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     6. L'ANIMAZIONE

    CULTURALE /2

    Mario Pollo

    INDICE

    (continua dal Q5)

    5. L’OBIETTIVO GENERALE DELL’ANIMAZIONE CULTURALE DEI GIOVANI

    5.1. Accostarsi al quotidiano come luogo in cui orizzonte di senso si dispiega

    5.2. Scoprire il sociale come luogo della solidarietà in cui riproporre so stessi senza mistificazioni

    5.3. Riconoscere l’invocazione che la realtà rilancia come invocazione ad une speranza totale

    6. LA COSTRUZIONE DELLA IDENTITÀ PERSONALE DENTRO LA CULTURA

    6.1. L’identità personale come mistero dell’unità nella diversità
    La coscienza come «centro esistenziale.»
    Il linguaggio a la culture mediatori del radicamento nell’essere
    Il livello conscio a il livello inconscio dell'identità umana

    6.2. La comunicazione nel terreno della cultura
    La «memoria della cultura»
    Animazione come ermeneutica dell'inespresso

    6.3. Orientamenti per l'animazione
    Apprendimento della lingua, dei segni e dei simboli
    Integrare linguaggio logico razionale a linguaggio simbolico
    Radicare i giovani nell'oggettività della lingua per divenire creativi

    7. LA PARTECIPAZIONE ALLA VITA SOCIALE

    7. 1. Abilitare ad une comprensione etica degli strumenti
    L’antropologia dello strumento e la sua dimensione etica
    Tre criteri per valutare la moralità degli strumenti

    7.2. Abilitare a elaborare l'antidoto contro il potere ad il conformismo
    La immunizzazione dal principio di conformità
    L’educazione alla liberazione dal potere

    7.3. Verso una nuove sintesi tra morale individuale e morale sociale
    Il conflitto tra morale dei principi a morale della responsabilità
    L’animazione e l'educazione della coscienza morale

    7.4. Abilitare a giocare H gioco per riscoprire fa vita
    Il gioco nell’animazione non è una moda
    Il gioco come funzione del sistema sociale

    8. LIBERARE LA TRASCENDENZA DELL’UOMO

    8.1. Abilitare a dilatare l'esperienza dello spazio e del tempo
    L’odierna banalizzazione dello spazio a del tempo
    Per ricostruire elementi di discontinuità nello spazio-tempo

    8.2. Abilitare a vivere la festa come un luogo del contro esistenziale
    Andare oltre la «profanazione» della festa
    Dal centro esistenziale ad un centro, spazio-temporale

    8.3. Riscoprire /a narrazione per dire il senso profondo della vita
    Crisi della comunicazione educative ridotta a «fredda informazione»
    La riscoperta della narrazione per declinare il senso della vita
    La funzione sociale della narrazione

    8.4. Abilitare a vivere il gioco, tra desiderio a limite

    8.5. L'animazione a l’attenzione alla trascendenza
    L’esperienza religiose nel cammino dell'uomo

    9. INTRODUZIONE AL METODO DELL’ANIMAZIONE CULTURALE

    9. 1. Gli strumenti dell’animazione: il gruppo e la relazione animatore-gruppo

    9.2. La tecniche come potenziamento della relazione animatore-gruppo

    ^ Il quaderno 6 è la immediata continuazione del precedente Q5 dove erano stati affrontati questi argomenti:
    - la «funzione» dell'animazione, così come è stata messa a fuoco dalla prassi decennale di animazione, e cioè come l'amore alla vita in tutte le sue espressioni. Un amore che conduce anche alla «scommessa» sull'educazione per «dare vita» alle nuove generazioni attraverso un originate stile educativo;
    - la ricerca del «luogo» in cui fare animazione con i giovani oggi. Tale luogo veniva individuato con la crisi di identità culturale e quindi personale delle nuove generazioni;
    - i fondamenti antropologici dell'animazione culturale. Con questo argomento il quaderno iniziava la sua ricerca di una teoria dell'animazione culturale intesa come «originale» modello educativo. I pilastri di tale antropologia venivano identificati nell'homo symbolicus, nell'uomo come sistema aperto e nell'uomo nello spazio-tempo.
    ^ Questo quaderno riprende la riflessione, dopo alcune pagine dedicate all'uomo nello spazio-tempo (pagine «avanzate» dal quaderno precedente), interrogandosi sull'obiettivo generale dell'animazione culturale dei giovani e suite grandi strategie che permettono di raggiungerlo.
    Chiedersi quale sia l’obiettivo significa porsi dalla parte del «prodotto» dell'animazione. Cosa si intende raggiungere? quale uomo? per quale società? per quale qualità della vita?
    - L’obiettivo generale viene così espresso: «abilitare il giovane a costruire se stesso all’interno dell’avventura di senso che, dall'origine dell'uomo, percorre senza posa il mondo».
    ^ Come si vede l'obiettivo riprende il tema di fondo dell'animazione: la scommessa sull'uomo e l’amore alla vita, ma lo ripensa a partire dalla crisi di identità e di senso che avvolge il mondo moderno. Così facendo l’obiettivo dell'animazione dei giovani viene a raccogliere tutte le istanze di liberazione personale e collettiva dell'uomo e a riorganizzarle at loro livello più profondo: quello esistenziale e, come vedremo, religioso.
    - L’obiettivo generale viene subito dopo a precisarsi nell’individuare tre «abilitazioni» di base, o mete intermedie:
    * abilitazione a costruire la propria identità personale utilizzando il vissuto personale e la cultura in cui il soggetto è immerso;
    * abilitazione a una rinnovata ed attiva partecipazione sociale e culturale;
    * abilitazione a sperimentare dentro la vita quotidiana l'apertura alla dimensione religiosa e trascendente dell’avventura umana.
    Vengono così a costruirsi tre «aree strategiche» per una attività di animazione, al cui interno vengono ulteriormente individuati alcuni interventi preferenziali.
    Sono pagine di grosso interesse educativo, anche se, cosa del resto caratteristica di tutta la trattazione di Mario Pollo, l’intento è anzitutto aiutare il lettore a farsi una «mentalità da animatore» attraverso l'acquisizione di una particolare logica di lettura e ripensamento delta realtà, e attraverso l'acquisizione di una particolare sensibilità nell’individuare i punti caldi di intervento.
    ^ Solo a questo punto, finalmente dirà qualche lettore, il quaderno si avvia a parlare del «metodo» dell'animazione, cioè del come l'animatore deve organizzarsi in vista dell'obiettivo.
    Rimangono, volutamente, solo poche pagine per tracciare un quadro di insieme del metodo ed introdurre i temi principali dei “quaderni” delta quarta serie dedicati appunto alto sviluppo del metodo delta animazione:
    - il gruppo primario come luogo privilegiato dell'animazione (Q16);
    - la comunicazione animatore gruppo come sintesi di tutti gli strumenti (Q17);
    - le istituzioni ed i luoghi di accoglienza giovanili presenti net territorio e nella comunità ecclesiale come spazio in cui dare vita all'animazione (Q18);
    - la programmazione come strumento per organizzarsi per un'animazione «qui ora» dei giovani (Q 19);
    - le tecniche come potenziamento delta relazione animatore gruppo (Q20).

    4. FONDAMENTI ANTROPOLOGICI DELL’ANIMAZIONE CULTURALE

    (Continua dal Q5 in cui erano stati trattati.. 4. 1. l’homo symbolicus; 4.2. l’homo come sistema aperto).

    4.3. L’uomo nello spazio-tempo

    Al fine di completare l'antropologia di base di questa mia proposta di animazione culturale ~ necessario introdurre un altro concetto come dimensione di base: lo spazio-tempo. II sistema uomo infatti vive si in un universo simbolico, ma anche in un universo inscritto nelle coordinate spazio-temporali.

    4.3.1. Lo spazio-tempo: descrizione e definizione

    Lo spazio ed il tempo hanno intrecciato il loro destino dopo che la scienza fisica contemporanea li ha legati, al pari dei gemelli della pietà e del dolore, in un costrutto teorico. Senza lo spazio, è oramai assodato, non si dA tempo e senza tempo non si dA spazio. La densità dello spazio, la massa, determina lo scorrere del tempo. Sono queste alcune delle equazioni partendo dalle quali la cultura contemporanea sta ridisegnando se stessa dopo la caduta dell’illusione di un mondo ordinato e regolato al pari di un perfetto orologio, la cui vita era scandita da un tempo assoluto uguale a se stesso in ogni frammento di esistenza ed in ogni luogo del cosmo.
    Il mondo meccanico preciso e ben determinato di Newton sta infatti lasciando il posto al mondo probabile, relativo e per molti versi indeterminato di Einstein & Co.
    Compiendo questa operazione l’uomo contemporaneo, rassicurato dall’apparato conoscitivo della scienza, riapre la sua cultura a quelle suggestioni, impressioni, forme letterarie e verifiche che all'uomo arcaico, ed antico, indicavano la pluralità dei tempi e dei mondi nell'esistenza umana. Impressioni fugaci, prive forse del necessario apparato logico-scientifico in grado di rassicurare la coscienza circa la loro verità, ma che risuonano nel cuore e nella mente dell'uomo apportando un senso che, pur se misterioso, non è possibile non riconoscere come vero ed autentico.
    Ma non è la relatività del tempo che apre nuove prospettive alla cultura umana, quanto il fatto di considerare lo spazio ed il tempo non come due enti distinti ma come un unico ente.
    Come già faceva notare a suo tempo Einstein, considerate lo spazio-tempo come un unico ente significa attribuire al moto, e quindi ai processi di cambiamento una realtà non effimera.
    Tutti i comportamenti, gli atti umani che altro non sono, con una espressione alla moda, che una manifestazione dell'effimero, nell'orizzonte del gaio nichilismo contemporaneo, cambiano di segno e divengono un qualcosa che è anche al di là del momento del loro apparire ai confini del presente e della percezione sensoriale umana.
    L’espressione singola della cultura come un evento non effimero può essere una delle conseguenze, non peregrina né arbitraria, della concezione einsteniana dello spazio-tempo come un unico evento.
    L’altro corno estremamente importante di questa concezione costituito, come già accennato, dal concetto di tempo, e quindi di spazio-tempo, relativo.

    4.3.2. Uno spazio-tempo relativo all'uomo e agli eventi

    Come si è già visto, la teoria della relatività ha messo in crisi la concezione di tempo assoluto, legando lo scorrere, l'esistenza stessa del tempo al sistema spazio-temporale in cui viene osservato e quindi si manifesta.
    Non esiste più, in altre parole, uno stesso orologio, e cioè un identico fluire del tempo, per tutti gli osservati in tutti i sistemi di riferimento. Ogni sistema ha un suo tempo. Ogni osservatore ha un suo orologio. In questa concezione qui sommariamente evocata espressioni come: «simultaneamente», «prima» e «dopo», perdono il loro significato e la loro realtà assolutamente oggettiva, per divenire solo il segno del modo particolare di un dato osservatore di percepire e di vivere gli eventi all'interno di un dato evento spazio-temporale.
    Il tempo, spingendo oltre questa concezione relativistica, non solo è assoluto, ma essendo legato allo spazio è un prodotto degli eventi: se non esiste spazio, non esiste tempo. Il tempo è «il particolare istante in cui esiste una struttura od accade un processo, o il periodo misurato o misurabile per cui una struttura persiste od un processo perdura» (LG. Miller, La teoria generale dei sistemi viventi, Milano 1971, p. 30). Questa considerazione apre la porta ad un'altra, che non è più legata alla relatività fisica ma bensì a quella soggettiva del tempo.
    Ogni essere vivente infatti produce un proprio tempo, vive in un mondo sociale e naturale che produce esso stesso un proprio tempo, e si incontra nella sua esistenza con una pluralità dei tempi che non necessariamente sono assimilabili al suo.
    Ogni essere vivente esprime se stesso dentro un proprio spazio-tempo, simile a quello sociale ma non necessariamente identico.
    I processi vitali non sono regolati in modo ciclico, uniforme e monotono dal tempo dell'orologio ma hanno una loro propria dinamica specifica.

    4.3.3. I vari flussi di tempo nella vita umana

    Nella vita umana si intrecciano infatti vari flussi di tempi. Uno di questi flussi di tempo è legato, ad esempio, agli stadi mentali di una persona e può essere definito tempo soggettivo psicologico. Un tempo soggettivo biologico è quello connesso ai ritmi vitali di ogni singolo organismo umano, che sono sempre parzialmente diversi da individuo a individuo.
    Vi è poi l'esperienza culturale del tempo legata alla storia, alle tradizioni e quindi alla cultura di ogni società, o gruppo sociale, particolare. C’è il tempo che scandisce il pulsare della vita nell'ambiente naturale. C’è il grande tempo delle illimitate dimensioni del cosmo. C’è il tempo della memoria e del ricordo, come c'è quello dell'inconscio. Tutti questi tempi, alcuni affascinanti per la loro dimensione simbolica, non sono quasi più riconosciuti dagli abitanti delle città industriali.
    L’incapacità di percepire, di sentire i tempi che si intrecciano nell'esistenza umana, è correlata all'incapacità di osservare la natura, di scendere introspettivamente in se stessi, di capire e amare gli altri, rispettandone le particolari e irriducibili soggettività, di legare la propria esistenza, attraverso i simboli antichi, al senso del fluire del tempo cosmico, le cui porte si aprono sull'eternità.

    4.3.4. Un tempo einsteiniano per l’animazione

    Nonostante la rivoluzione scientifica provocata dalla relatività einsteiniana, si continua quindi a pensare al tempo in modo newtoniano.
    Infatti di solito si pensa al tempo come qualcosa di assoluto che scorre al di fuori di sé, a una sorta di orologio che in modo identico segna lo scorrere degli eventi e della vita per gli uomini, gli animali, le cose e 1'universo.
    L'uomo è misurato sul tempo newtoniano. Questa convinzione è rafforzata dal fatto che tutta la vita ormai rimane scandita dall’orologio e che molte qualità umane sono misurate dall'orologio. Gli orologi elettronici al quarzo scandiscono oramai la vita con una precisione enorme. Si è insomma convinti nel proprio intimo, anche se si è letto qualcosa sulla relatività, che il tempo sia unico, assoluto c che quindi non esista altro tempo al di fuori di quello segnato dall'orologio e dal calendario. Che il tempo meccanico o elettronico, non importa, scandisca la vita è una osservazione banale. Meno quella che esso misuri alcune qualità umane c addirittura la realizzazione degli individui nella vita.
    Però con un minimo di attenzione anche quest'ultima osservazione risulterà evidente.
    Se si osservano i test attraverso cui viene misurata l’intelligenza dei bambini si nota che essi sono basati sul tempo. Infatti la maggior parte di essi tende a determinare la cosiddetta età mentale. Se un bambino ha l’età mentale corrispondente a quella anagrafica, si dice che è normale.
    Se ce l'ha superiore si dice che molto dotato. Se invece ce l’ha minore si dice che è ritardato o comunque poco intelligente.
    Cosa avviene? Semplicemente che la normalità di un bambino viene stabilita sulla scorta del rapporto della velocità della sua crescita e maturazione con quella media del gruppo sociale a cui appartiene.
    Lo stesso discorso vale anche per i tests psicologici di intelligenza per gli adulti. Un adulto risulta infatti tanto pia intelligente quanto più risposte esatte del test riesce a fornire in una breve unità di tempo.
    Ora non voglio negare che il tempo degli orologi non sia di qualche utilità nella vita umana, ma semplicemente affermare che esso è diventato il «tempo imperialista», che di fatto ha ucciso le altre esperienze del tempo, che pure sono attive e presenti nella vita umana.
    Lo spazio che accompagna questo tempo e con esso costituisce il sistema in cui vive l’uomo contemporaneo è quello della città sottomessa al mito del consumo è della produzione, che hanno collocato il tempo dell’orologio come il grande regolatore della vita individuale e sociale. Uno spazio fatto di geometrie la cui razionalità non ha al centro l’uomo, ma ideologie, calcoli economici ed utilità collettive non sempre ben definite ma assolutamente costringenti.
    La città è la casa, come macchine per abitare. Le strade come luoghi in cui ci si sposta nel modo più economico, rapido, e naturalmente razionale, possibile.
    Gli oggetti segnati dalla loro funzione utilitaristica che diventa anche estetica.
    Questa è l'altra dimensione, quella spaziale, anche qui accennata attraverso brevi e poveri segni, dello spazio-tempo che è costituito dal mito dell'orologio.
    Recuperare il tempo soggettivo/relativo è possibile quindi solo se si accompagna ad un recupero dello spazio, in cui la città, come insieme spaziale dell’attività umana, abbandona il proprio ruolo di macchina per consumare per divenire un luogo in cui si genera il senso dell'esistenza.

