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    Qualche sfida alla pastorale giovanile


    Riccardo Tonelli

    (NPG 2007-01-27)


    Sfida è una parola di moda. Spunta da tutte le parti e quando qualcuno, stretto da problemi e da preoccupazioni, non sa più cosa fare, se la cava chiamando una «sfida» questi fatti inquietanti. Quando i fatti sono sotto gli occhi di tutti, constatarli, in modo attento e critico, è la prima cosa che dobbiamo fare.
    Non pretendo di essere originale per forza. Non ci riesco e non serve.
    Mi piace però fare un passo in avanti, dando alla voce «sfida» una connotazione più ampia del semplice disappunto che proviamo quando quello che sta capitando ci mette in crisi e riconosciamo di essere incapaci di trasformarlo. Con l’espressione «sfida» in questo contesto intendo una interpretazione riflessa del vissuto culturale attuale per cogliere i segni di novità presenti e quei dati di fatto che provocano il progetto di esistenza diffuso e generalmente consolidato. La «sfida» è, di consequenza, un contributo e una provocazione: una provocazione che regala contributi preziosi, proprio mentre sollecita ad intervenire coraggiosamente.

    UNA SFIDA DA RACCOGLIERE

    La pastorale giovanile (l’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale mette in programmazione per aiutare i giovani ad incontrare il Signore Gesù e a lasciarsi afferrare da lui) attraversa oggi una stagione un poco stanca e, come capita, in stagioni simili, piena di tentazioni involutive.
    In questi anni ne abbiamo sperimentato tante e, purtroppo, alla luce dei fatti (soprattutto se lo sguardo si allarga dai giovani bravi che ci girano vicini, ai tanti più o meno «lontani») i frutti delle nostre fatiche non sono poi esaltanti.
    Basta pensare, per fare un esempio concreto, ad alcuni grandi eventi ecclesiali. Suscitano entusiasmo, attenzione, sembrano aprire a disponibilità insperate… e poi per la stragrande maggioranza dei giovani passano come un fulmine a ciel sereno. Qualcuno arriva a contestarli proprio per questa ragione. Qualche altro va alla ricerca disperata di responsabilità… per non rassegnarsi ad incolpare solo il clima che stiamo respirando un poco tutti. Rileggendo le interviste che precedono questa nota, lo si può facilmente constatare.
    Tra le righe - dei fatti e di certe riflessioni sui fatti - qualcuno sembra orientato ormai verso decisioni nuove. Ci siamo divertiti a sufficienza (dice senza dirlo) in questi anni adolescenziali (per la pastorale giovanile). Ora è tempo di tornare alle cose serie: rilancio dell’oggettività sicura, cura più consolidata delle esigenze della verità, annuncio più forte e chiaro, spiritualità più esigente, meno incertezze più coraggio, e cose simili.
    Certo le ragioni non mancano e nessuno può dare torto a chi la pensa così; e poi qualche lettura della realtà sembra dargli davvero ragione.
    Mi chiedo: che possiamo fare, visto che rassegnarsi è sempre la peggiore soluzione, soprattutto quando c’è di mezzo la vita e la speranza di coloro che Dio ama fino a donare il proprio Figlio?
    Da tempo stavo pensando alla necessità di riscoprire la Chiesa (oltre l’esperienza rassicurante del piccolo gruppo a misura personale), restituendole la funzione fondamentale di «grembo materno» soprattutto per una generazione segnata da una grande orfanità culturale.
    Parlo di «riscoprire» la Chiesa, perché questa esigenza non coincide con l’esperienza di Chiesa che facciamo nel piccolo gruppo degli amici o nell’entusiasmo di un evento straordinario. Penso quindi alla necessità di riscoprirla come compagnia affidabile, cui consegnare sostegno, verifica, direzione del nostro cammino di maturazione nella vita cristiana.
    Ci stavo pensando, come fa uno che cerca dove mettere le mani e stenta a trovare appoggi sicuri. I tre contributi precedenti mi hanno incoraggiato a tradurre l’intuizione in progetto.
    La sfida che la nostra stagione lancia alla pastorale giovanile non consiste nei ritorni nostalgici alle sicurezze di un tempo, ma nella riscoperta che c’è bisogno della Chiesa, in modo riflessivo per gli educatori, in modo esperienziale per i giovani.
    Provo a dire prima di tutto il perché e poi il come.

