovo, avere rapporti interpersonali accettabili e gratificanti, confrontarsi, progettare attività.
    Pensiamo anche alle iniziative destinate a fare cultura a livello popolare come il cineforum, il teatro, lo spettacolo musicale, le tavole rotonde, i dibattiti su tematiche di interesse giovanile.
    Sempre in questa logica di “prepolitico”, ricordiamo il servizio di volontariato agli emarginati, agli anziani, la solidarietà con i poveri e il terzo mondo, l'impegno per l'educazione dei più piccoli e le attività di animazione.
    In queste attività si realizza un servizio concreto e preciso.
    Nello stesso tempo ci si abilita a superare l'idealismo adolescenziale che tende a ridurre la politica ad un vuoto gioco di parole, inibendo di fatto il circuito tra riflessione e azione, tra collettivo e personale.
    Il gruppo mette così le basi per una adeguata e maturante crescita nel politico. E scopre, dal vivo della propria esperienza, che la trasformazione sociale, a cui mira la politica, è frutto di una trasformazione delle diverse dimensioni dell'esistenza umana. Si diventa consapevoli del ruolo politico che hanno il consolidamento di valori personali autentici, la creazione di processi culturali alternativi e la elaborazione di nuove esperienze che rimettano in discussione gli schemi attuali delle strutture sociali.

    Alcuni interrogativi.
    Concludiamo la rassegna di interventi, proponendo a voce alta quegli interrogativi che sono rimbalzati certamente su molti lettori. Per i gruppi ecclesiali l'impegno politico si riduce a questi interventi sul culturale e sul sociale? Quello che è capitato a tanti gruppi giovanili nei tempi della prima scoperta politica ci spinge verso un rifiuto della militanza politica diretta? Assicuriamo l'ecclesialità di gruppo a quella ritrosia verso il politico che ha segnato tanti modelli educativi e pastorali tradizionali e che si affaccia anche in alcuni documenti ecclesiastici?
    La nostra risposta si richiama ad un itinerario di progressiva responsabilizzazione, per essere pienamente educativa.
    Prima di tutto sottolineiamo che l'impegno nel culturale e nel sociale (nel prepolitico, come dicevamo) è già un preciso e concreto impegno politico.
    Certamente non può bastare. La trasformazione sociale richiede la presenza liberatrice nel centro dei conflitti e nella gestione diretta del potere.
    Crediamo però, sulla scorta di tante esperienze, che questa militanza politica debba essere proporzionata al livello di maturìtà personale raggiunta e alla capacità di controllare le tensioni. Pensiamo inoltre che questo tipo di impegno non possa normalmente essere assunto a titolo di gruppo. Ricordiamo ancora quel rapporto tra unità sul fondamentale e differenziazione operativa su cui si fonda il nostro progetto di coesione.
    L'esito del processo è suggerito nelle battute conclusive di questa ricerca: la trasformazione dei gruppo da luogo di appartenenza a esperienza di riferimento, per sollecitare una presenza piena di ciascuno là dove si costruisce la storia comune, in una solidarietà che si fa “compagnia” con tutti coloro che vogliono lottare per liberare l'uomo costruendo strutture di liberazione.


    4. VERSO LA COMUNITÀ?

    Siamo arrivati alla conclusione del nostro lungo cammino.
    Le molte informazioni accumulate hanno suggerito risposte agli obiettivi che ci eravamo prefissati aprendo la ricerca. Per restare fedeli a quella preoccupazione operativa che ha costituito il filo conduttore di tutto il lavoro, dobbiamo organizzare in un progetto unitario e sintetico il materiale progressivamente elaborato. Abbiamo affermato la centralità del gruppo. Abbiamo però continuamente ricordato che il gruppo deve restare luogo di libertà e di creatività per le persone che lo compongono. Abbiamo anche sottolineato a più titoli il continuo urgente confronto con la comunità ecclesiale. La centralità del gruppo risulta così trascinata verso la persona e verso l'istituzione.
    Queste esigenze sono spesso vissute dai gruppi giovanili come contraddittorie e alternative.
    Come elaborarle in un progetto operativo senza vanificarne una a vantaggio delle altre?
    Su questo problema concentriamo perciò la nostra riflessione.
    Ci muoviamo in due momenti progressivi.
    Nel primo mettiamo il gruppo al centro e facciamo della “transazione” un modello di relazione gruppo - persona - istituzioni per il tempo del gruppo.
    Nel secondo ci proiettiamo in avanti, guardando all'esito della vita di gruppo (allo “sbocco”, come si dice in gergo), verso il tempo in cui la transazione viene risolta in una rinnovata comunità ecclesiale che accoglie con gioia i figli che ha generato e “assieme” si pone al servizio della vita per fare il Regno di Dio nella storia.