    4.3.5. La creazione di un «centro» esistenziale nello spazio-tempo

    Lo spazio-tempo nell'esistenza umana non è mai semplicemente una struttura fisica, in quanto tende a divenire «mondo», ossia una presenza materiale che rimanda a dei significati complessi. Da sempre l'uomo ha subito il terrore, il timore, l'angoscia o anche la semplice imperscrutabile presenza dello spazio-tempo ed ha tentato di «bonificarlo», renderlo amico, vivibile ed abitabile, oltre che con il lavoro con una ricchissima attività simbolica.
    Frutto di questa attività sono ad esempio tutti gli innumerevoli simbolismi del centro che sin dalle profondità più remote della storia, hanno percorso la quasi totalità delle culture umane.
    Il simbolismo del centro postula il fatto che ogni esistenza umana individuale e collettiva deve svolgersi ancorata ad un centro sacro.
    Questo centro altro non è che il centro del mondo, quel luogo cioè dove, secondo il pensiero religioso arcaico, le dimensioni costitutive del cosmo (cielo, terra, inferi) rompevano la loro separatezza ed entravano in contatto tra di loro.
    Il centro organizzava di fatto intorno a sé uno spazio vivibile, salvifico: quello della città, del villaggio, della casa. Contrapposto a questo spazio vivibile ve ne era un altro che minacciava l'integrità della vita umana, la sua realtà, ed era naturalmente popolato da larve, morti e demoni.
    Nel mondo moderno non ci sono più spazi sconosciuti, estranei, terrorizzanti. Tutto lo spazio sembra abitabile almeno dal punto di vista fisico. Esistono però ancora spazi che hanno qualità esistenziali diverse, e per scoprirle è utile rileggere e reinterpretare uno dei più antichi miti della storia umana, quello appunto del «centro». Come si è già accennato, la città, il villaggio, il tempio e la stessa casa non erano localizzati e costruiti a caso, in quanto dovevano strutturarsi attorno ad un centro, secondo una procedura che di fatto non era che una replica della primitiva cosmogonia. Questo centro, ben diverso da qualsiasi centro geometrico, che poteva corrispondere ad una montagna, ad un albero, ad un palo, ad un crocicchio o anche solo ad una loro rappresentazione simbolica di tipo architettonico, possedeva la fondamentale proprietà di essere il luogo sacro per eccellenza, il luogo cioè dove il sacro (e dunque il senso della vita) si manifestava in tutta la sua pienezza e potenza.
    Nel centro l’iniziato, o anche pia semplicemente l'uomo sacralizzato, poteva salire al cielo o di scendere agli inferi, entrare in contatto con la divinità o con i morti ed i demoni.
    Concludendo questo breve e sommario accenno ai simboli del «centro del cosmo», mi preme far rilevare come fosse la dimensione sacra a costruire la discontinuità dello spazio in cui viveva ed abitava i giorni del tempo l’uomo antico.

    4.3.6. Preservare la parte più intima del proprio essere

    In modo semplice c suggestivo, il simbolismo del centro testimonia la necessità che l’uomo sia radicato in uno spazio esistenziale, che gli consenta da un lato la trascendenza c dall'altro anche un legame con le proprie arcaiche radici che affondano nelle acque del caos primigenio.
    In definitiva testimonia della necessità che l'uomo ha di difendere il proprio essere, la propria salute fisica e mentale e quindi la propria identità attraverso l’organizzazione e la sacralizzazione dello spazio.
    L’animazione, per alcuni versi, può essere assimilata ad una azione che crea nello spazio caotico, illimitato ed indifferenziato in cui si dice il desiderio e in cui risuonano gli istinti e le più paurose ferinità arcaiche, un microcosmo organizzato dotato di un centro nel quale il giovane può tanto conoscere e controllare i propri inferi (l’inconscio individuale e collettivo), quanto entrare in contatto con il cielo (i valori e la fede), rimanendo però ben radicato sulla terra (la coscienza, la razionalità umana e la dialettica).
    Può essere infatti interessante rielaborare il simbolismo del centro in chiave educativa moderna, proponendolo non più come centro sacro ma bensì come centro esistenziale. Come luogo che consente alla persona una pia approfondita ricerca di s6 e del senso della propria esistenza.

    5. L’OBIETTIVO GENERALE PER L’ANIMAZIONE CULTURALE DEI GIOVANI

    Il particolare punto di vista da cui è mossa l'analisi della situazione giovanile, unitamente al1'antropologia di base, consente di individuare la direttrice che costituisce l'obiettivo generale dell'animazione dei giovani oggi. Essa è costituita dalla consapevolezza della necessità di abilitare il giovane ad un linguaggio che gli consenta di dilatare progressivamente le sue potenzialità, la sua stessa umanità, ponendosi criticamente ma con solidi radici nella cultura in cui ha la ventura di vivere.
    Questo suo appropriarsi del linguaggio, attraverso cui modulare la programmazione del proprio divenire, il giovane lo può realizzare attraverso un complesso processo che, muovendo dall'opacità di senso delle azioni del quotidiano, arriva a cogliere la promessa di senso che il «creatore» ha posto nelle profondità del silenzio attraverso cui si dice il mondo.
    Con uno slogan si potrebbe dire che obiettivo generale dell'animazione è di abilitare il giovane a costruire se stesso all'interno dell'avventura di senso che, dall'origine dell'uomo, percorre senza posa il mondo.
    E questo significa per il giovane l’accettare di essere uomo «con» e «per».
    Con gli altri uomini, quelli che prima di lui hanno vissuto e gli altri uomini che dopo di lui vivono. Con il mondo disegnato dalla natura c dal linguaggio. Con la propria irriducibile solitudine. Con la speranza di ciò che esiste laddove tutto è silenzio.
    Per l'amore che nel mondo si manifesta nell'amore per la vita. Per la povertà che è ricchezza di senso del quotidiano. Per la storia come dono di salvezza dalla caduta avvenuta prima della storia. Per tutto ciò che può scaldare il cuore della utopia.
    L’obiettivo generale ora enunciato può essere specificato in tre direzioni tra loro profondamente integrate: la ricerca di identità personale e quindi di senso; l'inserimento nella vita sociale e culturale; l’esperienza del senso religioso della vita.

    5.1. Accostarsi al quotidiano come luogo in cui l'orizzonte di senso si dispiega

    Nell’adolescenza soprattutto, ma anche dopo, si ha l’impressione che il senso stia di casa nelle avventure eroiche, eccezionali o comunque in una vita assai diversa di quella che il quotidiano offre alla gente comune. Il quotidiano è visto come luogo della banalità da accettare con spirito di sacrificio ed adatta mento senza entusiasmo, sperando che un giorno una vita enormemente più ricca possa irrompere all'improvviso salvando dalla routine.
    Oppure si ha, nei confronti del quotidiano, un atteggiamento che lo considera una parentesi da vivere in apnea in attesa del «festivo», del tempo cioè in cui la gioia, la felicità, se non il significato, Sono a portata di mano.
    Ora se è giusto dare colore alla festa, all’avventura, all'esperienza di vita eccezionale, è alienante fuggire il quotidiano o subirlo semplicemente senza viverlo sino in fondo.
    Il quotidiano è uno scrigno di senso; basta saperlo scoprire sotto il velo di polvere che lo copre ed aprire con la giusta chiave.
    Nessuna avventura è così affascinante come la scoperta dell'universo di senso in cui è embricato il quotidiano.
    L’animazione vuole aprire la porta del quotidiano al giovane, indicargli la esaltante e terribile avventura che dietro le spoglie della banalità può vivere sino a ritrovare alla fine se stesso «uomo nuovo».
    Per arrivare a questo il giovane ha a sua disposizione il suo vissuto personale e la cultura entro cui vive.
    Come può avvenire questo?
    La cultura attraverso il linguaggio disegna il mondo; il vissuto frangendosi con le profondità sconosciute dell'uomo offre il polo dell’individuale soggettività. Vissuto e cultura costituiscono due poli da cui si svolge la ricerca fondamentale che accompagna la vita dopo che l’uomo è emerso, attraverso il linguaggio, alla coscienza.
    È all’interno di queste polarità che il quotidiano può scalare i suoi abissi di significato e si mostrerà al di la del velo della opacità.
    Tuttavia occorre dire subito che non qualsiasi cultura, né qualsiasi vissuto possono interrogate la banalità quotidiana e illuminarla.
    Ci vuole una cultura che, abbandonata l’illusione alienante dell'utilitarismo, il mito della ragione è della scienza come salvezza, accetti di reintrodurre al proprio interno tutte le lingue ed i testi che riguardano l'essere sin dai tempi più remoti. Occorre una cultura che ridia spessore ai simboli ed ai racconti che la precedono, che anche se non sono scienza sono sicuramente sapienza.
    Occorre poi che l’uomo riapprenda, anche per il tramite di una cultura restituita all'essere, a dialogare con se stesso fino alle più antiche profondità. Occorre, cioè, che incorpori armonicamente nel suo Sé l’inconscio. Solo cosi il suo vissuto potrà essere alimentato in modo realmente salvifico dai racconti della salvezza.
    L’animazione vuole contribuire a fare si che il quotidiano diventi luogo di domande e di risposte attraverso la riscoperta di una cultura più vicina all’essere e di un vissuto personale in cui si rispecchi il senso profondo della vita che l’inconscio tiene prigioniero.

    5.2. Scoprire il sociale come luogo della solidarietà in cui riproporre se stessi senza mistificazioni

    A differenza di quanto l’opinione comune suggerirebbe, non è la ragione, la razionalità che fonda la socialità dell'uomo, il suo aprirsi in quella avventura rischiosa ma necessaria verso gli altri esseri umani, bensì il mondo della emotività, delle oscure pulsioni e desideri che sovente, per non doverlo affrontare, viene con facilità denominato «irrazionale».
    La razionalità infatti è all'origine di quel miracolo che è la soggettività che «separa» con estrema efficacia, anche troppa, 1'uomo dagli altri e dalla natura.
    L’irrazionale o regno del pensiero simbolico, dell'emozione nella relazione uomoaltrinatura, del desiderio come molla ed energia della vita, della paura e dell'angoscia come molla del contratto sociale della istituzione, è invece all'origine di quel processo, non sempre felice ma felicibile, che a la «relazione» sociale e naturale.
    Educare a pensare con le proprie emozioni, le proprie paure, le proprie euforie, integrandole con i dati e con il flusso del pensiero razionale, ecco un'altra esemplificazione dell'obiettivo generale dell'animazione, un'altra tappa del cammino che viene proposta.
    E questa è una educazione che si può definire politica nel senso più nobile della parola, in quanto si basa sulla capacità di accogliere se stessi e gli altri senza mistificazioni riduttive o maggiorative, accettando di ognuno, anche di sé, la reale, effettiva umanità.
    Su questa accoglienza, prima emotiva e poi razionale, può concretamente fondarsi l’amore vero per la libertà, la giustizia c ]a democrazia, al di là di ogni orizzonte di pensiero e di ogni ideologia. Una razionalità, un pensiero, un'analisi del reale che sappia nutrirsi di questa consapevolezza relazionale ed emotiva, non può che generare una politica nobile, un darsi realmente partecipe alla vita sociale, il sogno di un'utopia che si realizza ogni giorno nell'amore vissuto.
    Accettare se stessi e gli altri significa pensare le proprie emozioni, amare e plasmare creativamente le proprie paure, dare un vessillo al desiderio, sentirsi solidali allo spazio-tempo, ascoltare l’incrociarsi del dibattito dell'orologio del proprio corpo con quello della natura, ed infine sentire che tutto questo fornisce alla coscienza una energia ed una felicità che consentono alla ragione di scoprire, giorno dopo giorno, la verità nelle sue dimensioni di descrizione e di spiegazione della realtà.
    L’amore alla vita, se nutrito di questa interiorità, se sposato con il padre o capacità di azione nella realtà, può veramente divenire il risultato di quella formazione, centrata sulla qualità e l'amore della vita, che sin dal Tommaseo è definita animazione.

    5.3. Riconoscere l'invocazione che la realà rilancia come invocazione aperta ad una speranza totale

    Nel complesso percorso che conduce all'obiettivo generale dell'animazione, manca un'ultima tappa o un ultimo punto di vista del1'obiettivo: quello della trascendenza.
    Infatti uomo, cultura, mondo, sono concetti che hanno una relatività paralizzante, alle porte dell'angoscia o del nichilismo, se non sono illuminati da ciò che è nella loro stessa natura, l'appartenenza ad una dimensione trascendente il loro stesso limite.
    L'uomo non può giudicare se stesso, il proprio mondo e quindi la propria cultura se non possiede un punto di vista che sia oltre il suo limite, quello del suo mondo c della sua cultura.
    Solo se l’uomo comprende, attraverso le vie di una fede o di un pensiero trascendente, se stesso e il mondo, può formulare un giudizio sulla verità e sulla coerenza della propria vita e della propria cultura.
    Senza trascendenza l'uomo è chiuso in un mondo in cui tutto può essere vero e tutto può essere falso, tutto può essere espresso e tutto può restare inespresso, ma nulla ha valore in sé, nulla ha un significato tale da consentirgli di porsi come riferimento per una scelta esistenziale orientata verso un obiettivo che sia oltre le frontiere dell'utilità.
    Sia chiaro che con trascendenza non intendo necessariamente una fede religiosa, ma anche una fede laica o capacità di superamento dei limite della condizione umana.
    L'animazione senza il grido, l'invocazione della trascendenza rischia di perdere se stessa nel rumore delle cose che sono e non sono, delle mode, delle illusioni o financo della violenza di una ragione o scienza che in nome del potere distrugge la vita.
    Animare, dare la vita, è un dono che realizza se stesso in quanto si pone come dono di una realtà e di un amore che sono prima e dopo l'uomo ed il suo mondo.
    Dire al giovane che la speranza non è una illusione disperante, ma l'unica vera realtà, che si svela però solo dopo che nella fatica del quotidiano si è stati redenti redimendo il mondo.
    Dopo aver definito in modo forse suggestivo ma impreciso l'obiettivo generale dell'animazione (e le sue tre articolazioni) è necessario ora tradurlo in obiettivi particolari, intermedi e definire globalmente la strategia in cui questi si collocano. In altre parole, in questa parte ci si interrogherà sugli obiettivi educativi e sulle strategie di fondo che l'animazione intende perseguire, cioè sulle tappe attraverso cui sviluppare gli atti formativi. Gli obiettivi particolari possono essere raccolti intorno ad alcune aree:
    1) l'area dell'identità personale «dentro» la cultura;
    2) l'area della partecipazione sociale;
    3) l'area della trascendenza e religiosità.
    Queste aree corrispondono alle tre articolazioni dell'obiettivo generale dell'animazione che ho tracciato attraverso i paragrafi 5.1, 5.2 e 5.3.
    Nelle pagine che seguono saranno raccolti obiettivi particolari e parziali e le conseguenti strategie. Ciò consentirà di costruire l'ossatura di quella che può essere considerata la strategia generale dell'animazione, premessa necessaria poi ad ogni successivo discorso sul metodo dell'animazione.