    L’APPARTENENZA PER RESTITUIRE ALLA CHIESA LA FUNZIONE DI MEDIAZIONE SALVIFICA

    Dio parla all’uomo in parole d’uomo. Quello che si vede, si constata, si ode… si porta dentro un mistero, altrimenti indicibile, che è la presenza e la parola di Dio.
    È importante constatare che questo intreccio misterioso riguarda, in modo radicale, l’evento della Rivelazione. Riguarda però anche la sua traduzione sul piano concreto e quotidiano della vita della comunità ecclesiale: l’evangelizzazione.
    Come ha fatto Gesù, così anche oggi i discepoli di Gesù continuano a parlare di Dio agli uomini, pronunciando parole umane per dare volto e parola al mistero ineffabile di Dio.
    Anche la risposta che l’uomo dà all’appello contenuto nella Rivelazione ripete lo stesso schema comunicativo.
    C’è una consapevolezza importante da non dimenticare, per le tante conseguenze concrete di cui la constatazione è carica.
    Questa è la consapevolezza: la parola di Dio che incontriamo nel testo della Bibbia e quella che la comunità ecclesiale propone nella evangelizzazione sono sempre profondamente segnate di «cultura», perché solo così l’una e l’altra diventano parola di Dio per l’uomo, come ricorda Dv 13.
    La stessa constatazione vale per la risposta che ogni uomo dà alla parola di Dio che l’evangelizzaziione gli propone: dice di sì a Dio che lo chiama o rifiuta ostinatamente questa chiamata, attraverso parole e fatti che lui esprime nella sua cultura. Il suo sì o il suo no sono sempre un dato fortemente soggettivizzato, perché la decisione, in sé oggettiva, si manifesta dentro la vita e attraverso le sue espressioni personali.
    In questo modo il dono di Dio e la risposta dell’uomo sono sempre un evento storico, realizzato in libertà, responsabilità, amore. Per questa ragione, siamo spinti a dire il Vangelo di Gesù in una fedeltà che sa rinnovarsi, sotto le provocazioni dei cambi culturali. Non si tratta infatti di ripetere passivamente l’esperienza cristiana, ma di renderla vitalmente e comprensibilmente presente in altre culture.
    Riconosciamo che la potenza dello Spirito rende la nostra «parola» capace di suscitare ed esprimere la fede. Lo fa sempre nella trama delle logiche umane quotidiane cui ha deciso di non sfuggire neppure la parola di Dio.
    Questa consapevolezza mi porta a legare intensamente la funzione della comunità ecclesiale in ordine alla salvezza con la categoria dell’appartenenza e con il suo indice di intensità.
    La ragione è presto detta, almeno a livello di sintesi.
    La comunità ecclesiale funziona come mediazione in ordine alla proposta del dono di Dio e alla sua accoglienza. Essa sostiene e incoraggia, orienta e guida la nostra decisione di riconoscere come dono prezioso per la vita la vicinanza di Dio alla nostra esistenza e di accogliere con entusiasmo, riflesso e creduto, questo dono.
    Il dato (e cioè la funzione di mediazione) non scatta mai in modo automatico, almeno nel ritmo normale della vita cristiana. Ha invece bisogno di una dimensione esperienziale. La Chiesa diventa mediazione quando esercita in concreto una funzione di sostegno e di guida.
    Tutto questo va detto con categorie verificabili: è troppo rilevante la questione per accontentarsi di parole ad effetto. L’appartenenza - categoria verificabile, misurabile, educabile - può rappresentare la misura concreta della funzione di mediazione salvifica esercitata dalla comunità ecclesiale, nel concreto di persone e tempi.
    Su questa convinzione si fonda la mia proposta: quel sostegno alla vita di fede che sentiamo il bisogno di assicurare e, di conseguenza, la sfida alla pastorale giovanile attuale, passano attraverso la ricostruzione di un maturo senso di appartenenza ecclesiale.

    Quale appartenenza

    Appartenenza significa sentirsi parte di un gruppo e consiste nella condivisione con il gruppo, di comportamenti, modi di pensare e atteggiamenti. Alla base dell’appartenenza si trova, in genere, un processo di identificazione, in cui la sfera dell’Io si identifica con il Noi, e che permette di riconoscersi e di essere riconosciuti come membri di un gruppo anche attraverso l’assunzione di alcuni segni distintivi.
    L’appartenenza diviene consapevole tramite la riflessione sulla propria identità, sui propri valori e sui valori condivisi con i gruppi di cui si fa parte. La consapevolezza delle proprie radici e della propria storia e cultura crea le condizioni per un’appartenenza che sia anche possibilità di riconoscere il diverso e di apertura e di confronto con l’altro.
    Questo modello di appartenenza si riferisce, prima di tutto, ai gruppi e alle istituzioni della nostra vita quotidiana.
    L’indicazione vale anche per la comunità ecclesiale.
    La sua funzione costitutiva di «mediazione sacramentale» per la salvezza è legata in concreto alla sua capacità di diventare luogo di identificazione e, di conseguenza, luogo di appartenenza, nel senso appena indicato.