    4.1. Transazione: gruppo-persona-istituzioni

    II gruppo ecclesiale si trova in un sistema dinamico costituito da tre poli ìn reciproca relazione: il gruppo stesso, come entità nuova, caratterizzata da un fascio di fenomeni che non coincidono con la somma di quelli espressi dalle persone che lo compongono; queste persone, soggetto irripetibile di decisione e di responsabilità anche in situazione di gruppo; la comunità ecclesiale di cui il gruppo è “mediazione”.
    Da una parte, la riflessione teologica utilizzata per definire la funzione del gruppo in ordine al senso di appartenenza ecclesiale, ha messo in primo piano l'esigenza di intessere rapportì tra il gruppo e la Chiesa nel suo insieme. Dall'altra, molte esperienze confermano che riesce a relazionarsi in termini corretti con l'istituzione ecclesiale solo quel gruppo che è capace di instaurare un sistema di vita interna che faccia spazio alla irripetibile responsabilità personale dei suoi membri, senza rinunciare ad essere pienamente e intensamente gruppo, luogo cioè di rapporti interpersonalí omogeneizzanti.
    Quando un gruppo fagocíta la libertà e la decisionalità dei suoi membri, essi non sentono affatto l'esigenza di decentrarsi verso altre istituzioni: il gruppo è così rassicurante e involvente, che si teme appassionatamente di uscirne. Il gruppo diventa totalizzante e autoescludente.
    Lo stesso discorso vale per situazioni opposte. Quando il gruppo non sa rappresentare uno spazio di identificazione, perché si deteriora fino a diventare semplice aggregazione sul compito, priva di ogni coesione primaria, le persone vivono allo sbaraglio. Manca ad essi una esperienza di identificazione; sono quindi strutturalmente incapaci di valutare la significatività dell'appartenenza ecclesiale, di quella appartenenza che richiede un grosso impegno di razionalità per risultare meritevole di identificazione.
    Il problema che stiamo studiando è in ultima analisi problema di relazione: cerchiamo un modello maturo e maturativo di relazione tra gruppo-persona-istituzione ecclesiale.

    4.1.1. Transazione come relazione

    Transazione significa appunto relazione. Usata in forma positiva significa modello positivo di relazione. La proposta è dunque questa: costruire transazione nel gruppo; elaborare cioè nel gruppo un modello di relazione capace di salvare due esigenze apparentemente contraddittorie: l'autonomia e l'interdipendenza. Ci spieghiamo.
    Gruppo e istituzione ecclesiale da una parte e gruppo e persona dall'altra sono realtà distinte, autonome, che hanno una loro ragione costitutiva fondamentale che le distingue e le fa esistere a prescindere dall'altro polo relazionale. Il gruppo è, come dicevamo, evento di Chiesa: non deriva il suo essere ecclesiale dalla Chiesa istituzione, ma la esprime, la invera, la visibilizza. La sua ecclesialità gli proviene dal “mistero salvifico” che si porta dentro, come sacramento di ecclesialità.
    La Chiesa non deriva la sua ragione d'essere dal gruppo, come è evidente. Gruppo e Chiesa sono quindi due realtà autonome e distinte. Lo stesso si può dire a proposito del rapporto gruppo-persona. Il gruppo non è la somma delle persone che lo compongono. Come ricorda la dinamica di gruppo, esso è invece l'insieme delle relazioni che intercorrono tra le persone che lo compongono: una realtà nuova, autonoma, rispetto ai suoi membri.
    La persona infine esiste in sé, a prescindere dal gruppo di cui può far parte.
    Le cose dette finora però ci costringono ad affermare immediatamente che gruppo-persona-Chiesa non possono sussistere pienamente se non in un reciproco intenso rapporto. La persona ha bisogno del gruppo come suo “grembo materno”: l'abbiamo approfondito analizzando la funzione di “condizione” della comunità in ordine alla maturazione della fede.
    II gruppo ha bisogno della Chiesa nel suo insieme (Chiesa particolare, locale e universale), perché esso è Chiesa, ma non è “la” Chiesa. È evento di Chiesa nella misura in cui è aperto, relazionato, confrontato con la grande Chiesa. La Chiesa, infine, ha bisogno del gruppo, per essere presente, esperimentabile a livello giovanile: il suo essere sacramento diventa in situazione giovanile il gruppo, luogo privilegiato in cui la Chiesa si fa appello significativo.
    Transazione è quel tipo di relazione che sa coniugare armonicamente le due esigenze di autonomia (perché persona, gruppo e istituzione ecclesiale esistono in sé e in sé possiedono una loro ragione autonoma) e interdipendenza (perché gruppo, persona e istituzione hanno l'uno bisogno dell'altro per la rispettiva autenticità): un tipo di relazione tra persona, gruppo e istituzione, nuova rispetto a quelle spesso diffuse, che si riducono alla conflittualità permanente, al misconoscimento, alla cattura reciproca, alla dissoluzione di ogni relazione.
    II futuro del gruppo ecclesiale sta, in questa nostra ipotesi, nella sua capacità di vivere in stato di transazione, ai tre livelli del sistema: le singole persone, nella loro individualità irrepetibile, il gruppo come centro educativo privilegiato, l'istituzione ecclesiale come Chiesa in cui sono assicurate le dimensioni normative di ecclesialità.

    4.1.2. Un modello di transazione

    Per non lasciare nel vago una esigenza così importante, possiamo tentare una proposta di modelli di transazione. Lo facciamo analizzando le due fondamentali relazioni su cui va giocata la transazione: il rapporto gruppo-persona e il rapporto gruppo-istituzione.