    6. LA COSTRUZIONE DELL'IDENTITA PERSONALE DENTRO LA CULTURA

    Molti studi contemporanei, sia a livello psicologico che sociologico, mettono al centro della riflessione sulla formazione della persona umana il cosiddetto problema dell'identità, ossia gli interrogativi e le parziali risposte intorno a quel complesso fenomeno che consente all'essere umano di comprendersi come individuo distinto dal mondo e dagli altri esseri umani, di riconoscersi nel proprio passato e nel proprio futuro e quindi come identico a se stesso.
    Questo tema è centrale anche per l'animazione che lo lega strettamente ai temi della coscienza, del linguaggio e della cultura, e della potenza di senso dell'inconscio.
    Il compito dell'animazione in questa prima area strategica può essere così enunciato: abilitare ad accogliere e costruire la propria identità personale, come mistero di unità nella diversità, attraverso l'apprendimento dei segni e dei simboli, nel terreno unificante della cultura.
    L'identità psicologica e sociale infatti è legata alla formazione dell'io cosciente, di quel processo cioè attraverso cui l'individuo umano viene «separandosi» dal tutto indifferenziato e si riconosce come luogo unico e finito dello spazio-tempo e dello spirito. Separazione di cui resta traccia nel mondo della cultura e dell'inconscio attraverso la potenza significativa dei simboli, delle immagini, dei miti attraverso cui si dice l'avventura del senso sin dalle epoche più arcaiche della storia.
    Vediamo allora in che modo l’identità personale è costituita dalla coscienza (= l’Io) e dall'inconscio (=il Sé), con la mediazione dei linguaggio e della cultura in cui il soggetto vive.

    6.1. L'identità personale come mistero dell'unità nella diversità

    Ogni uomo accetta con la più ineffabile semplicità, senza cioè cogliere il tremendo mistero che si nasconde dietro questa esperienza, il fatto di essere autocosciente, di possedere cioè la capacità di essere oggetto della propria osservazione e riflessione. Continuamente il flusso di esperienze che converge verso un singolo essere umano è condotto ad unità e riceve senso tanto nella dimensione della coscienza quanto in quella del cosiddetto inconscio.
    Contro scuole psicologiche che hanno finito per considerare l'uomo al pari di una qualsiasi macchina o computer, è necessario subito ribadire che nella complessa attività mentale umana la coscienza merita il ruolo di punto di fuga che dà forme, significato e ordine a tutti gli altri elementi. La stessa animazione senza la prospettiva dell'unità cosciente e inconscia rischia di essere un atto che non ha alcuna reale possibilità di dire qualcosa alla vita umana ed ai singoli individui.

    6.1.1. La coscienza come «centro esistenziale»

    La coscienza umana è il luogo dell'unità dove ogni singolo individuo si riconosce come Io, dotato di una propria esclusiva ed irripetibile identità che lo rende simile e diverso nello stesso tempo dagli altri individui umani.
    Un ruolo importante, nella tessitura di questa identità, è giocato dalla memoria, la cui funzione è quella di legare esperienze che accadono in tempi e stati diversi del continuo divenire della persona, in un'unica forma, in un unico frammento strutturato dello spazio-tempo, che è poi quello descritto parzialmente dall'Io cosciente e completamente, con l'aggiunta dell'inconscio, dal Sé. La coscienza, in cui attraverso la memoria fluiscono i vari tempi di ogni singola vita umana ed attraverso le rappresentazioni mentali la continua descrizione dell'esistenza, può essere assimilata ad un «centro» in cui tutte le dimensioni della psiche e della mente umana, rompendo le pareti del loro isolamento, entrano in contatto tra di loro.
    Questo centro è simile a quello che, come si è già visto, sin dalle più lontane culture che hanno orientato l'avventura dell'uomo nel mondo, garantiva l'unità del cosmo e la possibilità di partecipare a tutta la vita cosmica, sia quella lontana nel tempo e nello spazio, sia quella addirittura appartenente ad una dimensione altra rispetto a quella umana.
    Il simbolismo dei centro può essere in effetti assunto come metafora della struttura psichica umana e della necessità che essa abbia il suo fulcro intorno alla coscienza.
    Infatti, se si paragona la mente umana a questo cosmo «primitivo», il cielo può essere assimilato alla «trascendenza» intesa come piano di valori, di principi e di norme a cui l'uomo sottopone i suoi bisogni e le sue pulsioni; in definitiva al mondo in cui regnano i valori religiosi o comunque tali da garantire in senso a tutti gli atti della esistenza quotidiana della persona umana. La terra è il regno della coscienza, della ragione, del linguaggio logico razionale, il punto verso cui ritornano le esplorazioni compiute nelle altre dimensioni e cioè nel cielo e negli inferi. La terra, che altro non è che la metafora della coscienza, è il luogo in cui viene garantita l'unità dei cosmo ed il suo apparire in linguaggio, e cioè in forme e descrizioni dotate di senso.
    Gli inferi come luogo delle forze potenziali, dell'energia primordiale che ha creato la vita, possono essere considerati la metafora dell'inconscio individuale e collettivo. Il luogo cioè dove le più antiche e recenti paure risuonano, affiorando attraverso i fantasmi, o simboli, che fuggevoli attraversano la terra e la coscienza.

    6.1.2. Il linguaggio e la cultura mediatori del radicamento nell'essere

    Nell'antico rituale sacro l'iniziato saliva al cielo, parlava con la divinità, scendeva agli inferi e quando ritornava sulla terra era in grado di socializzare ed esprimere la propria esperienza perché possedeva il patrimonio di una lingua, o di più lingue, che gli consentiva di parlar sia con la divinità che con i «demoni» oltre che naturalmente con gli uomini viventi. La lingua era il tramite che all'uomo arcaico garantiva la connessione, lo scambio tra le regioni costitutive del cosmo.
    Allo stesso modo, anche nell'uomo contemporaneo l'unità dell'esperienza e della vita psichica è garantita dalla lingua che, se compiutamente utilizzata, consente il risuonare nella coscienza dei valori e delle esperienze trascendenti, delle energie e delle paure che premono dall'inconscio individuale e collettivo.
    Il problema dello sviluppo di un centro nell'uomo, di cui l'animazione si fa carico, è nient'altro che quello della creazione di una sua efficace capacità di governo su tutte le dimensioni, anche misteriose, che lo costituiscono e quindi in definitiva di renderlo aperto a tutti i livelli di significato che sono embricati, più o meno profondamente, nei significati dei suo linguaggio. In altre parole, si tratta di allargare sempre di più l'unità fondamentale del linguaggio dell'inconscio con quello della coscienza.
    Ci preme ora sottolineare un altro aspetto: il ruolo della cultura nel «processo di individuazione».
    La cultura, come sistema unitario che attraverso il tramite esclusivo e fondamentale della comunicazione, linguistica e non, rende possibile l'esistenza dell'individualità e la sua unicità. La cultura rende possibile, allo stesso tempo, socialità ed individualità. Infatti è l'inserimento dei singoli individui nelle complesse organizzazioni della cultura che li rende contemporaneamente parti di un insieme ed unità irripetibili.
    La cultura però presuppone l'unità, l'unicità e l'identità dell'individuo. La cultura è il luogo dell'unità dell'esperienza collettiva solo se si fonda sull'unità delle esperienze individuali.
    La cultura è coscienza collettiva di un popolo se esiste come coscienza degli individui. Così nella cultura risuona l'inconscio collettivo, nutrito di simboli, miti ed immagini, solo se esso risuona attraverso gli stessi mediatori comunicativi nell'inconscio di ogni singolo individuo.
    La cultura, tuttavia, pur essendo la sintesi che rende allo stesso tempo possibile l'individualità e la socialità, non è il luogo dove si realizza l'unità dell'esperienza cosciente dell'individuo. Ne è indubbiamente la condizione necessaria, ma non quella sufficiente.
    Il luogo, a cui per altro la cultura garantisce la presenza e l'accesso, è costituito dal linguaggio che andando e provenendo dalla cultura, organizza e rende possibile all'uomo la riflessione intorno a se stesso, gli altri, la cultura e lo stesso linguaggio.
    Linguaggio però non inteso nella sua forma astratta ma come atto o facoltà dell'individuo. li linguaggio cioè come capacità personale di «usare» criticamente e creativamente il linguaggio sociale. Solo nell'individuo infatti si ha l'esperienza della coscienza. L'individuo è il tramite fondamentale, anzi è la necessità della coscienza e della formazione di quella realtà linguistica, ma non astratta, denominato mondo. Individuo, cultura, mondo si possono pensare come elementi di un circolo ermeneutico: l'individuo esiste in virtù della cultura, la cultura esiste in virtù dell'individuo ed il mondo è questo divenire secondo una spirale che ha come limite l'infinito vero.
    Per mezzo di questo schema ipersemplificante si può accennare alla reciproca necessità di cultura e linguaggio, mondo ed individuo.

    6.1.3. Livello conscio e livello inconscio dell'identità umana

    L'identità umana non è formata solo dalla coscienza, ma anche, come si diceva, dall'inconscio.
    L'animazione si preoccupa appunto di integrare l'inconscio con la coscienza. Verifichiamo subito l'importanza dei compito. L'uomo corre continuamente il pericolo di divenire inconscio a se stesso, di cadere nella malattia che nelle società industriali è l'alienazione, vista come malattia mentale o disgregazione della coscienza esistenziale. Se l'uomo si fa travolgere dall'inconscio e perde la coscienza di sé, perde la capacità di individuarsi come diverso da..., come esistente singolare nel mondo.
    La coscienza è la garanzia dell'identità dell'individuo, della realtà del suo accadere nel mondo. Il mito del centro ed i riti sacri ad esso connessi, garantivano all'uomo arcaico l'armonia dell'inconscio con la coscienza e quindi lo proteggevano dalla minaccia di distruzione del suo essere individuale.
    L'uomo moderno non ha più bisogno di un centro esterno, perché nella sua evoluzione culturale e psichica ha ricondotto al proprio interno dimensioni mentali che il primitivo proiettava nello spazio esterno. Il centro, che garantisce la trascendenza da un lato e dall'altro la comunicazione con l'inconscio collettivo, non è più in un luogo fisico, ma nella coscienza e nel sé dell'individuo umano.
    Il linguaggio allora, oltre a garantire l'unità dell'esperienza cosciente, garantisce anche l'unità complessiva dell'esperienza e della vita psichica umana, anche inconscia. Il linguaggio ritesse e lega, in qualche modo, il fluire sotterraneo delle acque in cui ribolle l'inconscio al destino della coscienza, rendendo di fatto compatibile il comportamento cosciente, riflesso, con la necessità, le pulsioni ed i significati che risuonano nell'inconscio stesso.
    Allo stesso modo di come realizza la relazione tra coscienza ed inconscio individuale, il linguaggio media anche tra questi e l'inconscio collettivo che la ha sede nella parte astorica e non visibile della cultura umana. Garantisce, cioè, l'unità dell'uomo con il mondo anche attraverso il tramite di tutte le avventure dei senso che sono esterne alla storia e quindi depositate nell'inconscio collettivo.
    Nella coscienza, attraverso il linguaggio e dunque ponendosi all'interno di una cultura, vi è la sintesi dell'esperienza del mondo, anche dei mistero e del non compreso, ma non vi è la sintesi di tutta la vita psichica umana.
    C'è da dire anche che il centro è nella coscienza e nella ragione. La psiche umana è indubbiamente l'insieme costituito dall'inconscio e dalla coscienza, così come il pensiero è la sintesi di razionalità e di irrazionalità, ma il centro di entrambi è, e non può che essere, nella coscienza e nel pensiero razionale. L'individualità, l'identità umana, la libertà, e anche la potenza è garantita solo dall'emersione della coscienza come centro, come sintesi di tutta la vita psichica umana: cognitiva, emotiva e relazionale.
    Negare questo significherebbe ributtare l'uomo nel passato della sua evoluzione, verso un livello di vita di tipo vegetativo ed automatico riflesso, verso una unità indivisa e inconscia con la vita ed il cosmo.

    6.2. La comunicazione nel terreno della cultura

    Si deve ulteriormente precisare lo «scambio» tra individuo e cultura, o, meglio ancora, la vita dell'individuo «dentro» la cultura. Nell'ambito della semiologia la cultura viene considerata da un punto di vista unitario quasi un «organismo vivente». In realtà, quando si dice che la cultura è unitaria non si vuol dire che al suo interno si presenti priva di tensioni, contrasti o lotte, ma piuttosto che quello che si verifica al suo interno è governato da un meccanismo unitario.
    La cultura è un «sistema» organizzato che contiene al suo interno un certo numero di elementi e i rapporti tra questi elementi sono governati da alcune regole. La pluralità degli elementi e le regole di governo garantiscono alla cultura compattezza, organicità, identità.
    Dire organicità della cultura significa in primo luogo dire che al suo interno c'è uno scambio tra le parti e che questo scambio è regolato da un centro direzionale. Si vuole ora parlare proprio di questi due aspetti della cultura: la comunicazione tra le parti e la regolazione degli scambi. Si deve porre anzitutto al centro della riflessione la coppia cultura-comunicazione.
    Cultura come sistema organizzato, dotato di una certa organicità. Comunicazione invece, come ogni attività dentro la cultura. La cultura è un insieme di regole in cui sono repertoriati gli elementi invarianti di un sistema. La comunicazione è invece l'attività concreta in cui è applicata continuamente la conoscenza della cultura. In questo senso si parla di comunicazione fra giovani e adulti «dentro» la cultura. Non si può, in definitiva, pensare ad una cultura se immediatamente non si pensa alla comunicazione che si svolge al suo interno, pena la morte della stessa cultura. Non si può pensare che una cultura esista, abbia un'identità storica, se non produce comunicazione tra i soggetti che ne fanno parte.

    6.2.1. La «memoria della cultura»

    La cultura non è quindi da considerarsi come un serbatoio in cui disordinatamente sono collocate le conoscenze e i modi di relazionarsi, ma come una sorta di archivio in cui c'è una forma grammaticale interna, c'è una forma di regolamentazione.
    Ma da che cosa è regolata al suo interno la cultura e da che cosa è regolata la stessa comunicazione? Qual è il meccanismo a cui finora si è accennato?
    Questo meccanismo è la «memoria della cultura». Analogamente a quanto accade ad un organismo che conserva, in qualche misura, la memoria delle fasi precedenti della sua vita, la cultura, vista come comparabile ad un organismo vivente, conserva la memoria dei suoi stati precedenti, del suo passato, dei suoi momenti significativi.
    La memoria della cultura non è necessariamente registrata per iscritto: ci sono, lo sappiamo benissimo, culture che conservano la memoria di sé senza mai aver lasciato scritto qualcosa.
    Questa memoria viene a stabilirsi mediante la ripetizione di pratiche, comportamenti, modi di vedere le cose.
    Non si deve pensare però alla memoria come ad un accumulo passivo e puramente ripetitivo: non funziona attraverso l'accumulo, ma piuttosto attraverso la «selezione».
    Questa selezione si esercita in due direzioni.
    La prima nell'espulsione o nella distruzione radicali di alcuni elementi e di alcune regole della cultura che si rivelano inadeguate, non omogenee o addirittura dannose.
    La seconda nella rimozione di alcuni elementi dal livello consapevole o conscio o da quello inconscio.
    Anche nella «memoria» della cultura, come in quella individuale, esiste un livello conscio ed uno inconscio. Nel livello inconscio della cultura sono collocati i significati simbolici, le immagini, i miti, gli archetipi e le paure più profonde che in qualche modo hanno accompagnato la ricerca di senso di un popolo.
    Selezione, però, non significa solo esclusione o rimozione, significa anche inclusione di nuovi elementi nella memoria e quindi nella cultura stessa.
    Infatti le esperienze significative, le nuove valorizzazioni, i nuovi modi di vita, ì nuovi comportamenti che si sono rivelati efficaci al perseguimento degli scopi del gruppo sociale vengono assunti e organizzati nella «memoria».
    In questo processo la cultura, che è dinamica, non mantiene la propria identità attraverso la innata staticità, la conservazione di se stessa mummificata, bensì attraverso un meccanismo simile a quello della identità individuale della persona. Così come una persona adulta riconosce essere «se stesso» quel bimbetto che ammicca da una vecchia fotografia, così la cultura riconosce se stessa nel proprio passato, anche se diverso.