    Condizioni di appartenenza

    Sono abbondanti gli studi e le ricerche che riguardano le condizioni di appartenenza. Molti ricercatori, infatti, sono interessati a verificare attraverso quali processi viene generata l’identificazione ad una istituzione.
    Organizzando i loro contributi è abbastanza facile fornire un elenco delle condizioni necessarie per costruire e consolidare l’appartenenza.
    - Si richiede prima di tutto un minimo di interazioni dell’individuo con l’istituzione a cui si vuole appartenere. Questo minimo non va pensato in termini giuridici, ma secondo le logiche della dinamica di gruppo (condivisione degli obiettivi, percezione del significato funzionale del gruppo, accettazione delle norme e dei ruoli, esperienze di gratificazione...).
    - Occorre anche la conoscenza e l’accettazione del sistema di valori, credenze e modelli che determinano la proposta oggettiva dell’istituzione in questione, fino a definire progressivamente in essi il personale progetto di vita. Nel caso della comunità ecclesiale, questo processo comporta l’acquisizione e il consolidamento dei contenuti dell’esperienza cristiana, la partecipazione affettiva ai gesti e ai riti, il riconoscimento di una funzione magisteriale, l’adozione dei modelli proposti per la soluzione dei personali problemi.
    - Si richiede inoltre l’esperienza soggettiva di essere accettato nell’istituzione. E questo suppone l’inserimento in una trama di rapporti né burocratici né formalizzati, un’ampia distribuzione di informazioni e di ruoli, un insieme di persone non troppo vasto.
    - In un tempo di pluralismo, si richiede infine la capacità di armonizzare a livello personale le diverse appartenenze, per elaborare i conflitti che ne scaturiscono, integrando e controllando le differenti proposte attorno ad una appartenenza che funzioni come riferimento totalizzante.

    La Chiesa cui appartenere

    La categoria dell’appartenenza è importante per dare spessore verificabile al dato teologale della mediazione ecclesiale in ordine alla salvezza cristiana.
    Non è però sufficiente misurarsi sul senso di appartenenza e non basta, di conseguenza, inventare e consolidare realizzazioni adeguate. Una seconda questione rimbalza decisamente: a quale esperienza ecclesiale vogliamo assicurare appartenenza?
    Non è sufficiente, in altre parole, assicurare un buon livello di appartenenza ad una istituzione formalmente ecclesiale. Per tutelare una reale funzione di mediazione salvifica, è indispensabile che questa istituzione sia veramente ecclesiale, adegui cioè tutte le condizioni che la fanno ecclesiale, secondo il livello di maturazione attuale della coscienza credente.
    E qui nasce la nuova difficoltà.
    Molti giovani si sentono appartenenti ad una realtà ecclesiale… perché hanno vissuto forti esperienze ecclesiali, si riconoscono in un movimento o hanno nostalgia di un avvenimento forte. Per essi il riferimento è a quel frammento di Chiesa che hanno incontrato. È sufficiente, o qualcosa va integrato per restituire quella funzione di sostegno alla vita cristiana, di cui avvertiamo l’urgenza, in una stagione di soggettivizzazione e di esperienzialismo? Certo, non è sufficiente ritrovarsi identificati in qualche esperienza riuscita o affidarsi a qualche persona accogliente. È indispensabile il riferimento alla Chiesa nella sua verità.
    La Chiesa, infatti, ha una sua precisa e impegnativa identità, che non può essere messa tra parentesi per favorire meglio l’appartenenza.
    Per raggiungere l’obiettivo che ci sta a cuore, non è sufficiente perciò immaginare esperienze che alzino l’indice di appartenenza. Vanno programmate esperienze che assicurino l’appartenenza ad una istituzione di autentica ecclesialità. L’appartenenza alla istituzione, capace di identificazione, deve coincidere con l’appartenenza a quella istituzione ecclesiale che corrisponde al progetto normativo di ecclesialità, presente nella coscienza ecclesiale attuale ufficiale.
    Di qui la questione su cui articolare la sfida alla pastorale giovanile: dove si realizza il livello normativo di ecclesialità? Come possiamo ricostruire, in questa stagione culturale, quel senso maturo di appartenenza che restituisce alla comunità ecclesiale la sua irrinunciabile funzione di mediazione salvifica? Se vogliamo far scoprire la Chiesa, non ci basta sicuramente percorrere la via dell’informazione: parole, documenti, modelli… in questa situazione culturale lasciano davvero il tempo che hanno trovato. È necessario intervenire educativamente per educare al senso di appartenenza e assicurare una consistente verità ecclesiale alla istituzione verso cui giochiamo il senso di appartenenza.
    Da sempre la Chiesa si è autodefinita su alcune «dimensioni» fondamentali. Esse rappresentano le condizioni pregiudiziali che una comunità deve assicurare per arrogarsi il titolo di Chiesa.
    La Chiesa postconciliare le ha formulate in modo rinnovato rispetto alle dichiarazioni precedenti. Le ricordo brevissimamente.
    La Chiesa è quella comunità di uomini in cui sono presenti globalmente le seguenti caratteristiche:
    - accoglienza della Parola di Dio, che convoca e spinge verso la missione;
    - un «popolo», uomini che prendono atto dell’invito salvifico di Gesù e si radunano in comunità, professando la stessa fede, celebrando la stessa liberazione escatologica, e si sforzano di vivere nella sequela di Gesù il Signore;
    - i Sacramenti e soprattutto l’Eucaristia, epifania della Chiesa stessa;
    - Il Vescovo con il suo Presbiterio, principio e fondamento visibile di unità e di comunione interna;
    - un territorio, in cui vivere in contesto l’esperienza cristiana;
    - il servizio all’uomo nella condivisione promozionale, per realizzare nella storia il Regno di Dio;
    - l’esperienza di intensa comunione, per offrire un segno e una anticipazione della salvezza di Dio, ricostruzione della comunione degli uomini con Dio e tra loro.