    Rapporto persona-gruppo
    A proposito del rapporto gruppopersona, consideriamo immaturi, non sufficientemente capaci di assicurare la transazione, due modelli: quello “individualista” e quello “organologico”.
    II primo modello inadeguato lo chiamiamo “individualista”, perché considera il gruppo come la somma di individui, per nulla modificati e influenzati nella loro individualità dal fatto di realizzare una esperienza di gruppo. In questo modello, gli interventi educativi sono sempre e unicamente centrati sull'individuo preso come singolo. Il gruppo rappresenta solo una buona occasione per la realizzazione di questi processi.
    Il secondo modello inadeguato lo chiamiamo “organologico”, utilizzando un termine poco felice ma espressivo se ben compreso. Si considera il gruppo come un organismo fisico (di qui, dunque, l'aggettivo “organologico”), che produce attività e formazione. Gli individui partecipano a questa produzione per il fatto di far parte fisicamente del gruppo. In questo modello, la pressione di conformità è spinta al massimo. Il gruppo è centrato sul gruppo. La persona riceve dal gruppo per osmosi.
    Il modello che ipotizziamo per definire la transazione è quello che ci piace immaginare, con una espressione già utilizzata, a “grembo materno”: gli atti decisivi sono sempre compiuti personalmente, nell'intimo della propria libertà e responsabilità, perché solo personalmente si può credere, sperare, amare, incontrare Dio, attuare nella propria vita l'evento di tale incontro. Queste azioni sono però vissute nel gruppo come luogo di produzione e di sostegno della vita, come grembo materno, appunto: la solidarietà del singolo con gli altri risulta così profonda che il suo individuale essere salvo non può venire separato dal suo essere-in-gruppo.
    Sul piano operativo, questo modello comporta precise attenzioni. Da una parte si costruisce clima di gruppo, favorendo intensamente lo spontaneo stare insieme, per creare uno spazio caldo dove fare esperienza di vita nuova. Dall'altra, nel gruppo è costante la preoccupazione di responsabilizzare ciascuno alle proprie decisioni: il confronto è ricercato attivamente, sono evitati gli sbandamenti emotivi, lo stile di animazione non è mai non-direttivo, si fa largo uso di approcci razionali.

    Rapporto gruppo-istituzione
    A proposito del rapporto gruppoistituzione, ci sembra importante affermare la funzione di mondo vitale da riconoscere al gruppo e progettare la transazione a partire da questa scelta.
    Ci spieghiamo meglio.
    Anche in questo caso, indichiamo i due modelli che riteniamo inadeguati: così, dal negativo, è più facile ritagliare la proposta positiva che intendiamo fare.
    Il primo modello inadeguato è quello che riduce il gruppo a luogo di rifugio e di conforto per la persona. La cessione del proprio tempo al gruppo non avviene in vista della realizzazione di un progetto condiviso; ma piuttosto per ritrovare nel gruppo un rafforzamento verso l'esterno minaccioso. Si sta assieme, perché assieme si esperimenta quel conforto esistenziale che l'istituzione rifiuta o minaccia, spingendo verso il formalismo o l'anonimato. L'aspetto negativo di questo modello, quello che ci fa denunciare la carenza di transazione, non è dato dalla ricerca di conforto o di esperienza diretta di incontro: questa è una esigenza irrinunciabile. Denunciamo come immaturo questo modello, quando chi lo pratica non spende nessuna energia per modificare l'esterno che non soddisfa: si arriva così veramente ad una “chiesa parallela”.
    II secondo modello inadeguato è quello giocato sul fronte opposto: il funzionalismo. II gruppo non ha nulla di autonomo, ma tutto è in funzione della istituzione. Rappresenta solo la “riserva di caccia” della istituzione. II gruppo è così centrato unicamente sul compito verso l'esterno. La legge dell'efficienza (della produzione continua di risposte alle esigenze che emergono nell'istituzione) schiaccia ogni ricerca di gratificazione (di ciò, cioè, che il gruppo è capace di fare per rispondere ai bisogni dei suoi membri). Il modello positivo, quello in cui si vive un intenso rapporto di transazione, è rappresentato da quel gruppo che risulta momento autonomo della vita dei suoi membri e che, nello stesso tempo, cerca costantemente il confronto con l'istituzione per essere pienamente luogo vitale per tutti i suoi membri.
    Il gruppo, come spazio di intensi rapporti primari, è il luogo fondamentale in cui i giovani di questo tempo di crisi vivono l'esperienza di Chiesa. Nel gruppo e attraverso il gruppo essi ricostruiscono progressivamente la loro identità cristiana; nel gruppo elaborano un linguaggio per dire la loro fede, saldando in un'unica parola la loro soggettività e l'oggettività dell'esperienza credente; nel gruppo essi celebrano la loro vita quotidiana che si fa salvata in Gesù Cristo; nel gruppo apprendono a riconoscere la Chiesa come progetto donato, da accogliere nella conversione e nella lode.
    Nel gruppo, in una parola, si vive la vita di Chiesa.
    Attraverso il gruppo i giovani possono fare esperienza di avere legami indissolubili, attivi e passivi, con tutto il sistema sociale. Per questo è ricercato costantemente il confronto con l'istituzione, considerata il luogo della “ecclesialità normativa”, in cui le diverse soggettività sanno riconoscersi nella oggettività del dato ecclesiale, nella collettività, che supera la primarietà dei rapporti esperimentati nel gruppo, nella storicità (diacronica e sincronica) che sollecita a considerare il gruppo come un frammento, importante ma sempre relativo, del grande popolo dei credenti in Gesù Cristo. In questo modello di transazione l'appartenenza vitale è al gruppo. Nel gruppo e attraverso il gruppo, questa si apre alla più vasta e complessiva appartenenza (intensamente vitale) alla Chiesa.
    Sul piano operativo, la praticabilità del modello è condizionata dalla capacità che il gruppo e l'istituzione ecclesiale possiedono nei confronti dell'interlocutore. Transazione, infatti, dice relazione bilaterale, ricerca di rapporti nata dalla profonda coscienza del “bisogno” vitale dell'altro. Senza questa bipolarità non ci può essere transazione, ma solo sopraffazione. Da una parte, quindi, il gruppo cerca costantemente la comunità ecclesiale, perché la vita nuova prodotta e esperimentata nel mondo vitale” sia oggettivamente e autenticamente vita (riconoscendo la funzione normativa dell'istituzione) e “vita per tutti”, anche per quei giovani più poveri che non hanno il gruppo come mondo vitale (riconoscendo la sostanziale esigenza di “popolo” e di “territorio” che caratterizza l'istituzione ecclesiale). Dall'altra, la comunità ecclesiale cerca il gruppo, come sua presenza in prima linea nelle situazioni di morte, riconoscendo che il gruppo è principio di rinnovamento e di vitalità missionaria per la Chiesa tutta.