    6.2.2. Animazione come ermeneutica dell'inespresso

    Acquisire la cultura significa apprendere a vivere individuando se stessi come soggetti appartenenti ad una particolare dimensione storico-esistenziale dello spazio-tempo.
    Questo processo di educazione non va inteso in modo unidirezionale, cioè di puro adattamento della persona, che può solo accettare ciò che già esiste (le tradizioni, i valori, le opinioni e le idee preesistenti), ma piuttosto come partecipazione attiva alla trasformazione della cultura.
    Il processo di acquisizione è sì di accettazione ma anche di rifiuto, in quanto la cultura è un organismo che se si rinnova e cambia continuamente vive, ma che se viceversa si conserva attraverso l'immobilismo ed il rifiuto del cambiamento, deperisce e muore. L'acquisizione della cultura implica perciò anche lo sviluppo della capacità di produrre cambiamenti evolutivi, insieme agli altri, nel cuore stesso della cultura; o perlomeno della capacità di far emergere e lievitare al suo interno la potenza dell'inespresso. La cultura in ogni epoca e in ogni luogo esprime se stessa. In questa attività porta a galla l'inespresso originario e, nello stesso tempo, lascia cadere parte di ciò che prima era chiaramente espresso.
    Da queste sommarie considerazioni nasce la constatazione che l'educazione alla cultura non può esaurirsi all'interno della cultura già fatta, ma deve affrontare sino in fondo il problema dell'inespresso.
    Per fare questo è necessario che nella animazione si stabilisca un circolo al cui interno avvenga il passaggio della cultura già data e la ricerca dell'inespresso che questa già contiene o che potrebbe contenere. Questo circolo è propedeutico alla creazione di nuove espressioni. In altre parole esso è costitutivo di ogni operazione di creatività.
    L'ermeneutica dell'inespresso, intesa come circolarità sempre rinnovantesi tra tradizione ed innovazione, è fondamentale per mantenere vitale il sistema della cultura sociale.
    Senza acquisizione della tradizione e della cultura già fatta infatti non si dà produzione di nuova cultura, ma solo distruzione. Così al contrario, la ricerca dei nuovo senza una adeguata acquisizione dei già espresso, conduce solo a riesprimere a livelli molto bassi ciò che da tempo era già stato espresso.
    È da notare che l'ermeneutica dell'inespresso, che altro non è che la forma principale dell'educazione alla creatività nella continuità culturale, si basa oltre che sul lavoro intorno ai contenuti anche sul lavoro intorno alla relazione educativa. Lavoro da cui non nasce direttamente la creatività ma le sue premesse, e cioè la capacità di apprendere dall'esperienza intesa come attuazione delle potenzialità manifeste e nascoste che ogni fatto umano, effimero o permanente, ha in sé.

    6.3. Orientamenti per l'animazione

    Veniamo ora ad alcune indicazioni per l'animazione. In altre parole, come ripensare le analisi e le indicazioni offerte nelle pagine precedenti alla luce dell'attuale condizione e cultura giovanile? In questa direzione l'animazione offre un contributo preciso in quattro direzioni:
    - l'apprendimento della lingua come modo di fare propria la cultura dì un popolo e di una società;
    - l'allargamento dell'apprendimento linguistico non solo al linguaggio dei segni e della razionalità logicoscientifica, ma anche al linguaggio simbolico come luogo in cui aprirsi al senso ultimo della vita;
    - l'apprendimento della lingua come radicamento nella «oggettività» in vista della «creatività» personale.

    6.3.1. Attraverso l'apprendimento della lingua, dei segni e dei simboli

    Detto questo rimane decisiva la considerazione che la lingua è la via primaria del radicamento di una persona nella cultura di un popolo, nella formazione della sua irripetibile e cosciente individualità, nella costituzione di quello che dai filosofi è chiamato mondo.
    Alcuni autori vedono nella lingua e nei vari sistemi di segni, linguistici e non, che ogni popolo usa, il luogo stesso della cultura. E nota l'espressione di Heidegger che afferma che la lingua è la cultura di un popolo.
    In conclusione, l'apprendimento della lingua, nella ricchezza dei suoi vari linguaggi iconici, musicali, ecc., che intessono una cultura è quindi fondamentale, anzi costitutiva di ogni processo formativo delle nuove generazioni. Perché questo processo di apprendimento della lingua e della cultura sia fatto secondo lo stile e il metodo dell'animazione, perché ne possegga la qualità, deve avvenire in modo particolare.
    La prima condizione è che questo apprendimento avvenga secondo linguaggi» che si sviluppano sia nella direzione dei segni che nella direzione dei simboli. Si parla di linguaggio razionale a proposito dei segni e di linguaggio simbolico, ovviamente, per quello dei simboli.
    Solo nell'intreccio dei due linguaggi l'animazione dispiega la potenzialità e la esistenza dei giovani si arricchisce di tutti i significati che gli permettono di aderire alla storia umana, radicarsi nella società, esprimere le sue potenzialità, far maturare l'adolescenziale desiderio di vita in adulto e maturo amore per la vita.
    Ho già detto, nella prima parte di questo lavoro, che la formazione delle nuove generazioni ha sofferto in questi anni per l'uso unilaterale, nell'apprendimento della cultura, del linguaggio dei segni a scapito del linguaggio dei simboli.
    Riprendo tali osservazioni per indicare la reciproca fecondità dei due modelli di linguaggio.

    6.3.2. Integrare il linguaggio logico-razionale e quello simbolico

    Il linguaggio simbolico non mira né ad analizzare la realtà né a dimostrare alcunché, ma semplicemente a rappresentare il mondo, nella sua totalità. Il linguaggio simbolico evoca, descrive e rappresenta il mondo, ma non vuole spiegarlo smontandolo nei suoi componenti essenziali e rimontarlo secondo leggi scientifiche, logiche o semplicemente razionali.
    È un linguaggio che non separa, ma tiene unita la realtà anche nei suoi aspetti contraddittori. Per questo motivo esso serve a «comprendere» tutti quegli aspetti della vita, della realtà e dei mondo che non sono dicibili secondo i concetti razionali. Il linguaggio logico-razionale è invece il linguaggio che non evoca, ma rimanda ad un sistema concettuale preciso.
    Se il linguaggio simbolico è il linguaggio dell'unità e della totalità, quello logico-razionale è quello della divisione e della parzialità. La realtà e il mondo per essere compresi sono smontati in parti successive, sempre più piccole sin quando ciò è possibile e necessario. E un linguaggio che classifica, ordina, separa e differenzia, con una incredibile fecondità, la realtà.
    Il linguaggio logico-razionale per eccellenza è quello della scienza, della tecnica e della filosofia, specialmente nella sua variante della filosofia della scienza. Esso consente all'uomo quella incredibile potenza di manipolazione della natura che specialmente il nostro secolo esprime.
    Linguaggio logico-razionale e linguaggio simbolico non sono opposti, ma complementari.
    L'aver per lungo tempo estromesso dall'orizzonte culturale dell'uomo contemporaneo il linguaggio simbolico ha significato di fatto l'aver favorito il suo sradicamento, la sua perdita di identità e quindi la sua alienazione. Non per questo voglio in alcun modo sottovalutare la necessità e l'efficacia del linguaggio della razionalità scientifica (il linguaggio dei segni).
    Infatti con la sottolineatura degli aspetti vitali, ai fini dell'esperienza umana, del linguaggio simbolico non intendevo privare di validità il linguaggio logico-razionale, ma semplicemente delimitarne gli ambiti.
    Il linguaggio della razionalità scientifica può infatti coprire una ampia parte della comprensione della vita umana e del mondo, ma è impotente ad esplorare i problemi che riguardano i più profondi nessi esistenziali e le vibrazioni dei significati legati al senso più riposto dei mondo e del mistero umano. Non a torto Wittgenstein sosteneva nel Tractatus: «noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi della vita non sono ancora neppure toccati».
    Riaffermare la potenza del linguaggio simbolico significa allora semplicemente evidenziare come una cultura umana non possa dirsi veramente piena e ricca, se non riesce ad integrare la conoscenza fornita dal linguaggio scientifico con quella svelata dal linguaggio simbolico.
    Una cultura che non realizza questa integrazione rischia, se privilegia il linguaggio logico-razionale di cadere nella disumanizzante esperienza dei razionalismo scientista, oppure, se privilegia il linguaggio simbolico di approdare alle infide paludi del più vieto irrazionalismo.
    il linguaggio logico-razionale può essere considerato il cardine, la pietra angolare attorno a cui si struttura la conoscenza e la prassi umana nel mondo.
    E il luogo necessario affinché il simbolo, dopo avere risuonato nelle profondità dell'inconscio o dell'infinito trascendente, emerga nel dominio della coscienza umana. li simbolo, per autoriflettersi, ha bisogno del piccolo ma significativo contributo del linguaggio dei concetti.
    Il linguaggio logico-razionale infine consente di dare valore all'esperienza dell'uomo nel mondo e nella storia.

    6.3.3. Radicare i giovani nell'oggettività della lingua per divenire creativi

    Ho finora sviluppato una condizione e qualità per cui l'apprendimento della lingua sia un fatto di animazione, e cioè l'abilitazione all'uso sia del linguaggio della razionalità scientifica, sia del linguaggio dei simboli.
    Ecco una seconda condizione o qualità, che può essere enunciata come abilitazione delle nuove generazioni, da una parte, ad apprendere i segni linguistici nella loro oggettività e, dall'altra, ad utilizzare tali segni e simboli in modo creativo.
    E anzitutto essenziale, durante l'apprendimento e l'uso della lingua, dello stabilirsi di un rapporto non distorto, stabile e socialmente condiviso, tra i segni e gli oggetti per cui essi in qualche modo stanno ed a cui quindi rinviano.
    L'uso rigoroso dei segni, la loro capacità di significare con il minimo di indeterminatezza, sono gli elementi che garantiscono la comprensione tra gli individui e che costituiscono di fatto la possibilità della relazione sociale.
    Occorre rilevare che questa qualità «oggettiva» dei segni non contrasta con quella della creatività, ma anzi le è complementare e forse addirittura la rende possibile. La creatività nasce dalla possibilità che i segni, anche nel loro uso insolito, hanno di richiamare dei significati più o meno simili tra gli utenti della lingua. Questa qualità che sembra a prima vista normale, banale, in quanto è essenziale ad ogni apprendimento linguistico, non è così scontata nella situazione sociale contemporanea, specialmente a livello giovanile, come si è visto nel Q5.
    Ridare terra alle parole ed ai segni, ricostituire un'ampia convenzione semantica, ecco una qualità che l'animazione può disvelare per ridare al linguaggio la sua capacità di orientare l'uomo nella realtà, sottraendolo all'attuale ruolo di annebbiamento e di oscuramento della stessa.


    7. LA PARTECIPAZIONE ALLA VITA SOCIALE

    Un secondo grande obiettivo dell'animazione, e di conseguenza la delineazione di una seconda area strategica, prende avvio dall'attuale momento di trapasso culturale in cui viene ad entrare in crisi da una parte la morale personale, cioè il senso di responsabilità verso la vita nelle sue manifestazioni, e dall'altra la morale sociale, intesa come presenza del soggetto nei vari ambiti del sociale e del politico.
    Globalmente questo obiettivo può così essere enunciato: abilitare ad una nuova responsabilità e capacità di progettare il futuro in un rinnovato equilibrio tra personale e sociale.
    Per una analisi della situazione rimando oltrechè al Q12 e al Q13, alle osservazioni, pur veloci, da me offerte nel Q5, alle pagine 14-15, dove accennavo alla difficoltà di transazione tra sistema sociale e mondi vitali, allo scollamento tra privato e pubblico, alla distanza, a volte insormontabile, tra paese reale e paese istituzionale. Entro quindi direttamente nel merito di una proposta educativa.
    Sembra importante attirare l'attenzione sui seguenti aspetti:
    - l'educazione all'uso degli strumenti che declinano l'incontro tra l'uomo e la vita, ed in particolare tra l'uomo e la cultura e la società;
    - l'educazione al controllo del potere e alla liberazione dal conformismo;
    - sollecitare verso una nuova sintesi tra morale individuale e morale sociale;
    - la valorizzazione del gioco e degli altri momenti creativi per un rinnovamento della società.

    7.1. Abilitare ad una comprensione «etica» degli strumenti

    Con il termine strumento intendo in generale tutto quanto serve a mediare il rapporto dell'uomo con se stesso e gli altri e il mondo. Strumenti sono i prolungamenti degli organi sensoriali umani, in quanto servono a potenziare le limitate capacità umane: un cannocchiale, un altoparlante, un telefono, una radio, ecc... Ma strumenti sono anche quelli che consentono di potenziare l'azione dell'uomo sulla natura: un martello, una leva, un tornio, ecc... Sono strumenti quelli che potenziano le attività motorie: una bicicletta, un'automobile.
    Sono strumenti infine anche quelli astratti o concettuali che aiutano l'uomo nella comprensione del mondo. Lo stesso linguaggio, al limite, potrebbe essere considerato uno strumento. Una teoria fisica è uno strumento al pari di quelli materiali.
    Gli strumenti, siano essi materiali o concettuali, sono sempre per prima cosa mediatori indispensabili di rapporto dell'uomo con la realtà. Tuttavia questa mediazione non è mai neutrale, nel senso che essa seleziona e favorisce alcuni aspetti del rapporto uomo-mondo e ne inibisce altri.

    7.1.1. L'antropologia dello strumento e la sua dimensione etica

    Ognuna di queste mediazioni attua la sua azione sulla scorta di una ben precisa antropologia o almeno di una ideologia che in qualche modo prefigura, ponendosi come a priori, lo stesso mondo che lo strumento dovrebbe o formare o descrivere. lo faccio uno strumento per trasformare il mondo avendo però in me, non importa se a livello esplicito od implicito, una prefigurazione del mondo quale esiste e dovrà essere, a una precisa concezione dell'uomo che lo abita o dovrà abitarlo.
    Ogni strumento ha sempre due significati: l'uno esplicito, ed è l'efficacia pratico operativa dello strumento, ed uno implicito o latente, che è la visione di uomo e di vita che esso veicola.
    Solitamente si tiene conto solamente del grado di efficacia che ha lo strumento per il raggiungimento dei fini espliciti, di quelli ufficialmente riconosciuti. Come fa la buona parte dei medici che prescrivendo un farmaco per la cura di un certo male non tengono conto di tutti gli effetti collaterali che lo stesso produce, con il risultato di guarire un male e di procurarne nel contempo altri di natura assai più perniciosa al paziente.
    Oltre agli scopi latenti che sono propri della loro natura, gli strumenti hanno una dimensione etica. Ogni strumento pone in rapporto con gli altri, con se stessi e influisce nel mondo abitato dall’uomo, migliorandolo o peggiorandolo, per cui emerge la necessità di attuare una valutazione di natura etica, al di là di quella semplicemente operativa od economica che abitualmente viene fatta.
    A ogni uomo compete il compito nei riguardi degli strumenti di operare affinché l'invenzione e la creazione di nuovi strumenti sia fatta a misura d'uomo e non ad. esempio sulle regole dell'efficienza e dei profitto.