    I GIOVANI VERSO LA CHIESA

    Il confronto con molte interessanti realizzazioni spinge a riconoscere l’urgenza di fare proposte facendo fare esperienze forti. Lo documentano gli studi precedenti. Lo esige anche la qualità della proposta cristiana, che non può essere ridotta a qualcosa di scontato e tranquillizzante.
    In una situazione culturale come è l’attuale, non possiamo però dimenticare che l’urgenza di fare proposte è fortemente collegata alla qualità delle proposte stesse. Soprattutto non possiamo ignorare, in qualsiasi proposta, la necessità inderogabile di assicurare sempre le condizioni irrinunciabili per favorire l’interiorizzazione della proposta e la sua capacità liberante e responsabilizzante.
    Inoltre, in un tempo di larga complessificazione è doveroso offrire pluralità di proposte, come espressione differenziata di un quadro unitario fondamentale. Questa pluralità di proposte è una risposta a situazioni differenziate. In questo modo le proposte diventano concrete, aperte verso tutti, orientate verso i referenti concreti cui vogliamo rivolgerci.
    Come realizzare tutto questo?
    Suggerisco tre linee di azione che traducono in modelli operativi quello che ha permesso a tanti giovani di ritrovare anche oggi la gioia di riconoscersi nel dono della comunità ecclesiale.

    Ricostruire luoghi da «vieni e vedi»

    Le proposte oggi passano attraverso la via del «fare esperienza». In fondo, la grande proposta, capace di affascinare, è ancora una volta quella del «vieni e vedi». Solo facendo esperienza di qualcosa di bello, significativo, di cui resta una dose alta di nostalgia, è possibile suggerire modelli alternativi a quelli dominanti.
    Lo documenta, con forza, quello che molti giovani hanno sperimentato durante le «giornate mondiali della gioventù» o in eventi simili.
    Due indicazioni vanno sottolineate:
    - la ricostruzione di eventi capaci di risultare significativi è affidata alla responsabilità e alla fantasia degli operatori di pastorale giovanile. Privando la comunità ecclesiale dei tanti elementi che la fanno una esperienza da ricordare, magari per una falsa pretesa di purificazione, le si toglie la possibilità di essere ricordata come una compagnia affidabile;
    - certo, l’operazione non può essere vissuta come concorrenziale rispetto alle logiche dominanti. La comunità ecclesiale risulterebbe sempre perdente, in questo sciocco confronto. E soprattutto si potrebbe rendere colpevole di aver abituato a valutare come significativo solo quello che appare e luccica. La dimensione di «messaggio» razionale ed esigente va assicurata sempre anche in questa operazione. Lo sappiamo bene, ripensando ancora una volta alla forte esperienza delle «giornate».

    La funzione irrinunciabile di persone incontrate

    Molti giovani ricordano l’incontro con persone (in cui hanno incontrato la Chiesa). L’incontro è stato il punto di scatenamento e di avvio di un processo che ha prodotto una riscoperta matura dell’appartenenza ecclesiale.
    Ancora una volta le ricerche documentano il fatto. Esse ci spingono, in prospettiva educativa, a riconoscere l’urgenza di:
    - esperienze forti, capaci di scatenare attenzione e crisi, per aprire verso l’inedito;
    - personalità forti, capaci di creare identificazione e ascolto.
    Lo esige anche la qualità della proposta cristiana, che non può essere ridotta a qualcosa di scontato e tranquillizzante.

    Un processo educativo

    Per immaginare un processo educativo verso la condivisione matura del senso di appartenenza ecclesiale, il discorso si farebbe lungo.
    Sottolineo solo qualche battuta di un ipotetico itinerario educativo. Esso parte dall’ipotesi che l’appartenenza è fondamentalmente una esperienza, riflessa e critica, ma sempre una esperienza e non una semplice conoscenza o un inserimento fisico, come quello che faceva riconoscere «cristiani» perché nati in un contesto cristiano.
    Questi potrebbero essere i movimenti ideali.

    Primo movimento: verso una prima esperienza di condivisione.
    Molti giovani vivono in situazione di disgregazione e di anonimato. Altri, invece, tendono a consumare lo stare assieme, svuotandolo di ogni significato e di ogni ragione.
    In questa situazione, non c’è molto spazio per l’esperienza ecclesiale: manca quella dimensione di comunione ricostruita e sognata che è il suo fondamento.
    Il primo movimento propone come meta il superamento di questa situazione: dalla dispersione o dalla aggregazione-senza-ragioni allo stare assieme per una causa (anche piccola), che permetta una iniziale esperienza di comunione mirata su un progetto che abbia un senso oltre il semplice consumo.