    4.2. Verso la comunità

    La transazione è momento transitorio. Rappresenta un tempo di quel processo di maturazione verso l'età adulta, un tempo che è destinato a dissolversi. La meta è la comunità che vive l'unità nella pluralità perché riconosce adulti i suoi figli. Come si vede, ciò che il gruppo è chiamato ad assicurare ritorna presto all'unico soggetto di ecclesialità: la comunità.
    Quest'esito non è però automatico. Richiede che i primi passi del processo siano già segnati, almeno germinalmente, da quello che risulterà l'esito finale. E richiede una capacità di conversione nei tre “poli” del processo transazionale (persona, gruppo e comunità), perché il nuovo modello è più avanti di quello che ora si sta vivendo.
    I giovani sono chiamati a maturare in adulti, in persone capaci di appartenere anche a gruppi secondari, di cui si condivide il significato e la missione, anche senza il sostegno esterno dei rapporti primari.
    Il gruppo ecclesiale è sollecitato ad operare un progressivo spostamento dalla funzione di appartenenza a quella di riferimento, per permettere ai propri membri una appartenenza intensa là dove si lotta per promuovere la vita, nella storia di tutti.
    Qualche gruppo potrà evolvere in una “comunità cristiana”, allargando l'orizzonte dei suoi obiettivi e conservando un alto indice di appartenenza. Ma questa ipotesi la valutiamo come situazione eccezionale, anche se fortemente significativa. Ci sembra invece “normale” che il gruppo concluda la sua esperienza, in quanto gruppo primario, e si prolunghi come semplice gruppo di riferimento, dove si celebra quella fede comune che è stata espressa in modelli diversificati, in “compagnia” con ogni uomo di buona volontà.
    La comunità eccesiale è chiamata a decentrarsi sempre più intensamente verso la sua missione. Sul compito di essere H sacramento di salvezza” essa definisce la sua identità. Riesprime la salvezza di cui è sacramento in un orizzonte culturale più vicino alle attese degli uomini d'oggi; per questo si sente impegnata a far nascere “vita nuova” nel nome e per la grazia del suo Signore. Questa autocomprensione la condurrà ad accogliere gioiosamente le diversificate prassi di promozione della vita e a unificarle nella confessione e nella celebrazione dell'unico Signore. Nello stesso tempo, essa aiuta tutti a vivere nella trepida attesa del Regno che viene, unico approdo di perfezione piena e definitiva, che contesta la radicale provvisorietà e insufficienza di ogni umana produzione di vita.
    Qualcosa si sta già muovendo in queste direzioni. Le indichiamo quindi con rinnovata speranza, senza presumere di verificare se stiamo descrivendo fatti del presente o sognando futuro.


    BIBLIOGRAFIA

    “Costruire la comunità ecclesiale dai laici per animare da cristiani la società italiana”. Ricerca sulla riaggregazione del mondo cattolico, AVE, Roma 1980.
    Esperienza di comunità, esperienza di Chiesa. Corso di formazione religiosa permanente, LDC, Leumann 1980.
    Fallico A., Quando un gruppo diventa Chiesa, La Roccia, Roma 1972.
    Godin A., La vita di gruppo nella Chiesa, Pubblicazioni religiose, Trento 1971.

    Godin A., Psicologia delle esperienze religiose: il desiderio e la realtà, Queriniana, Brescia 1983.
    Liégé P. A., Lo stare assieme dei cristiani tra comunità e istituzioni, Queriniana, Brescia 1979.
    Moltmann J., Nuovo stile di vita. Piccoli passi verso la,”comunità”, Queriniana, Brescia 1979.
    Santoro F., La comunità condizione della fede, Jaca Book, Milano 1977.
    Secondin B., Movimenti comunitari, in Goffi T. - Secondin B. (ed.), Problemi e prospettive di spiritualità, Queriniana, Brescia 1983, 389-408.
    Tonelli R., Gruppi giovanili e esperienza di Chiesa, LAS, Roma 1983.

    IL CANOVACCIO

    Per una scuola di giovani animatori

    Franco Floris - Domenico Sigalini


    Il quaderno si propone i seguenti obiettivi:

    - una chiarificazione di alcuni termini e dei loro rapporti;
    - una riflessione teologica per definire l'ecclesialità di un gruppo;
    - una riflessione educativa sul cammino del gruppo ecclesiale verso la maturità.

    I TERMINI E I PROBLEMI IN GIOCO

    Un primo obiettivo del quaderno è la chiarificazione e l'apprendimento corretto dei termini, anche perché spesso vengono usati in modo generico con sovrapposizione di significati.
    Vediamo subito come può essere organizzato il lavoro nel corso per giovani animatori.