    7.1.2. Tre criteri per valutare la moralità degli strumenti

    Il primo criterio per valutare gli strumenti nasce dal confronto di due morali: di quella dei principi e di quella dei risultati. Non basta che uno strumento sia giudicato buono, utile, positivo, ecc., sulla base di un qualche sistema astratto di principi applicato allo strumento, occorre anche che esso dimostri la sua utilità, la sua bontà nella vita quotidiana. È questo di solito che è in grado di far emergere gli eventuali effetti secondari dello strumento. Potrebbe darsi il caso infatti di uno strumento che sulla base dei principi ha tutta la validità e bontà morale di questo mondo, ma che nell'azione pratica dimostra una serie impressionante di limiti e contraddizioni. Questo atteggiamento di sintesi tra due morali, che valuta lo strumento in modo astratto individuale e nello stesso tempo nei risultati che esso produce nella vita sociale, è un potente antidoto contro il sorgere di integrismi, di moralismi o viceversa di spregiudicati atteggiamenti pragmatici che limitano la visione dei mondo dell'uomo alle secche del contingente e dell'esercizio concreto del potere. La riflessione in chiave etica intorno agli strumenti è un modo per formare uomini capaci di rigore morale, di identità e nello stesso tempo di esercitare a livello sociale condotte valide ed utili.
    Ogni strumento possiede un valore. Questo del valore è il secondo angolo di visuale per esplorare la dimensione etica degli strumenti.
    Sarà bene chiarire che quando parlo di valori non penso ad astrazioni elaborate dalla riflessione filosofica, come i concetti di giustizia, eguaglianza, ecc. Parlo invece delle «valorizzazioni» concrete così come possono risultare dagli atteggiamenti vissuti dagli uomini nei confronti degli altri uomini, nel lavoro, in tema di proprietà, di potere, ecc.
    È il valore che rende concreto, operante lo strumento a livello di sistemi sociali e individuali. È il valore che seleziona tra tutti i possibili strumenti quelli che avranno la ventura di esistere ed operare realmente; la selezione di questi strumenti avviene di solito nella direzione del consolidamento e della espansione del potere esistente.
    Si stabilisce un circolo vizioso, una sorta di prigione senza sbarre in cui sembrerebbe che il potere possa perpetuare eternamente se stesso. Per fortuna questo processo viene spesso rotto dall'immissione, fortuita o prevista, di nuovi strumenti e di nuovi valori che sono in grado di modificare profondamente il sistema di valori esistenti.
    Occorre anche sottolineare come ogni strumento sia sempre un'arma a doppio taglio che, come già detto, nessuno può conoscere a priori per quanto riguarda gli effetti secondari, latenti e collaterali.
    Non c'è mai in realtà uno strumento che opprima totalmente o un altro che liberi totalmente. Ognuno di essi ha sempre qualche effetto contrario a quello principale. È in questa spirale che si aprono gli spazi per la liberazione e il progresso sociale e individuale.
    Un terzo criterio di valutazione etica dello strumento lo si deve ricercare nel rapporto esistente o meno tra valori che lo strumento incarna e valori della cultura in cui è utilizzata. Il sistema di valori in uso nella nostra società tende a rendere operanti gli strumenti prodotti dal mondo della tecnologia e ad elidere gli strumenti che non nascono in asettici laboratori ma sono il prodotto definito di una cultura e di una tradizione antica. Il mondo tecnologico è senza passato, è indifferentemente collocato nello spazio, vive in una specie di astratta dimensione al di fuori dello spazio-tempo. La tecnologia crea prodotti uguali sia in Uganda che a New York, tende cioè sulla base di presunte regole razionali, di limitate comprensioni scientifiche, ad essere normativa di un uomo nuovo senza passato, senza nazionalità e con una identità etnica di tipo universale che nega le «arretrate» culture locali.
    È questo uno dei fenomeni sociali, forse il principale, che produce armonia alienando l'uomo dalla sua storia e quindi da se stesso e sul quale l'uomo deve esercitare la sua valutazione etica.
    Concludendo queste riflessioni, animazione vuoi dire, nell'acquisizione della cultura, la capacità di dare agli educandi la possibilità di cogliere la dimensione etica degli strumenti che assumono o di cui più semplicemente apprendono l'uso.
    Animare vuoi dire perciò rendere critica l'inculturazione, ponendola più direttamente in rapporto ad un preciso sistema di valori che in qualche modo la giudica.

    7.2. Abilitare ad elaborare l'antidoto contro il potere e il conformismo

    Erik Fromm in Psicanalisi della società contemporanea rileva: «L'autorità nella seconda metà del ventesimo secolo ha mutato il suo carattere; essa non si presenta più come autorità manifesta, bensì come una autorità anonima, invisibile, alienata. Non c'è nessuno che ordini. Però tutti ci conformiamo come o più di quanto non si farebbe in una società fortemente autoritaria». Dove ha sede questa autorità, quale potere si cela alle sue spalle? Questa autorità ha indubbiamente sede nei sistemi simbolici.

    7.2.1. La immunizzazione dal principio di conformità

    Nelle società industriali moderne il potere, l'autorità non si esercita attraverso costrizioni di tipo materiale, quali l'uso della forza fisica, ma attraverso i sistemi simbolici, Il potere diviene il controllo dei sistemi simbolici che utilizza ai propri fini.
    Viene in mente, per una curiosa associazione di idee, un principio educativo proposto da Bertrand Russel e da lui indicato con il termine immunizzazione dall'eloquenza e che chiarisce con questo esempio: «Comincerei dall'asilo presentando due tipi di dolciumi: uno molto buono e accompagnato da una descrizione fredda ed accurata degli ingredienti di cui è fatto; l'altro molto cattivo ma raccomandato dalla migliore pubblicità.».
    Quello che Russel indicava come immunizzazione dall'eloquenza è nel concreto un cammino, una strategia di animazione che svela i rapporti tra sistemi simbolici e potere.
    L'immunizzazione dall'eloquenza è una parte del processo che conduce alla liberazione dal principio del conformismo che viene trasmesso nei sistemi educativi della nostra società. £ questo del conformismo una delle più evi denti esemplificazioni del principio della autorità anonima di Fromm. Nella nostra società si insegna sin dalla più tenera età il conformismo, ma si badi bene, non il conformismo ad un ben determinato principio di autorità, ma un conformismo multivalente, buono per tutti i tipi di autorità e potere. L'importante è conformarsi, non ha importanza a chi, o cosa o come, dove e quando. Il principio di conformità esige il conformismo sempre.

    7.2.2. L'educazione alla liberazione dal potere

    L'antidoto al conformismo non è l'abbattimento di un potere, perché ad un potere abbattuto se ne sostituisce un altro, più equamente distribuito, magari, ma sempre fonte di staticità e convenzioni e perciò anch'esso generatore di conformismo. Allora chi è educato al conformismo passerà semplicemente dall'uno all'altro e alienerà il proprio potere rinunciando a liberare se stesso.
    Il compito dell'animazione perciò non è tanto quello di disvelare il potere, ma quello dì elaborare nelle persone l'antidoto al conformismo.
    Chi vuole educare invece svelando lui medesimo il potere ed indicando le vie della rivolta contro il potere, non educa alla libertà: combatte un potere in nome di un altro potere, ma non educa a combattere con realismo e fantasia contro tutti i poteri. Libertà è lottare per sostituire ad un potere un altro potere, per poi cominciare appena questo si è stabilito a combattere contro di esso in nome del principio che alla fine del potere c'è l'amore. Un amore totale non conosce potere.
    L'animazione non può negarsi l'educazione alla liberazione dal potere, ma non essendo essa azione politica pura non potrà farlo attraverso una lotta ma solo disvelando i suoi sentieri, che sono le prigioni senza sbarre, attraverso cui il potere prende possesso dei mondo. La prigione dell'uomo moderno è una prigione di simboli cementati tanto dalla malta a vista della logica quanto da quella invisibile delle paure antiche che scuotono la profondità dell'uomo.

    7.3. Verso una nuova sintesi tra morale individuale e morale sociale

    Vi è un altro compito ugualmente importante per l'animazione. Esso riguarda il rapporto tra morale individuale e morale dei sistemi sociali.
    Von Bertalanffy, a questo proposito, osserva: «I sistemi sociali ( ... ) sono entità che, grazie ad una funzione giuridica, acquistano gli attributi di una personalità ed agiscono e sono moralmente e giuridicamente autorizzati ad agire come se fossero persone o individui reali. Qualcosa di simile vale per i governi, le nazioni, gli Stati, ecc. Senonché i concetti morali applicabili ai sistemi sociali sono diversi da quelli applicabili agli individui. Detti sistemi sociali possono quindi fare, e di fatto impunemente fanno, molte cose che sarebbero immorali e punibili nel caso dell'individuo, sicché sorgono vari conflitti tra i valori morali dell'individuo e quelli delle sfere sociali».
    È ormai abbastanza diffuso, nella società moderna, questo comportamento scisso tra morale individuale e sociale che ci riporta al Principe di Machiavelli.
    Si dà il caso sovente di uomini probi, retti e profondamente onesti che poi nell'esercizio delle loro funzioni sociali, di politico, di dirigente d'azienda, ecc., agiscono con incredibile disumanità, sacrificando spesso il rispetto e l'amore per gli altri esseri umani sull'altare della causa che servono. Tutto questo senza che la loro coscienza sia minimamente scossa, in quanto, spesso, non hanno la più lontana percezione, o se l'hanno la rimuovono, di servire a degli scopi immorali.
    Questa scissione tra morale individuále e morale sociale consente a molte persone di essere, ad esempio, religiose ed oneste e, nel contempo, dei protagonisti attivi di situazioni di malgoverno o di oppressione dell'uomo sull'uomo. Questo anche perché il loro comportamento scisso è approvato; non solo, è la norma di comportamento nei sistemi sociali ai quali appartengono.
    Vivono in pace con la loro coscienza, perché il loro comportamento sociale è conforme alla norma sociale, e nel contempo il loro comportamento privato e intimo è anch'esso rispettoso di una norma morale di carattere religioso, laico o di qualsivoglia genere e specie.
    Ora questa situazione non è retaggio di una piccola parte dei genere umano; è invece piuttosto diffusa, direi comune alla maggioranza delle persone che vivono in sistemi sociali complessi. È questa indubbiamente una malattia che investe la nostra società industriale ed è funzionale al fatto che questa ha bisogno di cittadini ubbidienti e rispettosi delle norme morali, giuridiche e comportamentali nella società e nello stesso tempo di cittadini che diano il loro contributo alla sopraffazione del potere sugli uomini e quindi su loro stessi.

    7.3.1. li conflitto tra morale dei principi e morale della responsabilità

    In pratica, nelle società industriali, si richiede all'uomo di essere da un lato oggetto e dall'altro soggetto dell'esercizio del potere. In altre parole, gli si chiede di essere un collaboratore attivo, ed a volte il protagonista, di chi opera per la sua schiavitù. Uno schiavo che aiuta il padrone a renderlo più schiavo. È questo uno dei più sottili giochi del potere nella società contemporanea che, per realizzarsi, ha però bisogno di una morale sociale diversa e separata dalla morale individuale.
    Quella tra morale sociale e morale individuale, è una differenza che può essere assimilata a quella esistente tra la morale dei principi e quella di responsabilità.
    La prima morale giudica il comportamento umano a partire da una serie di principi morali dati a priori, la seconda invece giudica il comportamento a partire dai risultati pratici che esso produce a livello sociale.
    La morale individuale è una morale che agisce, sul comportamento, partendo da un insieme di valori a cui l'individuo aderisce. La morale sociale invece, come quella di responsabilità, partendo dagli scopi che un sistema sociale persegue, giudica l'azione degli individui che la compongono, dal contributo pratico che danno al perseguimento dei risultato. Nella morale sociale la norma è posta al di fuori dell'uomo, è il prodotto del comportamento umano che assume valore di norma per l'uomo. L'uomo è giudicato dai propri risultati, al di là che questi gli siano personalmente utili o dannosi. Si può dare infatti il caso di un uomo che compie un'azione che produce un risultato utile al sistema sociale e dannoso per sé. Orbene, questa azione assume un valore positivo per il sistema sociale, e la persona vive in modo positivo la propria azione, non percependo spesso la dannosità che l'azione stessa riveste per lei.
    Un esempio significativo può essere quello dell'operaio che compie un lavoro nocivo per un'impresa. Per il sistema sociale l'azione dell'operaio è positiva se egli accetta la nocività e presta la quantità richiesta di lavoro, è invece negativa se, per salvaguardare la propria salute, presta una minor quantità di lavoro. Nel primo caso l'operaio avrà gratificazioni morali e materiali, nel secondo frustrazioni morali e materiali.
    E magari capita che chi ha l'incarico di giudicare sul comportamento degli operai di una fabbrica, e dispensa gratificazioni e punizioni, sia una persona onesta, pia e religiosa nella vita privata, oppure convinto osservatore delle libertà e dei diritti civili, contrario ad esempio alla pena di morte.

    7.3.2. L'animazione e l'educazione della coscienza morale

    Il superamento di questa scissione dell'uomo moderno è uno dei compiti più urgenti che l'animazione deve porsi. Non può maturare un uomo scisso tra due morali. li potere non viene sconfitto se non si unificano queste due morali, se la condotta dell'uomo non ha una sua profonda coerenza. £ l'assenza di coerenza che è alla base di quel anonimo principio di autorità che Fromm descrive.
    La liberazione dell'uomo deve percorrere molte vie per essere efficace.
    Una vera coscienza deve essere in grado di cogliere al proprio interno il conflitto tra la morale individuale e quella sociale, deve avere la sofferenza della coerenza e la felicità dell'adesione ai principi.
    L'animazione deve espandere questa coscienza, renderla vera e critica, svelando l'ambivalenza di molti sistemi simbolici. Il conflitto tra morale sociale e morale individuale è un conflitto tra sistemi simbolici diversi, contraddittori che coesistono in un sistema simbolico più complesso di livello superiore dotato di relazioni a regole logiche false.
    Anche questo conflitto, per dilatare la coscienza, deve essere svelato a livello di operazioni sui sistemi simbolici che è, a costo di essere monotoni, l'unica via di conoscenza e di educazione che l'uomo ha a disposizione, anzi, più correttamente è il suo fattore evolutivo specifico.
    L'educazione non può fornire regole o modelli per realizzare una sintesi evolutiva delle due morali; ma semplicemente la coscienza della loro polarità e della necessità di una loro assoluta coerenza.
    Sarebbe però errato credere che il problema della conflittualità delle due morali sia risolubile semplicemente a livello individuale, facendo prevalere la morale individuale, e quindi attraverso l'intensificazione della educazione morale ristretta all'interiorità dell'individuo.
    C'è la necessità di integrare questo tipo di azione educativa in modo che porti alla presa di coscienza che, per poter raggiungere una vera sintesi armonica tra le due morali, è necessario cambiare il sistema sociale e quindi la sua morale.
    L'azione educativa deve tendere a saldare i valori individuali con i valori nascenti dai risultati del lavoro di trasformazione della realtà.

    7.4. Abilitare a giocare il gioco per riscoprire la vita

    La partecipazione alla vita sociale, la stessa politica sono un atto sterile chiuso alla libertà ed alla innovazione se non sanno nutrirsi di quell'attività umana, forse per alcuni futile ma per me estremamente seria, che è il gioco.
    La cultura giovanile d'altronde sta riscoprendo la dimensione ludica dell'esistenza.

    7.4.1. Il gioco nell'animazione non è una moda

    L'animazione deve accogliere questa scoperta e su questa fondare la propria capacità di liberare la politica, la vita sociale ed in definitiva l'uomo.
    Imparare a giocare è un obiettivo fondamentale dell'animazione e non un semplice piegarsi alle mode del tempo. Ma perché il gioco sia «animazione» deve essere gioco vero, e cioè libero e gratuito, svincolato dall'utilità immediata e da scopi che non siano il gioco stesso.
    Il gioco non è perciò come alcuni pensano uno strumento dell'animazione, ma un risultato a cui l'animazione tende. Liberare il gioco, far reimparare a giocare in modo vero il giovane, è un passo, come si vedrà, sulla strada della liberazione della vita e della realizzazione dell'uomo integrale.
    Se il gioco ha un ruolo notevole nella liberazione della politica, possiede però anche un grande ruolo nella scoperta della trascendenza.
    Nella cultura dominante all'interno delle società industriali si considera il gioco come una manifestazione marginale, un po' regressiva e comunque inferiore della natura umana. In ogni caso la sua utilità viene ristretta all'ambito dell'infanzia o al fatto che l'uomo ha bisogno ogni tanto di scaricare le tensioni.