    Secondo movimento: uno stile «evangelico» di condivisione.
    Per arrivare alla Chiesa partendo da iniziali esperienze di aggregazione è indispensabile fare dell’aggregazione un luogo dove si respiri una reale esperienza di comunione, secondo lo stile dell’evangelo, e dove questo frammento di vita nuova sia rilanciato verso un progetto più grande, che lo sostiene e lo consolida nell’orizzonte del mistero di Dio.
    Tutto questo richiede la capacità di organizzare la vita di gruppo e la sua proiezione verso l’esterno secondo modelli alternativi rispetto al ritmo spontaneo. E richiede la capacità di entrare dentro l’esperienza vissuta, alla ricerca delle ragioni profonde. In fondo, richiede la capacità di cercare senso e speranza, accettando di sfondare il personale vissuto per aprirsi verso l’inedito e l’inatteso: una sfida davvero grande per l’attuale pastorale giovanile troppo autoreferenziale.
    Questa meta viene assicurata sulla forza della «testimonianza» di qualcuno che dà le ragioni dei gesti di speranza che pone (i giovani più impegnati, adulti significativi, personaggi ecclesiali, esperienze e celebrazioni...).

    Terzo movimento: finalmente la Chiesa.
    Finalmente possiamo chiamare per nome la Chiesa: la comunità dove si fa esperienza di aggregazione e di impegno, è una piccola Chiesa, vicina, sperimentabile, coinvolgente. Non siamo ancora giunti alla piena esperienza di Chiesa; ma solo all’incontro con una realtà concreta, «mediazione» di Chiesa. È importante riconoscere che essa è già vera esperienza di Chiesa, anche se non è ancora tutta la Chiesa. Attraverso l’identificazione con questa concreta esperienza di Chiesa, nasce, viene sostenuta e progressivamente ampliata l’appartenenza alla Chiesa.

    Quarto movimento: verso la piena appartenenza ecclesiale.
    Il quarto movimento può essere formulato così: dalla piccola Chiesa alla scoperta progressiva della grande Chiesa (la Chiesa «istituzione»: con i suoi compiti e le sue responsabilità).

    LA CHIESA VERSO I GIOVANI

    Un buon processo educativo non è sufficiente. Si esige la ricostruzione di una esperienza ecclesiale forte che sappia proporsi come evento accogliente e salvifico, con cui accettare gioiosamente di confrontarsi.
    L’educazione al senso di appartenenza ecclesiale passa quindi anche per una «conversione» ecclesiale, a partire dai compiti e dalle responsabilità: sogniamo un volto rinnovato di Chiesa per impegnarci tutti a far spazio all’operosità dello Spirito per la sua realizzazione.
    Faccio solo qualche esempio, per ricordare cose su cui abbiamo meditato tante volte e, forse, sognato nei momenti più difficili. Ripeto cose già espresse in altre circostanze. Lo faccio non per una scelta di comodo, ma nella speranza che a forza di confrontarci con esigenze serie e impegnative qualche germe di novità riusciamo a far spuntare nel terreno un poco arido del nostro vissuto quotidiano. Per questo rilancio alcune pagine degli «Atti degli Apostoli», per radicare su una radice sicura e inquietante la nostra voglia di futuro. Le avevo suggerite in un articolo precedente, commentando l’eredità dell’Enciclica «Deus caritas est». Le riaffermo con decisione anche in questo contesto.
    Non basta alla pastorale giovanile riconoscere la necessità di un «grembo materno» all’orfanità diffusa. Si esige quella conversione ecclesiale che faccia della Chiesa e delle sue espressioni concrete una compagnia gradita e affidabile, per evitare che alla fame di pane si risponda offrendo un sasso duro e acido.

    Un annuncio che restituisce vita

    Incomincio con una pagina che riassume operativamente tutta la prassi di Gesù e ci consegna suggerimenti concretissimi.
    Mi riferisco alla storia di Pietro che guarisce lo zoppo alla porta bella del Tempio (Atti 3 e 4).
    Il racconto degli «Atti» ci propone il fatto e ci offre la sua interpretazione nella difesa a cui Pietro è costretto nei confronti di coloro che avrebbero preferito la tranquillità del tempio alla guarigione dello zoppo.
    Le parole di difesa di Pietro danno da pensare. Da difesa diventano attacco: giudizio su un modo di vivere la fede che la tradisce.
    Lo zoppo, guarito dal racconto della storia di Gesù, grida tanto di gioia che lo fermano per schiamazzi nel recinto sacro del tempio. Quando i sommi sacerdoti vengono a sapere che c’è stato di mezzo Pietro, interrogano lui, per andare alla radice del disordine. Qui viene il bello. Pietro dice: «Sapete perché questo zoppo cammina dritto e sano? Perché tutti sappiano che non possiamo essere vivi se non in quel Gesù che voi avete crocifisso e ucciso e il Padre ha risuscitato da morte».
    C’è un riferimento stretto tra la storia di Gesù, la guarigione fisica dello zoppo e la vita piena (anche contro la morte).
    Rispetto a quello che conosciamo della prassi di Gesù per la vita, Pietro aggiunge qualcosa di nuovo e di inedito. Non solo guarisce come ha fatto tante volte Gesù, ma racconta anche la storia di Gesù. Al gesto, per la cui realizzazione Gesù spesso ha chiesto la fede in lui e nella potenza del Padre, Pietro aggiunge il racconto della sua fede appassionata nel Crocifisso risorto. Dice, con forza, che solo in questa fede, impegnata a confessarlo ormai come il vivente, è possibile avere pienamente e definitivamente la vita. Il racconto della storia di Gesù nella confessione di fede dei suoi discepoli, l’entusiasmo e la fede che suscita in coloro cui è rivolto, danno la pienezza della vita. C’è un intreccio profondo tra guarigione e confessione che Gesù è il Signore. La guarigione risolve i problemi fisici. La confessione di fede nel Risorto supera le barriere della morte fisica e assicura una pienezza impensabile di vita, nonostante la morte.
    I due momenti non sono però slegati. Si richiamano invece reciprocamente. Il gesto che ha ridato vita alle gambe rattrappite dello zoppo, dà forza e serietà alla proposta di Gesù; la decisione che dà pienamente la vita, offerta come dono misterioso e accolta nella fede, va oltre la guarigione: riguarda un gioco di libertà e di amore, un sì ad un mistero di vicinanza. Senza questa decisione di fede nel Signore Gesù non c’è vita piena; nonostante l’eventuale guarigione dalla malattia o la liberazione dall’oppressione resteremo prigionieri della morte, presto o tardi.