    1. Gruppo-associazione-movimento

    Se non è già stato studiato il Q16 "Il gruppo come luogo di comunicazione" l'attenzione va posta anzitutto sul termine centrale chiedendo di rispondere alla domanda: cosa è gruppo?
    Si possono utilizzare diverse tecniche di lavoro: una riflessione sulla propria esistenza di gruppo alla ricerca dei tratti che lo caratterizzano; si può usare il Philips 6x 6 con il mandato: “quali sono i tratti costitutivi di un gruppo?”; si può ricorrere alla definizione offerta dal quaderno (pag. 4) o ad altra ripresa da qualche manuale di dinamica di gruppo (si veda, più da vicino, il Q16). Non è necessario arrivare ad una definizione scientifica, ma solo ad un quadro sufficientemente chiaro di cosa si intende per gruppo.
    Una seconda fase di lavoro può essere la ricerca della continuità e discontinuità tra i tre termini: gruppoassociazione-movimento.
    Il lavoro può prevedere questa articolazione:
    - ci si divide in vari gruppetti, e partendo dalla propria esperienza, si individuano forme aggregative, nella chiesa e fuori, che è possibile etichettare come gruppo, associazione, movimento;
    - sempre divisi a gruppi ci si chiede in che cosa queste tre realtà aggregative si differenziano. Per farlo è importante mettersi d'accordo sugli “indicatori”, cioè sui punti di vista da cui osservare e valutare. Si può utilizzare la tavola riportata in questa pagina.
    Segue il confronto in assemblea (se si è lavorato a gruppi) e lo studio delle pagine 4-5 del quaderno dedicate all'argomento in esame.

    q9 59

    2. Gruppo-comunità-società

    Si può articolare il lavoro come per la terna precedente. In concreto:
    - raccolta di informazioni sui tre termini, in particolare sulla distinzione tra comunità e società; per facilitare il lavoro si può porre la domanda: “perché si parla di comunità ecclesiale e di società civile”? o anche la domanda: “perché si parla di comunità europea e di società italiana”?
    - può seguire un approfondimento ulteriore dei tre termini attraverso una tavola simile, anche per gli indicatori, a quella offerta per la terna precedente;
    - infine, il confronto in assemblea e lo studio della pagina 6 del quaderno.

    3. Gruppo primario/secondario, di appartenenza/riferimento

    È opportuno cambiare la tecnica di lavoro. L'animatore o l'esperto possono dare la definizione di gruppo primario e gruppo secondario, gruppo di appartenenza e gruppo di riferimento.
    Dopo si lavora insieme per trovare gruppi che corrispondano, grosso modo, alle distinzioni enunciate e per individuare i problemi che nell'arco di alcuni anni incontra un gruppo che da primario diventa secondario o da appartenenza vuol diventare di riferimento.

    4. Transazione gruppo-persona-istituzioni

    Il quaderno utilizza la transazione in chiave di soluzione dei problemi educativi del gruppo (cf paragrafo 4.1.). È però possibile ed importante utilizzare tale schema fin dall'analisi dei problemi del gruppo giovanile oggi.
    Indichiamo una traccia di lavoro.
    - In un primo momento ci si chiarisce ancora una volta i termini, in particolare la coppia gruppoistituzione. Cosa si intende per istituzione? Un gruppo è, o almeno può essere, una istituzione? E, prima ancora, cosa si intende per transazione? (su questo cf anche Q5, pp. 14-15).
    - In un secondo momento si può passare a raccogliere i problemi educativi nella propria esperienza di gruppo, suddividendoli in due aree:
    ^ area della transazione gruppopersona;
    ^ area della transazione gruppoistituzione.
    Si può utilizzare, per ora a livello di descrizione dei problemi, la tavola di pag. 31 dove è previsto anche un momento di riflessione sul versante educativo, sotto il titolo: “quali iniziative per una soluzione positiva?”.
    Elenchiamo alcuni possibili problemi. Altri vanno ricercati insieme.
    ^ Area persona-gruppo: il gruppo non riesce a portare a maturazione i suoi membri; il gruppo richiede una adesione totalizzante impossibile a molti giovani; il gruppo non ha obiettivi o sono estranei alla vita dei suoi membri; ogni persona usa del gruppo quando gli fa comodo...
    ^ Area gruppo-istituzione ecclesiale: manca una comunità a cui il gruppo possa far riferimento; il gruppo si è chiuso al suo interno come “mondo vitale”, separato dalla comunità più grande; la comunità pensa al gruppo come serbatoio di mano d'opera da utilizzare senza vera corresponsabilità; compiacimento della comunità perché i giovani non “contestano” più, anche se poi non fanno niente; il gruppo vive all'oratorio ma non si sente chiesa o parte della chiesa né accetta l'esperienza cristiana; nessuno si occupa dell'educazione dei giovani e dei piccoli in parrocchia...

    PERCHÉ I GRUPPI GIOVANILI NELLA CHIESA?

    Il secondo obiettivo del quaderno è dimostrare, attraverso la riflessione teologica, come il gruppo giovanile sia (o possa essere) luogo ecclesiale a titolo originario (paragrafo 2).
    Il quaderno articola la sua riflessione in cinque passaggi: il compito della chiesa nel mondo (2.1.); dalla Chiesa in generale alla “comunità concreta” (2.2.); la chiesa come “condizione” della fede (2.3.); il gruppo ecclesiale è chiesa a pieno titolo (2.4.); quale gruppo è ecclesiale? (2.5.).