    7.4.2. Il gioco come funzione dei sistema sociale

    Il gioco in realtà svolge nel sistema sociale alcune funzioni estremamente rilevanti, che non sempre si realizzano, perché nelle società a forte controllo sociale, autoritarie o fortemente impregnate dal mito della produzione esse vengono inibite e trasformate in funzioni di distensione, compensazione e sospensione e quindi in pure valvole di scarico sociale.
    La prima funzione del gioco è in effetti quella di laboratorio per l'apprendimento dei comportamenti sociali ammessi e l'inibizione non traumatica di quelli vietati, dopo una esperienza simulata.
    Nel gioco si ha la sperimentazione, dì modalità di comportamento nuove o diverse che tendono a ampliare lo spazio in cui normalmente esse si sviluppano nella vita quotidiana.
    La seconda funzione è quella di consentire l'esplorazione dei limiti del comportamento umano e delle combinazioni possibili, a partire dalla realtà concreta e mentale, su cui potenzialmente può declinarsi la vita umana presente e futura, senza che questa esplorazione comporti danni e conseguenze reali alla vita dell'individuo e dei sistema sociale nel suo complesso.
    La terza, per qualche verso simile alla seconda, riguarda la liberazione del fantastico, della capacità cioè di trascendere i limiti della utilità e della finalità biologica da parte di individui e di gruppi sociali.
    La quarta funzione è quella di dare stabilità al sistema sociale delle interazioni, impedendo che attraverso interazioni di tipo cumulativo siano violati i limiti di compatibilità del sistema stesso.
    La quinta e ultima funzione è quella che consente di recuperare il valore gratuito della vita e dei rapporti umani, di apprezzare l'esistenza e le sue combinazioni per se stessa senza subordinazioni ad ideologie o punti di vista centrati sulla finalizzazione della vita umana al perseguimento di determinati obiettivi teorici e pratici.
    Da questa descrizione emerge con una certa evidenza come il gioco abbia a livello del sistema sociale una funzione complessa che si esercita a più livelli.
    A tutto questo si aggiunga il caustico potere dissacrante che il gioco ha nei confronti dei dogmi, delle certezze e delle perenni (presunte) stabilità del potere, e si avrà meglio la percezione del perché stenti a svilupparsi nella vita quotidiana dei più la dimensione ludica e per associazione quella fantastica.
    La dimensione ludica sta crescendo nella cultura giovanile ed essa ha il sapore di una speranza in un progresso morale, civile e sociale senza passare attraverso il filtro della barbarie e della negazione distruttrice.
    Ludismo come utopia, come libertà, come autonomia, come antidogmatismo, come falsificazioni dei miti, delle false certezze e come recupero dei valori antichi della cultura superando i disturbi di comunicazione da una generazione all'altra.


    8. LIBERARE LA TRASCENDENZA NELL’UOMO

    L'antropologia di base a cui si è fatto riferimento nel Q5 ha portato ad evidenziare la dimensione della trascendenza come dimensione irrinunciabile nella vita dell'uomo e quindi nella sua educazione. In questa direzione, all'inizio di questo quaderno, ho detto (al paragrafo 5.3) che uno dei compiti principali dell'animazione è «riconoscere l'invocazione che la realtà in via di liberazione continuamente rilancia come invocazione aperta ad una speranza totale».
    Volendo tradurre in termini di «abilitazioni» questo enunciato mi sembra si possa dire che l'animazione si propone come terza area strategica di: abilitare a vivere uno spazio-tempo discontinuo e non omogeneo, in cui liberare la trascendenza nascosta nella vita dell'uomo.
    Per comprendere questa scelta è opportuno rifarsi alla analisi che offrivo nel Q5, alle pagine 12-14, a proposito della crisi di «orizzonte di senso» in cui collocare i gesti della vita quotidiana.
    Riprendo allora il discorso collegandomi proprio a quelle pagine.

    8.1. Abilitare a dilatare l'esperienza dello spazio e del tempo

    Si è visto nelle pagine precedenti che l'animazione culturale suppone una originale concezione di spazio e tempo, basati sugli studi dell'antropologia culturale e della fisica moderna. Questa concezione di base permette di introdurre tra gli obiettivi principali dell'animazione uno che può essere globalmente formulato come segue: creare uno spazio-tempo discontinuo e non omogeneo, espandendone in ogni caso la dimensione.

    8.1.1. L'odierna banalizzazione dello spazio e de tempo

    Il processo di secolarizzazione, ormai fenomeno di massa che ha inciso in profondità nella vita dell'uomo, ha certamente avuto degli influssi molto positivi nell'evoluzione dei mondo moderno, primo fra tutti la possibilità di superare antiche angosce e giungere così alla libertà e responsabilità, ma ha anche impoverito la sua dimensione esistenziale, negandogli spazi e tempi privilegiati per la comunicazione con la parte più intima e profonda di se stesso e gli orizzonti che significano il tempo della vita.
    La caduta delle grandi narrazioni, comprese quelle religiose, ha portato ad affrontare la vita con maggior realismo e senso dei limite, ma anche ha portato, i giovani soprattutto, alla banalizzazione della vita quotidiana e al suo rifiuto o al rendersi assenti da essa, come dimostrano le diverse forme di nichilismo, gaio o disperato che sia.
    Alla banalizzazione della vita quotidiana alcuni reagiscono andando ad oriente, in senso più figurato che fisico naturalmente, nullificando il valore della vita intesa come costruzione di una salvezza terrena ed escatologica, negando la libertà e, a volte, la stessa ragione per rifugiarsi nelle diverse pratiche di «fuga dal tempo e dallo spazio» umano.
    Altri reagiscono abbandonandosi alla violenza e alla distruzione degli altri.
    La maggioranza reagisce lasciandosi andare ad una consumistica ricerca di felicità e di piacere, rinunciando allo sviluppo delle proprie potenzialità interiori e ad un progetto etico.
    Altri, ancora, e non sono pochi, sentono invece urgente il bisogno di «risacralizzare la vita», nei suoi vari spazi e tempi, per riscoprire che la vita non è nulla e che la storia non è una illusione effimera, ma il luogo in cui l'uomo può perseguire la sua emancipazione terrena e nello stesso tempo la propria salvezza, legandosi per l'eternità alla verità e felicità divina.

    8.1.2. Ricostruire elementi di discontinuità nello spazio-tempo

    Ora non voglio qui riproporre il recupero di una arcaica e paurosa dimensione dello spazio-tempo, tipico di epoche precedenti, ma semplicemente riaffermare la necessità che la nostra cultura, pur accettando che lo spazio-tempo del mondo è tutto abitabile e santificabile, crei alcune discontinuità in esso. Queste discontinuità dovrebbero favorire la possibilità dell'uomo contemporaneo di scendere nella profondità di se stesso e di ascoltare le verità che dall'Essere scorre verso la sua coscienza.
    Una prima discontinuità è quella di un luogo in cui domini il silenzio, il tempo non scorra ed in cui lo spazio sia diverso, altro da quello in cui scorre la vita quotidiana. Un luogo in cui l'uomo possa riconsiderare il tempo e la vita con il distacco di un senso che è al di là delle porte dello spazio-tempo. In altre parole, un luogo in cui il linguaggio sia il silenzio, l'unico in cui possa risuonare la verità senza nome dell'Essere. Un luogo dove il tempo non scorre, ed in cui la propria identità viene riaffermata, al di là delle contingenze della storia, e legata al senso profondo del tempo che precede e che segue la comparsa dei mondo. Un luogo dove lo spazio non sia un semplice costrutto fisico, ma il segno della creazione e dell'amore che Dio ha posto nel tempo.
    L'animazione quindi deve tendere a far sì che gli individui ed i gruppi «sacralizzino» dei frammenti del loro spazio-tempo, sottraendoli alla monotonia omogenea della vita materiale e sociale, e li elevino a luoghi in cui ogni tanto ritrovare la più profonda verità intorno a se stessi, il mondo e Dio.
    Ricreare nel deserto frenetico della vita odierna delle isole in cui il tempo non scorre, domina la pienezza del silenzio come musica dell'essere e lo spazio è un libro aperto di segni in cui l'infinito dice di sé all'uomo nel mondo. Indico tre luoghi in cui la discontinuità dello spazio-tempo va riconosciuta e ricostruita dall'animazione:
    - la festa come «centro esistenziale»;
    - la narrazione in cui lo scambio generazionale di esperienza permette di andare oltre il tempo soggettivo;
    - il gioco desiderio limite, impersonato dalla relazione giovane-adulto, come modo attraverso cui apprendere a segnare lo spazio ed il tempo.

    8.2. Abilitare a vivere la festa come un luogo del centro esistenziale

    Non ci interessa, ovviamente, una riflessione generale sulla festa, ma solo portare l'attenzione su alcune sue funzioni nella vita personale e sociale.
    Ci interessa in particolare osservare la festa a partire dalla sua funzione di sospensione e di distensione.
    A ben osservare queste funzioni, importanti per la vita umana, in quanto consentono ai singoli individui ed alla collettività di rigenerare le proprie energie materiali, psichiche e spirituali attraverso l'uscita anche solo temporanea dal cielo ossessivo del bisogno e quindi della fatica dei vivere nello spazio-tempo mondano, non si può non rilevare che esse nella pratica possono perseguire due risultati assai differenti tra di loro.
    Nel primo caso la sospensione e la distensione della festa servono a rigenerare le energie dell'individuo e della collettività in funzione della efficienza della produzione e del lavoro. La produzione è al centro della vita ed il riposo è semplicemente una necessità ineliminabile.
    Nel secondo caso, che non nega però assolutamente la necessità dei rapporto festa/lavoro, la sospensione e la distensione festive sono finalizzate ad aiutare l'uomo a ritrovare se stesso e il vero senso della sua vita in una dimensione trascendente la necessità e il bisogno e le costrizioni dell'ambiente naturale e sociale.
    In questo ultimo senso ogni sospensione festiva assume un ruolo fondamentale per la ricerca del mistero di senso presente e nascosto nella vita umana.

    8.2.1. Andare oltre la «profanazione» della festa

    A questo punto si deve riconoscere che oggi la festa non è più un luogo dello spazio eminentemente sacro, il luogo in cui «rivivere», ad esempio, l'esperienza storica ma trascendente della vita e del sacrificio di Gesù.
    La festa non appartiene più, come nel passato, al tempo sacro, ma bensì al tempo profano. La festa è stata «profanata», ridotta anch'essa ad un tempo inutile e senza senso.
    La festa non è più un'uscita dal tempo degli accadimenti quotidiani per rivivere il tempo in cui l'uomo, la storia ed il mondo furono salvati, ma viceversa un radicarsi ancora di più nella banalità vuota della storia o al massimo in un mondo di festa disegnato dall'illusione.
    Illusione che la felicità della domenica (e della vita) possa esistere attraverso una semplice sospensione del lavoro o attraverso la sospensione di una routine quotidiana ritenuta senza senso. L'animazione culturale, a questo punto, considera suo obiettivo restituire alla festa in generale una funzione di centro esistenziale per le persone e per i gruppi. Quali sono le caratteristiche che un «centro esistenziale» deve possedere per essere considerato tale?
    Ritorniamo, ancora una volta, al «simbolo del centro», di base a molte delle riflessioni fin qui condotte.
    Il centro aveva una duplice funzione. La prima era quella di garantire un punto di gravità alla vita degli individui e della società, consentendo perciò loro di vivere, ruotando attorno al centro, in uno spazio in cui fosse salvaguardata l'appartenenza cosciente all'Essere.
    La seconda funzione era invece quella di rappresentare ed insieme essere il luogo in cui le tre dimensioni costitutive dei cosmo: il cielo, la terra e gli inferi, attraverso una rottura della loro separazione, entravano in contatto.
    Va subito osservato, per non dare adito a pericolosi equivoci, che il centro, che per poter essere compreso e utilizzato doveva divenire festivo, era apparentemente per l'uomo arcaico un luogo fisico, ma in realtà era un luogo sacro ed esistenziale.
    Ora, e forse per fortuna, non è più riproponibile una concezione di spazio e di tempo di questo tipo. È necessario, però, riproporre il nucleo di verità che il simbolo dei centro contiene, e cioè quella che il centro manifesta, radica e garantisce l'identità dell'uomo nella sua doppia dimensione di essere individuale e sociale.
    Ma non basta.
    Così facendo infatti si ridurrebbe il centro (e, di conseguenza, la festa) al consolidamento dell'aspetto sociale e culturale dell'esistenza. Occorre procedere oltre nella direzione della manifestazione e consolidamento della dimensione religiosa della esistenza.
    In altre parole, il simbolo dei centro ripropone l'urgenza, oggi soprattutto che l'uomo ed il giovane soffrono non solo di uno sradicamento culturale ma anche dì un offuscamento della dimensione religiosa della vita, di spazi e tempi in cui collocarsi per guardare fino in fondo a se stessi: sia verso il passato ed il futuro, sia verso le proprie radici della necessità biologica e del tempo, sia infine verso la propria aspirazione di trascendenza spirituale, al di là dei tempo e dello spazio storici.

    8.2.2. Dal centro esistenziale ad un centro spazio-temporale

    Indubbiamente, nella condizione sociale e culturale attuale, il centro esistenziale non può più essere riproposto per mezzo di un «centro spaziale» riconosciuto da tutti come tale e quindi «universale» per gli abitanti della città o di un suo quartiere.
    - Occorre accettare che il centro non abbia più un luogo unico ma sia molteplice, come sono molteplici i frammenti della vita sociale.
    In ogni caso però il centro, anche se non più unico, deve necessariamente collocarsi in un luogo dello spazio-tempo.
    Per un cristiano, le coordinate che individuano questo luogo sono quelle costituite dalla domenica (e dalla celebrazione dell'Eucaristia), in linea generale, e da altre coordinate che indicano in alcuni spazi subordinati la localizzazione del centro.
    Questi centri subordinati possono essere il ritorno alla terra natale, il pranzo di tutta la famiglia unita, la lettura di un buon libro, l'attività sportiva, una festa popolare...
    - Il centro, cioè, può essere in ogni atto che attraverso la gratuità riconnetta la persona umana ad un senso «verticale» della vita, trascendente ogni discorso di utilità biologica e sociale.
    Un centro subordinato, per divenire significativo sul piano esistenziale, deve in qualche modo divenire sacro, e quindi tale da consentire agli uomini di leggere i segni del divino nella propria storia personale, in quella dei suoi familiari, in quella del suo prossimo ed in quella più generale della società a cui appartiene, oltre che naturalmente in quella del mondo.
    Ma accanto a questo centro del «frammento» sacrale è necessario, se si vuole che la cultura riesprima in modo significativo la festa come centro, che avvenga in un contesto strutturale tale da consentire alle persone di vivere, almeno per una piccola parte dei loro tempo, un'esperienza diretta, a livello relazionale ed affettivo, della comunità come luogo umanizzato della solidarietà.
    In altre parole, è necessario che il centro festivo accada in un contesto che garantisca la possibilità di vivere un'esperienza di comunità agli individui che vi partecipano.
    - Concludendo questa riflessione si può affermare che fare della festa un centro esistenziale significa far sì che le cose «quotidiane» che si vivono durante questo giorno rivelino, manifestino il sacro di cui sono portatrici, che divengano cioè ierofanie. Non gesti eroici e straordinari, ma gesti tranquilli che sottratti al cielo del bisogno e quindi potenzialmente gratuiti, possano rivelare all'uomo il senso nascosto nell'accadere dell'esistere umano.

    8.3. Riscoprire la narrazione per dire il senso profondo della vita

    Il secondo luogo in cui la discontinuità spazio-temporale va riconosciuta ed educata è la «narrazione», cioè una forma di comunicazione di tipo «evocativo», capace di coinvolgere colui che parla e colui che ascolta in una esperienza viva dei senso dell'esistenza e della storia.