    Un modo di risolvere i problemi

    Il secondo fatto riguarda soprattutto i criteri attraverso cui la Chiesa apostolica ha risolto i problemi, anche quelli gravi e laceranti.
    Sull’urgenza di affrontare problemi gravi la Chiesa apostolica ci assomiglia. Forse le assomigliamo meno sul modo di risolverli.
    Mi riferisco al cap. 15 degli «Atti».
    A prima vista lo scontro di Antiochia riguardava la circoncisione e la legge mosaica. Alla radice però stava l’atteggiamento verso il presente, che ormai si stava facendo lungo e ingovernabile, e la priorità fontale della salvezza di Gesù.
    Problemi come questi andavano risolti. E in fretta.
    L’assemblea di Gerusalemme non cerca di spezzare un capello in quattro, raffinando analisi e documentazioni. Neppure cerca quel tanto di compromesso che assicura l’unanimità sul minimo. Propone, al contrario, una conclusione innovativa attraverso una criteriologia di verifica assai originale.
    Pietro racconta la sua esperienza, quell’avventura stranissima di cui è stato protagonista a Giaffa (Atti 10, 9-30). Da buon discepolo di Gesù, che si riconosce pieno dello Spirito, sembra dirci: ascoltiamo i fatti. In essi parla lo Spirito, se ci lasciamo guidare da lui, anche nell’interpretarli correttamente. Nel fatto citato lo Spirito dichiara, attraverso l’interpretazione autorevole di Pietro: «Dio che conosce il cuore degli uomini ha mostrato di accoglierli volentieri: infatti ha dato anche a loro lo Spirito Santo, proprio come a noi. Egli non ha fatto alcuna differenza fra noi e loro: essi hanno creduto e perciò Dio li ha liberati dai loro peccati». La stessa procedura è realizzata da Paolo: anche lui racconta quello che è successo, per far toccare con mano da che parte sembra orientare lo Spirito. Tra l’altro, fa una cosa che potrebbe creare meraviglia e disappunto alla gente seria come siamo noi: durante il viaggio verso Gerusalemme, alla ricerca della soluzione del problema, non resta con le mani in mano né aspetta la soluzione prima di muoversi, ma annuncia il vangelo ai pagani, nello stesso stile con cui lo si faceva ad Antiochia, scatenando le polemiche.
    Poi interviene un altro riferimento decisivo, frutto della sapienza di Pietro e di Giacomo, un altro di quei criteri che riesce a portare a decisioni di futuro, costringendo a schizzare fuori delle beghe intellettualistiche.
    Pietro e Giacomo propongono di spostare l’attenzione dai principi a quella esperienza normativa fatta da tutti loro stando con Gesù: la possibilità di sperimentare la bontà di Dio. Continuando la prassi di Gesù, bisogna far sperimentare agli uomini chi è Dio: il Padre buono e accogliente, che non chiede cose inutili, come invece fa chi comanda per il gusto di farsi obbedire. Non è possibile annunciarlo nella verità, se la parola proclamata viene poi accompagnata da una serie di pretese inutili, motivate sul compromesso e sulla paura.