    La presenza del gruppo giovanile nella comunità ecclesiale

    Come si è già detto questa parte del quaderno è di taglio teologico. Come tale è possibile presentarla attraverso un momento di studio del testo scritto.
    Il lavoro può essere organizzato in quattro tempi:
    - sensibilizzazione sul tema attraverso alcune domande distribuite ai gruppi;
    - introduzione al tema attraverso la relazione di un esperto;
    - studio delle pagine 8-11 del quaderno, suddivisi a piccoli gruppi; - assemblea di verifica della comprensione del testo e tentativo di risposta, questa volta documentata, alle domande di partenza.
    Le domande possono essere di questo tipo:
    - a che serve la chiesa nel mondo? è un'istituzione inutile, oppure...? non basta essere credenti per essere salvi? (2.1.); che ne dite dello slogan “Cristo sì, Chiesa no!”? Per una sensibilizzazione su questo argomento si può anche utilizzare il gioco dei tre cerchi (chiesa, mondo, regno di Dio) e delle loro possibili sovrapposizioni (cf Q3 alla pag. 30); - potete dire di appartenere alla chiesa? in base a che cosa lo affermate? a “quale” chiesa vi sentite appartenenti: universale, diocesana, parrocchia, il vostro gruppo?
    - un parroco ha il diritto, secondo voi, di abolire i gruppi giovanili o chiudere il centro giovanile per fare comunità tutti insieme?
    - il gruppo giovanile: quando, secondo voi, può attribuirsi il titolo di “gruppo ecclesiale”? quali condizioni deve rispettare? è sufficiente che un gruppo partecipi alla liturgia? una squadra sportiva può essere un gruppo ecclesiale?
    Su un tema scottante come quello della presenza o meno dei gruppi giovanili nella parrocchia si può organizzare una tavola rotonda con un parroco, un giovane, un animatore di gruppo, un genitore. Tema: “gruppi sì, gruppi no nella parrocchia”.
    Per una documentazione su “giovani e chiesa” si può ricorrere alla “ricerca Milanesi”, Oggi credono così, LDC 1981, vol. II, pp. 195 ss. Per un approfondimento invece dei modelli di presenza dei gruppi giovanili nelle comunità ecclesiali, si veda R. Tonelli, Gruppi giovanili eesperienza di Chiesa, LAS Roma 1983, pp. 25ss.

    II gruppo tra “signa ecclesiae e “signa regni”

    Una riflessione a parte, per le sue implicanze educative, merita la definizione dell'ecclesialità del gruppo nel rapporto tra “signa regni” e “signa ecclesiae”. Spesso è proprio su questo terreno che ci si scontra tra giovani e istituzione ecclesiale. Il rapporto tra “signa regni” e “signa ecclesiae” è problematico anche per i giovani i quali a volte preferiscono chiudersi all'interno della amicizia di gruppo o della preghiera oppure limitare l'identità cristiana al servizio di piccoli o agli anziani o al terzo mondo.
    Una tecnica di animazione che può risultare simpatica per affrontare questo scottante argomento è un processo giudiziario a cui prendono parte tutti i presenti come giudici, avvocati, imputati, pubblico accusatore, gruppi di sostegno delle tesi degli imputati...
    Dopo aver scelto un giudice e due imputati, il primo dei quali espone il punto di vista dei giovani (che difendono I'ecclesialità concentrata sui “signa regni”) ed il secondo il punto di vista del parroco e dei suoi collaboratori (che difendono i diritti dei “signa ecclesiae” nella vita di gruppo), il pubblico si divide in due partiti.
    Ogni partito ricerca convincenti materiali di sostegno per la tesi dell'imputato che vuole difendere. Segue l'esposizione in assemblea, ulteriore discussione e, infine, verdetto del giudice.
    Il tutto svolto, dall'inizio alla fine, come un grande gioco, che non per questo sarà meno serio. Senza drammatizzare le cose o colpevolizzare alcuno.

    Vantaggi e limiti pastorali della scelta del gruppo

    Parlando di gruppo giovanile come mediazione di chiesa e quindi di educazione alla fede il quaderno propone due scelte pastorali sulle quali è importante soffermarsi:
    - scegliendo il gruppo come luogo educativo ed ecclesiale si sceglie tra pastorale giovanile di massa e pastorale della moltiplicazione degli “a tu per tu”; a questo punto si pone un interrogativo: e per quei giovani che non entrano nei gruppi che si fa? più in generale, quali sono i vantaggi e gli scompensi della “scelta di gruppo”?
    - scegliendo il gruppo come mediazione di chiesa il quaderno si orienta tra altre concezioni circa la presenza dei gruppi nella chiesa. Alcuni affidano al gruppo una funzione solamente propedeutica rispetto alla comunità ecclesiale. Altri gli affidano una funzione strumentale. Altri ancora una funzione di chiesa parallela. Altri infine, come del resto anche il quaderno, una funzione di ecclesiogenesi. Su queste prospettive si veda R. Tonelli, Gruppi giovanili e esperienze di chiesa, o.c., pp. 25-29.

    LA MATURITÀ DEL GRUPPO ECCLESIALE

    Nella parte terza del quaderno viene ripensata l'ecclesialità di gruppo in chiave educativa, cioè dal punto di vista del gruppo che si propone di “maturare” come gruppo ecclesiale.

    Come misurare la maturità del gruppo ecclesiale

    Nel quaderno la maturità del gruppo:
    - non è vista come punto di arrivo di un cammino, ma come qualifica che deve avere il cammino fin dall'inizio;
    - non è vista in astratto ma in concreto come “sintesi vitale” tra due tensioni che creano un campo di forze dentro cui si vive l'ecclesialità come cammino sempre nuovo.
    C'è un altro aspetto della maturità del gruppo che va esplicitata, ed è il rapporto tra “maturità di gruppo” e “maturità ecclesiale” che porta anche a parlare di ecclesialità implicita e di ecclesialità esplicita. Per sollevare il problema si può utilizzare un esempio. Siamo di fronte ad un gruppo in cui regna, come si dice, l'amicizia. Quando si può dire che questo gruppo sta maturando come ecclesiale? Cosa è richiesto? II quaderno vuol portare a riflettere su due aspetti:
    - è ecclesiale un fenomeno come l'amicizia se misura la sua maturità non solo sulle indicazioni della dinamica di gruppo, ma anche su quelle dell'esperienza cristiana, in modo da attivare un circolo ermeneutico tra le due serie di indicazioni;
    - è ecclesiale un fenomeno come l'amicizia se in qualche modo è accompagnato dallo sforzo di passare dall'implicito all'esplicito, cioè da una ecclesialità vissuta in modo inconsapevole ad una ecclesialità riconosciuta, confessata e celebrata.
    Su questi criteri per un cammino verso la maturità ecclesiale del gruppo ci si può verificare insieme.