    8.3.1. Crisi della comunicazione educativa ridotta a «fredda informazione»

    L'educazione dei giovani si svela e si cela all'interno di un processo di comunicazione. Ogni educazione infatti, non importa se fatta con le immagini, le parole, i gesti o un comportamento complesso, è fondamentalmente una comunicazione attraverso cui, a vari livelli, fluiscono significati di diverso ordine, qualità ed intensità. Molta parte dell'educazione si gioca attraverso l'uso della parola, che rimane al di là di tutto la modalità di comunicazione privilegiata anche per l'uomo contemporaneo.
    Tuttavia la parola degli educatori, ad una analisi serena, appare monca, priva della capacità di suscitare risonanze profonde in chi l'ascolta, di essere il veicolo attraverso cui l'esperienza della verità e del senso trapassa da una comunità ai giovani che ad essa si accostano.
    Sotto l'impulso della scienza, del rigore metodologico, del primato della logica della ragione nella educazione si è privilegiata la parola dotta, i discorsi sistematici e ben fondati che trasmettono idee, contenuti ed informazioni. Per molte persone l'educazione è consistita quasi esclusivamente in una trasmissione sistematica, coerente e ben articolata, di concetti, di valori, di idee, principi ed informazioni, in cui dovevano restare il più estranee possibile le significazioni la cui regione è l'emozione ed il sentimento.
    Nell'educazione religiosa cristiana, ad esempio, largo spazio veniva dato alla dimostrazione, all'argomentazione, all'apologetica.
    Oggi si comincia ad avere coscienza che questo modello di comunicazione di fatto ha giocato un brutto tiro alla stessa proposta di senso dell'educazione e al confronto con la dimensione «oggettiva» della vita, rappresentata dalla cultura e dalla tradizione.
    Non è un caso che la cultura contemporanea sia fortemente caratterizzata dalla riscoperta della soggettività, dal ritorno dei privato, dei piccolo mondo vitale quotidiano.
    Qui gli individui (in modo particolare quelli giovani), sganciati dalla terra della tradizione e della esperienza comunitaria vivono la verità ed il bene solo come dimora del bisogno.
    La frammentazione dell'esperienza sociale ed esistenziale è stata provocata nei giovani dal fatto che la comunicazione dell'esperienza, della cultura sociale e religiosa, dei valori e dei principi ha preteso di avvenire quasi esclusivamente lungo i binari della teoria, della sistematicità e della oggettività.
    Con questo, sia chiaro, non intendo attribuire tutta la responsabilità del mancato radicamento dei giovani nella tradizione alla tendenza alla oggettivazione della trasmissione culturale intergenerazionale.
    Mi preme però sottolineare come l'abbandono della comunicazione centrata sul «racconto», fortemente risonante dal punto di vista simbolico, ha indubbiamente esasperato il processo di estraniamento dalla tradizione.
    La riscoperta della narrazione non può proporsi come una moda culturale, ma bensì come la necessaria risposta allo scacco della obiettivizzazione fredda e alle domande che dalla soggettività interpellano per aprirsi al senso ultimo della vita.

    8.3.2. La riscoperta della narrazione per declinare il senso della vita

    È in questo clima culturale e sociale che può essere meglio compresa la riscoperta della centralità della narrazione nell'azione educativa. Infatti la riscoperta della narrazione non deve essere collocata unicamente all'interno della pastorale, in quanto investe di sé pienamente anche la cultura laica, come il successo di Umberto Eco come narratore testimonia.
    Tuttavia quel di più dell'educazione alla fede, rispetto alle forme laiche di comunicazione, rende la riscoperta della narrazione più pregnante e significativa nel dominio della riflessione religiosa.
    Le riflessioni della teologia partono dalla costatazione che la «teologia cristiana si è diffusa attraverso i racconti di esperienze salvifiche» e che «quando una comunità diventa incapace di raccontare la sua testimonianza è resa sterile. La teologia degli ultimi secoli ha perso sensibilità al racconto e si è specializzata nella sistemazione organica delle idee. Ha costretto i racconti salvifici in una struttura logica deduttiva nella quale hanno perso quasi tutta la loro efficacia rivelatrice» (E. Schillebeecks).
    In altre parole si è riscoperto che la narrazione è l'unico modo che consente di allargare lo spazio-tempo di chi ascolta, consentendogli di incorporare un frammento dì quello costituito dall'esperienza di chi racconta.
    Solo il racconto, cioè, consente di partecipare una esperienza in modo che essa sia vitale, salvifica, arricchente non solo per chi l'ha vissuta ma anche per chi ne viene a conoscenza attraverso il racconto.
    li racconto è il cemento, il tessuto nervoso che dà unità alla comunità umana, è lo strumento che consente di collegare gli uomini contemporanei, le loro esperienze, con il passato e, per un credente, con la vita stessa del Cristo.
    Il racconto dilata lo spazio-tempo, consente che la vita del passato sia ancora vita per il presente, che le forme in cui è manifestata la verità ieri siano in qualche modo protagoniste del suo manifestarsi nelle forme odierne. Il racconto, la narrazione esistenzialmente significativa, è la sola forma in cui può compiutamente dirsi la tradizione, la verità, l'esperienza di Cristo, almeno nei limiti della loro dicibilità nel linguaggio umano.
    La narrazione, pur creando un mondo di immagini, simboli e miti fatto di assenze più che di presenze, è fondamentale per costituire l'orizzonte dell'esperienza concreta. L'esperienza concreta (la terra), senza la narrazione (il cielo), non potrebbe mai condurre ad un orizzonte di senso il proprio darsi e addirittura le sarebbe negato l'esistenza come esperienza.
    La narrazione è indispensabile affinché il reale, il concreto e il fatto possano divenire esperienza. 1 fatti da soli sono nulla in riferimento alla comunicazione. Narrati in una storia che dia loro l'orizzonte di senso, sono la più profonda esperienza di comunicazione.

    8.3.3. La funzione sociale della narrazione

    La narrazione oggi non viene riscoperta solo per le sue notevoli qualità intrinseche, ma, come ho già accennato, anche per la situazione sociale, che può essere riassunta nell'immagine di un sistema sociale frammentato in tante isole di soggettività.
    In un momento in cui l'oggettività del sistema sociale, dei grandi filoni di pensiero, dei grandi sistemi di leggi, consuetudini, valori e principi e financo delle più tradizionali automatiche obbedienze, vive una irreversibile crisi.
    La comunicazione sociale per non essere morte, chiusura e implosione dell'essere in se stesso non può che fondarsi su nuovi modelli.
    Ora, come si è visto, la narrazione si sta proponendo come la modalità principale attraverso cui l'isola della soggettività può ricongiungersi al sistema, in cui l'essere pur non rinunciando alla propria individualità può dirsi in un orizzonte più vasto proprio rispetto al mondo vitale quotidiano. Il senso può, cioè, riandare verso la socialità senza la compagnia dell'orda della barbarie.
    La narrazione, come apertura della nuova soggettività ad un nuovo modo di concepire l'universalità, e quindi l'oggettività del sistema, è una risposta efficace alla solitudine ed alla finitudine dell'uomo contemporaneo.
    La narrazione può rimandare oltre la solitudine, in un nuovo modello di convivenza sociale non più fondato sull'unità nell'uguaglianza ma sulla vicinanza nella diversità e financo nel conflitto. Sull'accettazione cioè dell'esistenza di altri mondi vitali accanto al proprio, estranei e non facilmente leggibili e comprensibili attraverso il dato oggettivo, ma la cui vicinanza solidale può essere sperimentata attraverso la narrazione e l'esperienza quotidiana riscoperta attraverso la storia della tradizione.

    8 4. Abilitare a vivere il gioco tra desiderio e limite

    Veniamo, quasi di passaggio, ad un terzo ambito educativo in cui abilitare a vivere la discontinuità spazio-temporale: il gioco desiderio-limite.
    Il desiderio, che può essere considerato il motore dell'esistenza umana, la molla che spinge l'uomo verso la vita intesa come ampliamento di sé e degli spazi esperienziali, se non è controllato e posto all'interno di un limite, può divenire la forza che distrugge la vita nullificandola e disperdendola. Il desiderio slegato dal limite emerge alla vita condizionandola al di fuori di ogni possibilità di controllo dell'individuo. P ciò che impedisce all'uomo di esercitare la ricerca della verità e la responsabilità.
    L'animazione dev'essere quindi intesa come una educazione al limite. Tuttavia, anche qui, con una importante precisazione. E cioè quella che se il limite diventa fisso, si cristallizza in modi ed in forme immutabili, impoverisce la vita negandole ogni significativa evoluzione.
    Deve esistere allora una dialettica desiderio-limite, in cui quest'ultimo si ridefinisce continuamente adattandosi alla nuova realtà umana, esperienziale e sociale del singolo individuo e della collettività dove la dialettica si svolge. In termini di animazione ciò significa che le norme e i codici morali ed esistenziali non vanno pensati in modo rigido e chiuso, bensì in modo flessibile ed aperto a nuove forme e quindi a nuove distribuzioni dei senso.
    Spostare i confini dei senso, è far dire al desiderio nuove forme, è costringere il desiderio a porsi come fucina di forme finite, è sottrarre il desiderio al rischio della distruzione. Significa ancora sottrarre nuove energie psichiche umane al caos e al nulla, per costruire nuove forme che altro non sono che nuovi modi in cui può dirsi la verità e la felicità della vita umana.
    Sin dalle origini della storia questa dialettica si è svolta con il giovane nel ruolo dell'espressione dei desiderio e l'adulto in quello del limite.
    Infatti se l'adulto, dimenticandosi il bieco dato anagrafico, non accetta questo ruolo, la dialettica desideriolimite non può svolgersi in modo efficace e quindi, in conseguenza, il desiderio non potrà manifestare tutto il suo potenziale creativo in nuove forme di vita ma, viceversa, tenderà ad evidenziare la sua carica distruttiva.
    Se l'adulto non si pone come limite al desiderio non fa il suo dovere, non svolge il suo amore per il giovane, anzi di fatto manifesterà il suo odio. Il problema non è intorno alla domanda se è giusto che l'adulto si ponga come limite, ma sul modo di porsi come limite. E quindi il modo di porsi come limite dell'educatore che deve essere valutato per giudicare della maggiore o minore bontà e democraticità di un approccio educativo.

    8.5. L'animazione e l'attenzione alla trascendenza

    Un altro obiettivo per l'animazione nasce dalla constatazione, già nelle pagine precedenti affermata, che l'unica via dell'uomo, per trascendere gli angusti limiti dell'utilità biologica, è costituito dai linguaggi simbolici. Bertalanffy si spinge più in là affermando: «Lo scienziato può dire con criteri affatto oggettivi che l'homo sapiens è il più alto prodotto dell'evoluzione terrestre, il mistico dice essenzialmente la stessa cosa quando afferma che l'evoluzione è Dio che diventa autosciente. Questa è antica saggezza mistica, cui Teilhard de Chardin ha dato soltanto espressione moderna, e non necessariamente la migliore. Solo così, evoluzione e storia sono qualcosa di più che il racconto di un idiota, pieno di strepito e di furia, senza significato alcuno».
    E più avanti riprende l'orazione sulla «dignità dell'uomo» di Pico della Mirandola svelando ì nessi che la legano agli esistenzialisti moderni: «Al momento di creare l'uomo Pico racconta – Dio aveva già impegnato tutti i tesori, gli archetipi, le nicchie dei mondo, assegnandoli, con natura rigidamente determinata, a piante, animali ed angeli. L'uomo fu tuttavia creato con il più nobile dei doni, come essere né terrestre né celeste, né mortale né immortale, dotato però di libero arbitrio. In tal modo egli può divenire sia una pianta vegetale o un animale rapace, sia un angelo o un figlio di Dio».
    Il libero arbitrio si gioca completamente nella scelta per alcune o altre delle strutture simboliche che l'uomo stesso liberamente si crea.

    8.5.1. L'esperienza religiosa nel cammino dell'uomo

    Se la via della trascendenza è accessibile solo attraverso la libera scelta di una struttura simbolica, un processo educativo non può rimanere indifferente a questo problema.
    Sarebbe alquanto contraddittorio il predicare che, attraverso l'animazione, si desidera favorire al massimo il processo evolutivo degli individui e dei gruppi, e poi non toccare, nel processo educativo, la fase più alta della evoluzione umana, la trascendenza della stessa natura, non più animale ma umana. L'educazione all'esercizio del libero arbitrio, parola ormai dimenticata tra visioni dell'uomo riduttive o costrittive che negano la libertà stessa dell'uomo, io penso sia ancora uno dei compiti centrali della formazione.
    L'educazione al libero arbitrio si salda strettamente con l'educazione alla trascendenza.
    Ma qual è la strada da percorrere durante un tale iter educativo?
    L'animazione non può fornire contenuti (si fa per dire): essa è un metodo; deve però orientare alla ricerca in tale direzione dando alla «trascendenza» tutta la realtà che essa ha, rompendo con quella tradizione che separa il problema religioso dell'uomo da tutta la sua sfera cognitiva, quasi non appartenesse anch'esso all'universo simbolico e non rappresentasse il punto supremo.
    Troppo spesso ci si dimentica che i più alti valori che strappano l'umanità dalla barbarie e dall'ingiustizia, dalla violenza dell'istintualità priva di qualsiasi senso che non sia la sopravvivenza, e che permeano di sé le civiltà, sono originati dai sistemi religiosi. Basta pensare alla civiltà occidentale in cui l'amore per l'uomo, il rispetto del debole, la pietà, la carità che sono sempre indicati come il punto massimo dello sviluppo di una coscienza umana civile, sono derivati dall'insegnamento e dalla vita di Gesù Cristo. Al di là che un uomo si manifesti come credente o non credente, la religione ha messo a disposizione di tutti l'alta tappa del cammino evolutivo raggiunto. Per il non credente questa tappa sarà solo un modo più evoluto di vita umana, per il credente invece essa è solo l'inizio di un cammino che porta l'uomo a trascendere se stesso: la via di accesso al divino.
    La dimensione religiosa non può essere esclusa o separata dalla educazione dell'uomo perché si toglierebbe al suo cammino evolutivo il polo più alto. Occorre però, con altrettanta chiarezza, dire che la religione da sola non è sufficiente se accanto ad essa non vengono sviluppati gli altri poli o sistemi simbolici che appartengono alla scienza, all'arteletteratura ed alla politica. Quello religioso è il polo più alto ma non il sufficiente e l'unico. Per essere vero e non un semplice feticcio deve appartenere organicamente all'universo simbolico dell'uomo, alla sua cultura.
    D'altronde uno degli obiettivi che ho indicato primariamente per definire l'animazione culturale è quello che essa deve rivolgersi alla globalità dell'individuo e stimolare la crescita armonica di tutte le sue componenti, le sue dimensioni, e quindi l'animazione è anche un contributo culturale nel senso in cui stimola e sviluppa la ricerca di una cultura unificata dell'uomo che è una sintesi più avanzata delle varie culture, scientifiche, umanistiche, religiose, e perché no, popolari.


    9. INTRODUZIONE AL METODO DELL' ANIMAZIONE CULTURALE

    Nelle pagine precedenti ho tentato di descrivere l'obiettivo generale dell'animazione e, attraverso le tre «abilitazioni», le strategie necessarie per raggiungerlo.
    Tuttavia né l'obiettivo né le strategie possono esaurire il discorso sull'animazione come metodo, in quanto il metodo, e cioè «l'arte di ben disporre le azioni ed i pensieri per ricercare la verità o per mostrarla agli altri quando la si è trovata», per concretarsi ha bisogno di strumenti e indicazioni operative ancora più concrete e specifiche.
    In altre parole, il discorso sul metodo dell'animazione si completa affrontando il discorso sugli strumenti e sul percorso dell'animazione. In questa parte mi limiterò ad una breve descrizione degli strumenti e del percorso dell'animazione, rimandando ad altri quaderni futuri la sua esposizione più completa (in particolare Q16, Q17, Q20).