    Testimoni di speranza

    Cito un altro fatto, tra i molti che gli «Atti» ci raccontano. Sta proprio all’inizio del libro (cap. 1).
    Pietro ha bisogno di indicare alla comunità apostolica una persona a cui affidare in pieno titolo tutti i compiti che derivano dalla vocazione apostolica. Non gli basta constatare che uno dei due possibili candidati è tanto bravo e onesto, da portarsi dietro il soprannome di «Giusto». La disponibilità vocazionale ha bisogno di qualcosa di più consistente e radicale.
    Pietro suggerisce così due riferimenti per operare il necessario discernimento vocazionale: la confessione che solo Gesù è il Signore e la capacità di essere gente di speranza sulla forza della resurrezione.
    Il posto lasciato libero da Giuda è per una persona che abbia conosciuto Gesù, abbia camminato con lui fin dall’inizio, sia un testimone sicuro e di prima mano.
    Il criterio per noi potrebbe sembrare impossibile. Non si cancellano duemila anni di storia trascorsa. Eppure il suggerimento è davvero serio e impegnativo. Senza condivisione appassionata di una persona e della causa che ha riempito l’esistenza di questa persona, diventiamo impiegati e non apostoli.
    Mi sono chiesto cosa significa tutto questo per noi oggi. La risposta è facile, anche se mette in crisi. Noi possiamo tradurre il criterio di Pietro con l’espressione fondamentale: va scelta una persona affascinata dal Signore Gesù, capace di porlo al centro della sua esistenza. Si tratta, in altre parole, di scegliere la nuova responsabilità in Gesù e per Gesù, evidentemente per la causa di Gesù, in fedeltà a quanto i Vangeli dicono di Gesù e della sua esistenza. Non sono ammesse persone che abbiano secondi fini, anche i più nobili dal punto di vista religioso.
    Il secondo elemento rilancia il coraggio di servire con decisione la speranza.
    Pietro dice: il posto di Giuda è per una persona che sia capace di diventare «testimone della resurrezione».
    Essere testimoni della resurrezione significa dichiarare con i fatti che il Crocifisso è il Risorto: colui che era stato distrutto, fino a togliergli persino il volto di uomo nel nome della legge, ha vinto la morte ed è vincitore per tutti. Il testimone della resurrezione è una persona di speranza, che inonda di speranza e di ottimismo, per la potenza di Dio, ogni fatto della vita quotidiana.

    Restituire libertà per chiamare a responsabilità

    Anche nella Chiesa di oggi ci sono situazioni in cui risuonano l’applauso, l’entusiasmo e il consenso. Ce ne sono altre in cui la persecuzione ritorna violenta come ai tempi di Paolo e nei primi secoli della storia della Chiesa. Entusiasmo e contestazione qualche volta hanno come referente la stessa persona, oggi come allora.
    Gli «Atti» raccontano un episodio capitato a Listra, una città lontana di tempo e di spazio. Basta cambiare città, nazione e riferimento personale, e l’avventura di Paolo e Barnaba, la loro reazione e il loro coraggio possono diventare anche la nostra, in una Chiesa che sa amare.
    Quello che è capitato lo si descrive con poche battute. Paolo suscita un consenso strepitoso tra la folla, per le cose che dice e per i gesti con cui le accompagna. E l’entusiasmo va alle stelle. Gli bruciano l’incenso davanti e si chinano ad adorarlo. Le stesse persone, sobillate da qualche infiltrato, poco dopo lo vorrebbero linciare. La strada dall’adorazione alla contestazione è brevissima.
    Sono fatti di cronaca quotidiana, come ricordavo poche righe sopra. Per questo, non mi interessano più di tanto.
    Mi sta invece a cuore scoprire la reazione di Paolo e, fin dove è possibile, le ragioni che la giustificano. Il fatto raccontato passa così dalla cronaca alla proposta proprio sulla forza di questi atteggiamenti.
    Paolo non ci sta affatto ad essere trattato come fosse un dio. Non si pone neppure la questione dei vantaggi che potevano derivare al suo ministero di evangelizzatore. Lo sapeva certamente, anche d’esperienza diretta, quanto è disponibile all’ascolto una folla sedotta dal fascino e quanto l’applauso può ricadere a vantaggio della causa che lui sta proponendo e servendo. Ma questo modo di vedere le cose non era per niente il suo.
    Non poteva essere l’atteggiamento dei discepoli, pieni dello Spirito di Gesù, perché così li aveva educati Gesù stesso, a fatti e a parole.
    Strano formatore questo Gesù che chiama a cose impegnative, facendo balenare dolori e privazioni che il sì al suo invito avrebbe assicurato. Sono in pochi a condividere questo stile di fare proposte, anche oggi.
    Nello stesso tempo, le persecuzioni e le minacce di morte non fermano né Gesù, né i suoi discepoli, né tanto meno Paolo. A Listra, dopo il linciaggio, con le poche energie che è riuscito a recuperare, continua nel suo impegno di evangelizzatore.