    Maturità del gruppo nella coesione interna e nella prassi politica

    Nelle due parti seguenti (paragrafi 3.2. e 3.3.) il quaderno riprende la logica di maturazione ecclesiale esposta al 3.1. e la applica a due fenomeni di gruppo: la coesione e la prassi politica.
    Il quaderno, è importante ripeterlo, non è di dinamica di gruppo come lo sono invece il Q16 La comunicazione del gruppo e Q 17 La comunicazionefra animatore e gruppo, ma di pastorale giovanile. Se parla di “coesione” non è per sostituirsi alle loro indicazioni, ma per assumere proprio quelle indicazioni e ripensarle nel contesto della maturità ecclesiale.
    Veniamo ad alcune indicazioni di lavoro prima sulla “coesione come stile di aggregazione” e poi sulla “prassi del gruppo ecclesiale”. II primo tema riguarda il gruppo nella sua vita interna ed il secondo il gruppo nel suo proiettarsi verso l'esterno.

    Quale coesione è ecclesiale?

    - Si può partire da una riflessione sulla propria esperienza di gruppo. Alla lavagna l'animatore disegna prima il gruppo e le interrelazioni e poi delle frecce, alcune rivolte verso il centro del gruppo (= forze centripete) e altre verso l'esterno (= forze centrifughe). Si veda il disegno.

    q9 62a
    Ora chiede quali sono, nelle loro esperienze, le forze di coesione e le forze di dispersione del gruppo. Da notare che viene richiesto non di indicare gli impegni verso l'esterno, ma le forze che rendono difficoltoso lo “stare insieme” perché la pressione di conformità è opprimente o perché le forze di dispersione prevalgono su tutto. Una volta raccolto il materiale si possono presentare le “variabili psicologiche che influenzano la coesione (3.2.1.) e le “condizioni” che l'esperienza ecclesiale pone alla coesione di gruppo (3.2.2.) e cioè una coesione che non deprima responsabilità e creatività personale e non impedisca l'inserimento nell'ambiente.
    - A questo punto si chiede: quale coesione è ecclesiale? In altre parole come tradurre l'esigenza di unità e di diversificazione dentro il gruppo? Su questi interrogativi si può far lavorare il gruppo chiedendo di fare una piccola “regola di gruppo” che salvi l'unità e la diversità. Facilmente emergerà un elenco in cui si dice che ci vuole l'unità e la diversità. II quaderno (paragrafo 3.2.3.) osserva che questo è insufficiente ed offre una formula alternativa: unità sui valori e sul progetto; diversificazione nella loro traduzione operazionale.
    Questa proposta del quaderno può essere discussa e soprattutto esemplificata.
    - Infine: “come” fare aggregazione?
    Nel quaderno viene delineato un cammino educativo che può essere sintetizzato come passaggio da “una coesione realizzata attorno a rapporti primari e a obiettivi a forte risonanza emotiva, verso una coesione assicurata dalla condivisione di valori” (3.2.4., pag. 17-18). Dell'itinerario vengono tracciate alcune grandi tappe:
    1. il punto di partenza: tutto può servire;
    2. far emergere quello che esiste. Alcuni esempi: favorire una condivisa risonanza collettiva dell'obiettivo (anche se povero) che si è scelto; far acquisire “prestigio” all'obiettivo; cercare veramente quello che si dice a parole...
    3. integrare quello che è carente. Alcuni esempi: integrare efficienza e gratificazione, integrare personale e politico; integrare tempo forte e routine quotidiana...
    4. elaborare insieme un progetto. Indicazioni: un progetto centrato sui valori; spazio alle diversificazioni operative; vita di gruppo giocata tra prassi e riflessione; infine un gruppo non più come luogo di efficienza o gratificazione ma luogo di “supporto” all'identità. Evidentemente questa parte è da esporre attraverso una relazione e poi da applicare alla vita dei singoli gruppi facendo attenzione a centrare la verifica sui problemi che emergevano attraverso il gioco delle frecce centripete e centrifughe.

    Quale prassi politica per il gruppo ecclesiale?

    La riflessione sulla maturità di gruppo prosegue, nel quaderno, con alcune indicazioni sulla prassi del gruppo verso l'esterno. Coesione e prassi sono così due grandi “criteri” su cui misurare la maturazione del gruppo.
    Una parola sul senso di queste-pagine del quaderno. Non vogliono “esortare” il gruppo all'azione, ma farlo riflettere sulla qualità dell'azione che sta sviluppando. Non si vuole quindi parlare dei gruppi ecclesiali che vivono il gruppo come strumento di gratificazione. Si vuole piuttosto parlare di quei gruppi che già si sono buttati (o si stanno buttando) nell'azione.
    Questi gruppi si trovano esposti a due rischi o crisi contrapposte: la crisi di identità o la crisi di rilevanza. Come ora vedremo.