    9.1. Gli strumenti dell'animazione: il gruppo e la relazione animatore-gruppo

    Tutti gli strumenti dell'animazione possono essere riassunti in uno principale, e cioè nella relazione o rapporto di comunicazione tra l'animatore ed il gruppo. Infatti tutto il processo dell'animazione ruota intorno a questo cardine costituito dalla relazione che l'animatore stabilisce con il gruppo costituito dai soggetti dell'animazione.
    Tuttavia questa semplificazione degli strumenti dell'animazione rischia di mettere in ombra quello che può essere considerato il centro dell'animazione: il gruppo primario. Infatti parlare di relazione animatoregruppo significa ammettere implicitamente che il luogo privilegiato dell'animazione è il gruppo primario, e cioè quel connettivo che consente agli individui umani quella duplice esperienza, per alcuni versi paradossale e misteriosa, di «tutto» e di «parte di tutto».
    Il gruppo primario è quel luogo in cui le persone formano un tutto pur mantenendo inalterata la loro individualità e quindi la capacità di riconoscersi, esse stesse, come un tutto ben definito.
    Il gruppo come evento che attraverso il gioco sottile reciproco di queste due totalità può emanare dei processi altamente formativi congrui agli obiettivi e alle strategie dell'animazione.
    La connessione degli individui in questa totalità è operata dai processi di comunicazione che li mettono in relazione tra loro.
    È la trama complessa della comunicazione che lega tante isole di soggettività in quel primo sistema sociale che è costituito dal gruppo.
    Ora non necessariamente, anzi solo poche volte, il gruppo sviluppa le qualità di luogo educativo in sintonia con l'obiettivo dell'animazione. E quando questo accade ciò non è un fatto solitamente casuale e spontaneo. Esso infatti è quasi sempre il frutto di un intervento dall'esterno: quello dell'animatore.
    Perché la trama di comunicazione che connette le singole persone nel gruppo sia tale da consentire a quest'ultimo di essere «luogo formativo» è necessario che essa possieda determinate caratteristiche,
    La loro descrizione avverrà nel quaderno sul gruppo come sistema di comunicazione (Q16). Per ora mi limito ad affermare che tale tipo di sviluppo nel gruppo è, in qualche modo, indotto dalla relazione, e quindi dalla comunicazione che l'animatore ha con il gruppo.
    Risulta a questo punto, penso con chiarezza, che lo strumento principale dell'animazione, e cioè la relazione animatore-gruppo si fonda su due strumenti particolari, e cioè il gruppo e la comunicazione.
    I due strumenti che l'animatore deve possedere in modo fondamentale sono, in altre parole, la conoscenza delle dinamiche di gruppo e dei processi attraverso cui si sviluppa la comunicazione umana.

    9.2. Le tecniche come potenziamento della relazione animatore-gruppo

    La relazione dell'animatore con il gruppo può essere dall'animatore resa più efficiente e potente con l'ausilio di tecniche psicosociali particolari. Anche queste tecniche costituiranno l'oggetto di un quaderno a parte (Q20).
    Qui mi preme sottolineare però che l'animazione non può essere, come fanno alcuni o molti, ridotta ad un insieme più o meno organico di tecniche.
    Sono sempre più numerose le pubblicazioni e i corsi che propongono l'apprendimento dell’arte dell'animazione attraverso l'acquisizione di un certo bagaglio di tecniche psicosociali e/o espressive.
    Questa tendenza, oltre a banalizzare una attività seria e complessa come l'animazione, è altamente pericolosa dal punto di vista educativo.
    Un animatore che conosca le tecniche e non invece il metodo e i fondamenti dell'animazione, è simile ad un chirurgo che sappia tagliare, suturare e cucire senza però conoscere né l'anatomia né la fisiologia umana. La sua tecnica gli sarebbe inutile nella maggior parte dei casi, quando non addirittura pericolosa.
    Le tecniche servono all'animatore, e sono un potenziamento della sua azione, solo se egli le può usare all'interno di un discorso educativo coerente e finalizzato. Con un paradosso si potrebbe dire che l'animatore è abilitato ad usare le tecniche solo quando potrebbe farne a meno.
    In altre parole, questo significa che l'animatore potrebbe raggiungere gli obiettivi dell'animazione solo attraverso la gestione della sua relazione ori il gruppo, senza ricorso a tecniche particolari. Se si ricorre a queste è solo per potenziare la sua azione e renderla a volte più rapida e incisiva.
    L'animatore deve sapere, prima di tutto, andare a piedi e poi in automobile. È chiaro che con l'automobile le distanze si percorrono più rapidamente e con minor fatica, ma ciò non significa che non possono essere percorse a piedi. Per usare correttamente l'automobile, oltre a saperla guidare, bisogna conoscere il luogo dove si vuole andare e le strade necessarie per raggiungerlo, e cioè l'obiettivo e le strategie.
    Le tecniche si pongono, rispetto all'animazione, come un potenziamento delle capacità umane. Allo stesso modo come l'automobile è un potenziamento della capacità naturale di locomozione attraverso la marcia e la corsa.
    Prima occorre conoscere l'animazione e solo dopo si possono usare con efficacia le cosiddette tecniche.
    La sola conoscenza delle tecniche non crea animatori, ma solo apprendisti stregoni in cerca di guai.
    Le tecniche che l'animazione può utilizzare sono quelle dei giochi psicologici, degli interventi «terapeutici» nel gruppo, della comunicazione umana ed infine quelle riferite ai processi attraverso cui sì dà forma alla espressività artistica o non.
    Concludendo questo quaderno si può affermare che l'animazione, intesa sia come antropologia che come strategia esistenziale che tende al miglioramento della qualità della vita umana, si fa processo educativo concreto attraverso l'animazione di gruppo, attraverso cioè la relazione animatore-gruppo.

    IL CANOVACCIO

    Per una scuola di giovani animatori

    Franco Floris - Domenico Sigalini


    Il Q6, in continuità con il Q5, si propone di approfondire, a proposito di animazione culturale dei giovani:

    - l'obiettivo generale e le sue specificazioni e mete intermedie;
    - le grandi linee strategiche che ne derivano;
    - una prima veloce introduzione al metodo, collegandosi ai quaderni della quarta serie «Strumenti dell'animazione».
    Scegliendo tra i tanti temi del quaderno, il canovaccio offre degli spunti operativi su alcuni «passaggi» delicati.

    VERSO L'OBIETTIVO GENERALE DELL'ANIMAZIONE

    Il quaderno presenta l'obiettivo generale dell'animazione con una espressione molto concisa (cf p. 00). Accostarsi in modo corretto a questo obiettivo richiede una serie di tappe che ora proviamo ad individuare.

    Tappe verso l'obiettivo generale

    1. Una prima tappa è la sensibilizzazione all'obiettivo generale. In altre parole: cosa, in modo sintetico, ci si propone quando si fa animazione con i giovani?
    2. Una seconda tappa è la riflessione sul modello messo in atto nel descrivere l'obiettivo. Si può sollevare il problema offrendo una griglia in cui emergono i tre «modelli» usuali in questa ricerca: il modello deduttivo, il modello induttivo, il modello circolare (cf Q7).
    3. Una terza tappa può consistere nel far emergere che al centro dell'animazione sta il giovane alla ricerca della identità personale.
    4. Una quarta tappa può essere attenta ad esplicitare il problema del senso.
    Della identità personale si può parlare in più modi, o meglio, a più livelli: a livello psicologico, a livello sociologico, a livello culturale, a livello esistenziale.
    A quale livello si intende collocare l'animazione culturale?
    La proposta di M. Pollo intende assumere i vari livelli, ponendosi però, fin dalla descrizione dell'obiettivo, dal punto di osservazione del «senso» della vita quotidiana.
    5. Una quinta ed ultima tappa è la presentazione dell'obiettivo generale e delle sue tre specificazioni come sono offerte da M. Pollo.

    Si può osservare, riassumendo quanto detto:
    - l'obiettivo è stato elaborato con un modello circolare (da una parte l'antropologia dell'animazione e dall'altra la crisi di identità dei giovani);
    - si colloca al livello del senso, ma include globalmente anche gli altri livelli;
    - pone il senso come realtà da accogliere (e prima ancora da «scoprire» come un tesoro in un campo) e come realtà da far crescere, sviluppare attraverso la propria vita;
    - l'animazione si propone di stabilire una intensa «comunicazione» tra individuo-società e cultura-trascendenza.

    Strumenti per le varie tappe

    1. Per le prime tre tappe ci si può dividere a gruppi e, dato un tempo breve (dieci minuti circa), arrischiarsi nello stendere un obiettivo generale per l'animazione culturale dei giovani degli anni '80.
    Le varie descrizioni possono essere riportate su uno o più cartelloni per un confronto.
    Siamo alla seconda tappa. Il compito dei confronto è far emergere il «modello» utilizzato nell'elaborazione dell'obiettivo.
    In altre parole: come è stato elaborato l'obiettivo? Con un modello deduttivo? Con un modello induttivo? Con un modello ermeneuticocircolare?
    Per passare alla terza tappa si può porre l'attenzione sul fatto che procedendo secondo il modello circolare oggi l'animazione deve fare i conti con tre costatazioni:
    - essere giovani e essere alla ricerca di una identità personale;
    - la ricerca è resa «difficile» dalla attuale situazione socioculturale;
    - l'educazione oggi deve porre al centro del suo servizio la formazione dell'identità personale.

    2. Per la quarta tappa, che si propone di abilitare a parlare con correttezza del problema del senso, si può procedere come segue.
    Si può iniziare con:
    - un fotolinguaggio con il mandato: «a quali di queste foto ti rimanda il vocabolo ”senso”?»;
    - oppure: associazioni libere con il mandato: «senso è...».
    Si passa alla costruzione di dieci espressioni o frasi in cui ricorra il vocabolo «senso». L'animatore può scriverne qualcosa su un cartellone e poi invitare a continuare.
    Alcuni esempi:
    - «che senso ha lottare per un ideale, sacrificarsi per una causa?»;
    - «quello che stai facendo non ha senso»;
    - «che senso ha vivere in città?»;
    - «studiare in questa società non ha senso»;
    - «se sei solo come un cane che senso ha la vita?».
    Una volta raccolte una decina di espressioni ci si chiede: qual è il «contenuto» del vocabolo «senso»? Ed ancora: quali le condizioni per cui qualcosa abbia «senso»
    Ora la ricerca può essere portata sui livelli di senso che il soggetto sperimenta in sé.
    Si possono utilizzare i ricordi personali («Ricordate qualche fatto, occasione, situazione, incontro in cui avete sperimentato che aveva «senso» Perché?) per individuare:
    - i diversi livelli di senso (benessere fisico, godimento psicologico, integrazione sociale e cosmica, pienezza esistenziale ... );
    - il senso come qualcosa che viene «accolto», perché gratuitamente dato, e come qualcosa che nasce da ciò che si costruisce (con la fatica, studio, lavoro, amore ...).
    Si può concludere verificando insieme l'affermazione: «vivere è accogliere e dare senso alla vita».
    Si può ora passare a parlare dell'avventura di senso che pervade l'umanità.

    3. Per la quinta tappa (presentazione dell'obiettivo dell'animazione secondo M. Pollo) si può procedere con una relazione utilizzando il disegno dei tre cerchi riportato in questa pagina.

    q6 62a

    IDENTITÀ NEL GIOCO TRA VISSUTO PERSONALE E CULTURA

    Una riflessione organica su questi temi (cf pp. 915) può essere sviluppata con l'aiuto di un disegno, da fare man mano che si procede nella relazione nel paragrafo 6.

    q6 62b
    - il fluire di esperienze (i quadratini);
    - il collegamento delle esperienze (le frecce),
    - fino a delineare un'unità (il cerchio tratteggiato).

    q6 62c
    Il collegamento delle esperienze verso la individuazione è un processo che avviene a livelli diversi di profondità «dentro» il soggetto:
    - il livello dei cielo o della fede e dei valori (parte superiore);
    - il livello della terra o della coscienza e della ragione (parte centrale);
    - il livello degli inferi o dell'inconscio e del desiderio (parte inferiore).

    q6 62d
    Una osservazione: la coscienza (parte centrale) è il luogo in cui devono confluire sia il «cielo» che gli «inferi»: senza questa riunificazione dei livelli nella coscienza non esiste individuazione.
    La maturazione dell'individuo non è data solo dalla capacità di «vivere dentro di sé», ma anche di collocarsi nella vita culturale e sociale dove si può osservare:
    - la pluralità dei soggetti con una loro vita personale;
    - la stabilità di «relazioni» tra di loro (le frecce);
    - il processo di individuazione avviene dunque dentro la cultura che è unità
    (= una cultura) e diversità (= più esperienze).

    q6 63aLa cultura non è la somma degli individui, ma ha una sua vita, quasi fosse un organismo vivente, dove si può osservare:
    - una «memoria culturale» che regola la vita dentro la cultura, conservando e cambiando abitudini, tradizioni, modi di vivere, concezioni della vita...
    - un cielo o fede collettiva, una terra o coscienza collettiva, gli inferi o un inconscio collettivo;
    - anche per la cultura la «coscienza» è il luogo dove convergono la fede e l'inconscio collettivo;
    - a fianco di una cultura ce ne sono altre (non rappresentate nel disegno) con le quali essa stabilisce ulteriori rapporti di comunicazione.
    Alcune conclusioni circa il processo di individuazione:
    - l'identità del soggetto ha una vita personale e una vita collettiva: ci si individualizza quando si riconosce tutto questo e si vive, di conseguenza, non considerandosi né slegato dalla cultura, né una sua appendice,
    - l'identità presuppone di saper vivere cielo terra in ferì, a livello personale e collettivo;
    - l'identità non è mai raggiunta ma è vivente, dinamica, da perseguire continuamente per «esprimere» nuova vita.

    Che ha a che fare questo con l'animazione?

    Si possono evidenziare alcune osservazioni a proposito della formazione dell'identità.
    - l'animazione è a servizio dell'identità delle persone per svilupparla nella globalità (cieloterrainferi) a livello personale e culturale;
    - l'animazione si occupa non solo della vita delle persone (ad es. i giovani) ma anche di quella della cultura nel suo insieme;
    - l'animazione non è più riducibile a «fare attività» (gioco, teatro, gruppo... ), ma pretende di essere un modello educativo dell'identità che partendo dal fluire delle esperienze si apre ad una «presa di coscienza» della realtà personale e culturale;
    - se l'animazione non è «attivismo», non è neppure intellettualismo, perché il processo di formazione dell'identità non scatta se non a partire dal «fluire» concreto delle esperienze.

    LINGUAGGIO LOGICO-RAZIONALE E LINGUAGGIO SIMBOLICO-EVOCATIVO

    Per un primo approccio ad un tema difficile come quello del linguaggio logico-razionale e linguaggio simbolico-evocativo si possono utilizzare alcuni giochi.
    Ne indichiamo due molto semplici; alcuni possono essere facilmente inventati.
    -Un primo gioco può consistere nel mimare una scenetta a cui partecipano tre personaggi tipo: uno scienziato, un poeta ed un fraticello. Tutti e tre devono mimare la scenetta di chi è seduto ad un tavolo, sente fame, va a cercarsi una mela e... la mangia. Mentre mimano la scena, uno dopo l'altro, essi devono parlare, utilizzando il linguaggio tipico dello scienziato/ medico (linguaggio logico-razionale della medicina), del poeta (linguaggio simbolico-evocativo) e del fraticello (linguaggio simbolico religioso dei credente e delle sue immagini bibliche).
    I presenti prendono nota di ciò che ogni personaggio dice ed al termine si caratterizzano i tre linguaggi, dapprima opponendoli per far osservare che colgono ligrandoli per sottolineare l'unità del reale al di là delle sue letture. (Se si vuole complicare il gioco... si può far intervenire anche una capra che mangia la mela e non può dire niente perché... non possiede un linguaggio. Non è animal symbolicum!).
    -Altri giochi dello stesso tipo possono essere realizzati in gruppo. Si può, ad esempio, dividere il gruppo in tre sottogruppi (linguaggio logico-razionale, linguaggio simbolico-evocativo, linguaggio religioso) e proiettare una diapositiva con il sole che sorge o che tramonta, oppure con una mamma che allatta il suo bimbo, con un padre che cammina tenendo per mano il suo bambino...
    Dopo aver osservato per un certo tempo la diapositiva, ogni gruppo ha cinque minuti di tempo per raccogliere la sua lettura della diapositiva. Si confrontano le di la proprietà dei vari linguaggi.

    q6 63b

    PER UNA SINTESI SULL'ANIMAZIONE CULTURALE

    Il lavoro conclusivo sul Q5 e sul Q6 non può essere che dì sintesi, per ritracciare il filo sotterraneo che collega le pagine.
    Proponiamo uno schema che riprende i principali paragrafi dei due quaderni, per organizzarli secondo le indicazioni della teoria curricolare applicata alla programmazione.
    Lo schema riportato a pagina 31 e le sue caselle indicano le tappe ed il modo di lavorare. Si tratta di riempire progressivamente, rifacendosi ai due quaderni, le varie caselle attraverso brevi lavori di gruppo, magari con l'aiuto di tecniche come il Philips 6x6 o simili.


    T e r z a
    p a g i n A


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