    SPERIMENTARE LA CHIESA NELLA CELEBRAZIONE EUCARISTICA

    Termino con una convinzione che si fa compito: tutte le cose dette si concretizzano in quell’evento speciale, sperimentabile, sacramentale (nella sinergia dell’umano e del divino) che è rappresentato dalle celebrazioni liturgiche, quelle eucaristiche in modo speciale. La pastorale giovanile deve, in altre parole, riscoprire l’Eucaristia come evento dato-da-accogliere, in una comunione universale, che restituisca a quella esperienza di verità, forte e vissuta, che non possiamo più né abbandonare ai nostalgici intransigenti né trascurare come cosa di altri tempi.
    La celebrazione eucaristica, infatti, è l’evento, speciale e originale, in cui la comunità ecclesiale sa cogliere le sfide che i giovani di questo tempo lanciano ai discepoli di Gesù e dove la proposta del suo Vangelo diventa grande esperienza di speranza.
    Questo è il dato che tutti riconosciamo. Esso rappresenta certamente la convinzione più profonda e il fondamento del nostro ministero.
    Lo deve diventare sui fatti del ritmo quotidiano. Così l’Eucaristia diventa veramente l’attesa, desiderata e sperimentata, che fa dire anche ai giovani di questo nostro tempo «senza la domenica non possiamo vivere». E diventa la porta che si apre verso la vita quotidiana, per trasformarla nel Vangelo: «se condividiamo il pane eucaristico, come non condivideremo quello quotidiano?».
    La fiducia verso l’educazione ci spinge a passare dalle affermazioni solenni a progettazione di prassi rinnovate.
    Il recente Sinodo sull’Eucaristia ci aiuta.

    Un evento per una nuova scansione temporale

    La nostra è una stagione di crisi del rapporto tra passato, presente e futuro. Il Vangelo della speranza richiede la ricostruzione di questa scansione.
    L’Eucaristia è la grande festa cristiana del presente tra passato e futuro, tra memoria e profezia.
    Il passato è rievocato come sorgente e ragione della festa nel presente. Non è il greve condizionamento che pesa sul presente; ma l’avvenimento che gli dà senso e lo riempie di ragioni.
    Viene anche anticipato il futuro. La celebrazione eucaristica è scoperta felice dei segni della novità anche tra le pieghe tristi della necessità del presente. Per questo, possiamo vestire nel presente i panni fantasiosi del futuro, senza passare per uomini che fuggono quelle responsabilità cui chiama ogni presente. Essa è quindi una grande esperienza trasformatrice. Aiuta a spezzare le catene del presente, senza fuggirlo. È un piccolo gesto di libertà, che sa giocare con il tempo della necessità e sa anticipare il nuovo sognato: il regno della convivialità, della libertà, della collaborazione, della speranza, della condivisione.

    Nella verità

    È importante ricordare che tutto questo non si realizza in un gioco d’intese, di realizzazioni o di compromessi. La sua radice è invece il mistero di Dio, reso presente nella pasqua del Crocefisso risorto.
    Lo stretto collegamento tra celebrazione e vita quotidiana sollecita chi è tentato a leggere la propria esperienza solo dalla prospettiva del suo esito, quando asciugata ogni lacrima vivremo nei cieli nuovi e nella nuova terra, a misurarsi coraggiosamente con i gesti della necessità, nel tempo delle lacrime e della lotta. Nello stesso tempo, immerge nel futuro la nostra piena condivisione al tempo: in quel frammento del nostro tempo che è tutto dalla parte del dono insperato e inatteso. Dalla parte del futuro, il presente ritrova la sua verità, il protagonismo soggettivo accoglie un principio oggettivo di verificazione.
    In questa discesa verso la sua verità, siamo sollecitati a restare uomini della libertà e della festa, anche quando siamo segnati dalla sofferenza, dalla lotta e dalla croce. Ritroviamo quella intensa esperienza di verità e di autenticità, in una stagione in cui siamo sedotti da mille false prospettive e in cui persino il servizio alla vita mette in dubbio la logica evangelica del seme che sottoterra muore per diventare pane per tutti.

    Verso la vita quotidiana di tutti

    L’Eucaristia spalanca verso la vita quotidiana.
    Abbiamo ritrovato il senso più profondo della vita, dell’amore, del dolore e della morte, immersi nella pasqua del Crocifisso risorto. E torniamo alla vita di tutti, per consolidare la compagnia con tutti e aiutarci reciprocamente a vivere, trasformando la realtà, secondo il progetto di Dio che abbiamo incontrato e celebrato, in una compagnia che accoglie e che sostiene.
    L’invito a spalancare le porte della nostra comunità ecclesiale per immergerci nella responsabilità sociale, culturale, politica nasce dall’Eucaristia e ci spinge a ritornare continuamente ad essa per ritrovare senso e fondamento.
    Nella celebrazione impariamo a cantare i canti del Signore anche in terra straniera. Riusciamo a cantarli, in una convivialità nutrita di speranza, in questa nostra terra. Cantando i canti del Signore in terra straniera, la riscopriamo la nostra terra, provvisoria e precaria, ma l’unica terra di tutti.
    Cantando i canti del Signore, la terra straniera diventa la nostra terra, proprio mentre sogniamo, cantando, la casa del Padre.
    Il sogno a cui ci trascina l’Eucaristia è un sogno speciale. Esso ha Dio come protagonista. Lui è il nostro sogno di futuro che ci permette di vivere il presente, anticipando frammenti di futuro fino alla pienezza del nostro sogno, sperimentata nella gioia. Egli fa realizzare i sogni. Dalla parte del futuro scopriamo meglio, con un sguardo molto più penetrante, il limite che attraversa il nostro presente. Non ci disperiamo e nemmeno ci rassegniamo. Continuiamo a sognarlo, nella certezza che i nostri sogni, proprio quando sono belli davvero, avremo la gioia di vederli realizzati.


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