    q9 62b

    Un mimo per rappresentare crisi di rilevanza e crisi di identità
    Si può partire da un gioco. Ci si divide in quattro gruppi: gruppo bar o degli indifferenti; gruppo politicizzato violento chiassoso; gruppo sportivo superficiale; gruppo ecclesiale. Inizia il gioco: mentre i primi tre gruppi rappresentano la loro vita, H gruppo ecclesiale osserva in silenzio la scena poi si riunisce per rappresentare la sua identità. Quando questo avrà rappresentato se stesso, gli altri tre gruppi potranno mimare la loro reazione verso di lui che, a sua volta, potrà modificare il proprio mimo come crederà meglio. Ad un certo punto l'animatore blocca il gioco e inizia la interpretazione dei mini. L'animatore avrà cura di sottolineare:
    - la difficoltà del gruppo ecclesiale a mimare la sua identità (si potrà riprendere l'interrogativo: da cosa è data l'ecclesialità?)
    - i mimi che denotano crisi di identità: il gruppo ecclesiale si butta nella imitazione degli altri, senza porre “segni” di ecclesialità...
    - i mimi che denotano crisi di rilevanza; il gruppo ecclesiale pone segni che gli altri gruppi non comprendono e quindi ignorano e a volte disprezzano.
    A questo punto si possono ricercare insieme i sintomi più comuni di crisi di identità o di crisi di rilevanza nella presenza dei gruppi giovanili ecclesiali nell'ambiente, nelle iniziative culturali, nella partecipazione alla vita sociale (ad es., nella partecipazione alla vita scolastica ... ).

    La proposta politica
    La proposta politica del quaderno per orientare l'azione dei gruppi ecclesiali è divisa in momenti:
    - gli atteggiamenti esistenziali e i valori che devono permeare l'azione dei gruppi ecclesiali: riconciliazione, uso del potere, speranza, povertà, convivialità;
    - gli orientamenti operativi: attenzione alla dimensione culturale della prassi politica; abilitazione alla decisione, al controllo, alla gestione del cambio; educazione al politico attraverso l'impegno “prepolitico”; verso una militanza politica proporzionata al livello di maturità personale.
    Il lavoro su questa parte del quaderno può essere cosa articolato:
    - presentazione a grandi linee dei contenuti e magari studio del testo a piccoli gruppi;
    - compilazione della tavola riportata a pag. 30. A piccoli gruppi si compila la scheda, discutendo il voto
    -(una crocetta nel riquadro del voto scelto) da dare al proprio gruppo (o ai gruppi ecclesiali in genere). Dati i voti si traccia una linea che collega tutte le crocette: emergerà la “linea politica” del gruppo...
    La discussione in assemblea sui voti dati alle singole caselle, permetterà una ulteriore verifica sulla maturità politica del proprio gruppo. Naturalmente è un gioco... Può aiutare ad esaminare più da vicino la vita del gruppo e ricercare insieme alcune correzioni di linea.
    - Proprio la correzione di linea è la terza fase di questo lavoro: in quale direzione prospettare il “cambio” del gruppo?

    Il gruppo come luogo di transazione

    L'ultima parte del quaderno (“verso la comunità?”) affronta due aree problematiche dal punto di vista educativo:
    - la prima prende atto della difficoltà di relazione nella terna persona-gruppo-istituzione e si chiede come superare l'impasse;
    - la seconda prende in considerazione il “gruppo a fine corsa”, cioè il problema dello “sbocco” dopo che il gruppo ha terminato il suo compito educativo.
    Ci limitiamo alla prima area.
    Anche in questo caso è possibile ricorrere al mimo come punto di partenza. Ci si divide in piccoli gruppi. Ad alcuni si dà come mandato di rappresentare i “nodi” nella relazione il gruppo e i singoli così come emergono dalla vita del loro gruppo. Ad altri di rappresentare i “nodi” nella relazione fra il gruppo e l'istituzione parrocchiale.

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    Se non si vuole ricorrere al intimo si può utilizzare la tecnica del disegno spontaneo prima con il mandato: “rappresentate come voi vedete il rapporto fra il vostro gruppo come insieme e le persone al suo interno” e poi con il mandato: “rappresentate come si svolgono i rapporti tra il vostro gruppo e l'istituzione parrocchiale”. Al termine si esaminano i disegni e l'animatore aiuta a decodificarli utilizzando il modello di transazione presentato alle pagg. 24-25.
    Dopo le rappresentazioni, per decodificare i mimi o i disegni e per sollecitare ad un lavoro in positivo, l'animatore può progressivamente presentare su lavagna o cartellone la tabella riportata a pag. 3 1. Si può far osservare man mano che sì fa il disegno:
    - il concetto di transazione come scambio bidirezionale;
    - la transazione persona-gruppo può “partire per la tangente” della soluzione individualistica o della soluzione “organologica”;
    - la transazione gruppo-istituzione può “partire per la tangente” della soluzione “gruppo-rifugio” o della soluzione “gruppo-funzionalità”; Ecco, ad esempio, alcuni gesti o iniziative possibili per consolidare una transazione positiva tra gruppo giovanile ed istituzione ecclesiale: partecipazione di qualche giovane al consiglio pastorale parrocchiale; collocare l'attività del gruppo dentro il piano diocesano di pastorale giovanile; fedeltà del gruppo alla messa domenicale; un giornalino di collegamento parrocchiale preparato da adulti e giovani; incontrarsi con il vescovo o con altri gruppi; fare la programmazione annuale ritrovandosi tra vari oratori di una zona; sensibilizzare e far partecipare gli adulti alla gestione del centro giovanile o oratorio...
    Si può terminare con un interrogativo: nel proprio ambiente giovanile per favorire la transazione è preferibile orientarsi verso una o più associazioni (Azione Cattolica, Scout ... ), verso un movimento nazionale (Comunione e liberazione, GEN, Gioventù Aclista ... ), oppure è preferibile orientarsi verso gruppi locali, collegati magari a livello zonale o diocesano?


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    p a g i n A


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